Il tamerisco

Un incendio investì un angolo del giardino folto di cespugli e piante. L’incendio bruciò tutto anche l’unico cespuglio di tamerisco esistente nel giardino. Prima in piena estate, questo cespuglio faceva bella mostra di sé con i suoi lunghi pennacchi fioriti in un bel colore rosa carico. Dopo l’incendio l’occhio correva nel punto dove prima c’era il tamerisco. Ora non c’era proprio più nulla. Ma la Provvidenza riserva una bella lezione. Nella tarda primavera, tra l’erba folta, emersero alcuni “getti” … un po’ particolari. “Saranno erbacce, o … getti del tamerisco?”. Con l’andar del tempo, la forma, il tipo di foglie, parlavano da sé! Era proprio lui … Quei getti sembrava dicessero: “Sono proprio io. Rieccomi qui!”. Infatti, nella tarda estate, quel modesto cespuglio fiorì. È vero, era un misero cespuglio, paragonato a quello di prima. Ma la grande prova ormai era passata. Il tamerisco era rinato. Quale fu mai il segreto del tamerisco? Non c’era dubbio: le sue radici. Erano rimaste vive le sue radici! E, si sa, le radici sono il cuore della pianta. E contengono tutta la pianta. E se sono sane, anche se la pianta è stata distrutta, c’è sempre speranza. Era una grossa lezione. Radici nascoste; radici sane; radici profonde; radici ben vive. E la mente corre all’uomo, e al cristiano. La vita, si sa, è piena di prove e a volte ben grosse. Come in questo periodo di pandemia che sta mettendo a dura prova tutti quanti. Ma ciò che conta è l’uomo interiore. Fuori c’è il tronco, ci sono i rami, le foglie, i fiori, i frutti … e ci vogliono! Ma il segreto di tutto, sta nel profondo: nella radice, che della pianta è il cuore. Dunque, è l’uomo e il cristiano che è di dentro, che bisogna coltivare, formare e assicurare. In gergo semplice, noi siamo soliti dire: “È il cuore dell’uomo che conta”. Infatti il cuore è l’uomo interiore, il suo carattere, la sua anima, il suo spirito. E questo “uomo interiore”, bisogna che sia ben radicato nel profondo, in Dio. Perché è Dio la sorgente stessa della vita. Allora, anche gli uragani più forti, gli incendi più violenti, il virus così minaccioso, nonostante i loro disastri immani, potranno essere superati. Perché il cuore, cioè l’uomo interiore, è stato salvato. Perché ben nascosto e radicato nel profondo, e soprattutto radicato in Dio, che della vita è la sorgente, la Fonte. Chissà se questo fatto, così umile eppure così … ricorrente, non potrà suggerire anche a te, in questo tempo di pandemia, l’urgenza di radicarti sempre più in Dio, in una fede sempre più robusta, in una vita cristiana sempre più seria, sempre più ricca.

La sensibilità

Parliamo di sensibilità, una virtù che sta diventando rara, insieme alla finezza, sua compagna inseparabile. Il posto lasciato vuoto viene preso  –  sarebbe più esatto dire usurpato  –  dalla grossolanità, dalla indifferenza, dall’ottusità. Dunque la sensibilità è una di quelle virtù rarissime di cui si sono perse le tracce.  Se è ancora in circolazione (e non c’è motivo di dubitarne) si comporta da clandestina, e lo fa con uno stile di riservatezza, tanto da sfiorare l’invisibilità.  Per cui non è agevole riconoscerla. Vediamo, allora, di abbozzare i suoi lineamenti essenziali, in modo da mettere insieme una specie di identikit piuttosto attendibile. Possiamo dire che la sensibilità rappresenta una qualità fondamentale dell’amore o, se si preferisce, della carità. La carità ha tre gradini che corrispondono ad altrettanti imperativi. Il primo si colloca in una dimensione negativa: “Non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facessero a te”. Ossia, non far del male, non causare delle sofferenze. È un aspetto non certo trascurabile, ma non basta. Qualcuno così si giustifica: “Io non faccio niente di male a nessuno …”, non possono, per questo, ritenersi a posto. Quello può essere un atteggiamento egoistico, che tutela la propria comodità e giustifica l’indifferenza. L’amore non va confuso con l’amore del quieto vivere. Bisogna pervenire al secondo gradino, che rappresenta la novità evangelica: “Devi fare agli altri ciò che desidereresti gli altri facessero a te” (Mt 7,12). Siamo a un livello nettamente superiore. Infatti, qui è questione di fare, positivamente, del bene, e non solo di evitare di fare il male al prossimo. Tuttavia persiste pur sempre il rischio di rifilare all’altro il nostro bene, quello che abbiamo in testa noi, e che non è necessariamente il suo. C’è il pericolo di imprestare all’altro e trapiantare nell’altro i nostri desideri, le nostre esigenze. Occorre pervenire al terzo gradino: “Fa all’altro ciò che lui vorrebbe che tu gli facessi”. Quest è la sensibilità, che esige attenzione, delicatezza, intuizione, finezza, rispetto.

È questione di sintonia. Occorre scoprire ciò che l’altro vorrebbe da me in questo preciso momento, in questa situazione particolare, evitando di appioppargli il prodotto che decidiamo noi, e abbiamo stabilito noi in partenza. Ci sono negozianti abilissimi a soddisfare le tue richieste secondo le loro programmazioni e disponibilità di magazzino. Tu richiedi una cosa e loro, alla fine, ti convincono ad acquistarne un’altra. Nel campo della carità tale operazione risulta inaccettabile, e va respinta decisamente. La scena di un film. Due ricche signore impiegano il loro (abbondante) tempo libero in un centro sociale di accoglienza. Una sera sbarca lì una prostituta evidentemente frastornata e con un occhio pesto. E quelle, prima ancora di ascoltare le sue richieste, le sparano addosso una raffica di consigli, prediche, rimbrotti: quel mestiere non è dignitoso, deve ribellarsi al protettore che, oltre a sfruttarla, la maltratta, è necessario si cerchi un lavoro onesto, e via sermoneggiando. La poveraccia, dopo dieci minuti di quella grandinata di parole, reagisce: “Sentitemi bene … Io non sono venuta qui per ascoltare i vostri consigli. Ho bisogno soltanto di un cubetto di ghiaccio da mettere sull’occhio gonfio. Ce l’avete?”. “No, non teniamo ghiaccio in questo ufficio”. “E allora, se non avete un cubetto di ghiaccio, pazienza. Tornerò quando e se avrò bisogno di prediche”. “Potevi dircelo prima …”. “Siete voi che non me ne avete dato il tempo. Mi avete subito aggredita con le vostre chiacchiere e le vostre tirate moralistiche”. “Ma noi siamo qui per aiutarti …”.  “Sì, ma io ho bisogno di ghiaccio e voi ne siete sprovviste”.

La sensibilità è l’arte delle piccole cose.

La banalità del male

I grandi criminali non appaiono mai con i tratti del “mostro”, ma sembrano uomini normali, ordinari, grigi, senza segni  particolari di riconoscimento. Farebbe comodo vedere i carnefici, gli aguzzini come uomini di un’altra specie, usciti dall’umanità e passati nel campo della mostruosità. In tal modo saremmo in grado di individuarli a colpo sicuro e starne in guardia. Ma non è così. Il criminale estremo appare abitualmente come un individuo banale. E questo fatto risulta sconvolgente per noi, perché sta a dimostrare di quali crimini, atrocità, nefandezze l’uomo normale è capace. Domina una volontà di distruzione, azzeramento di tutte le regole, compresi i principi fondamentali della legalità. Salta quell’equilibrio grazie al quale il sapere produceva il bene, il quale produceva il bello, mentre il sacro illuminava ogni cosa.

Che cos’è la barbarie oggi? Barbarie è ciò che non è ancora o non è più “coltivato”, ciò che rimane o ritorna allo stadio della pura emotività, dell’istinto animale, ciò che degenera e inselvatichisce per mancanza di criteri e di valori che permettano di discernere cosa è bello e buono per il singolo individuo e per l’umanità intera. È la distruzione di quanto costituiva l’umanità, la perdita del senso della dignità dell’altro uomo, di colui che è diverso. La barbarie è la distruzione della relazione con l’altro.

Intendo dire le relazioni quotidiane, i valori, l’educazione. La barbarie può essere compresa in rapporto con la nozione di civiltà. Essa ha una stretta parentela con il male nella sua dimensione collettiva, là dove, attraverso l’azione delle persone, perverte le strutture e priva l’umanità del legame tra gli uomini.

In che modo il male intacca la vita? Si tratta sempre di “piccoli passi”. I piccoli passi sono gesti apparentemente irrilevanti, trascurabili, quelli appunto che compiamo quotidianamente senza starci troppo a pensare, magari per spirito di imitazione e spirito gregario, ma che contribuiscono ad avvelenare la nostra convivenza civile, svuotare di senso e contenuti l’idea di democrazia, pervertire la giustizia, trasformare la libertà, far saltare le più elementari regole morali, abbattere tutti i limiti della comune decenza, rendere, insomma, il mondo immondo. Diceva un bello spirito in tono sarcastico: “Eravamo sull’orlo dell’abisso e abbiamo fatto un deciso passo avanti …”.

Io ritengo, invece, ci sia la possibilità di fare qualche “piccolo passo” indietro. Perché sono convinto sia arrivato il momento in cui dobbiamo renderci conto che solo facendo qualche passo all’indietro abbiamo la possibilità di progredire. Virtù da ritrovare, valori da ricuperare, tesori da mettere in salvo: sensibilità, cortesia, regole di buona creanza, delicatezza, capacità di consolare, concretezza, premura per tutti i viventi, custodia del creato, chiarezza, voglia di pensare in proprio, resistenza, piacere dell’onestà, passione per la giustizia, indignazione, pulizia, rispetto, e altre cose ancora … Insomma, piccoli passi per scampare alla barbarie che minaccia di inghiottirci se ci ostiniamo ancora a procedere con gli occhi bendati verso il baratro. Piccoli passi verso un mondo meno disumano.

Piccoli passi per ritrovare un uomo più umano … Cercando umanità.

Don Giuseppe

Ho ritrovato l’amore: “Dio è più grande del tuo cuore”

In questo tempo pasquale, fermarsi a riflettere e soprattutto a vivere la dimensione del perdono è entrare in uno dei nodi cruciali del cristianesimo, ma anche della stessa società contemporanea. Credo sia esperienza diffusa la convinzione di vivere in una società in cui raramente si offre o si riceve il perdono. Insomma, il perdono è una cosa rara, oggi. Del resto, il contesto fortemente competitivo che caratterizza la vita dell’intera società, se per un verso spinge a condannare chi non riesce a stare al passo, dall’altro è ancora più duro con chi sbaglia. È una legge inesorabile: chi sbaglia paga, e spesso duramente. Non parlo del versante penale, ove tutto ciò ha una sua ragione. Mi riferisco all’atteggiamento di tanti, alla sensibilità della grande maggioranza, alla mentalità comune che è avara di perdono, di comprensione, di misericordia. Abbiamo così creato una società per tanti versi crudele, perché non lascia spazio alla debolezza, alla caduta, vorrei dire all’errore. Non è questo il mondo di Dio. Una volta lo stesso Signore provò a ripulire il mondo, una volta per tutte, dai peccatori: mandò il diluvio. Ma si pentì subito dopo, e accettò l’uomo nella sua debolezza e nel suo peccato. Intendiamoci, non tollerò il peccato, ma si accostò al peccatore. E da allora Dio si fece pastore, medico, amico di ogni uomo e di ogni donna, comunque bisognosi. Il “perdono” è essenziale alla vita, così come è forte la realtà del peccato e della debolezza. Senza il perdono qualsiasi società diventa crudele e alla fine fratricida. Abbiamo bisogno del perdono! Non funamboli, nel rischio e nella paura costante di cadere, ci vuole il Signore; ma pellegrini che, passo a passo, scalano la vetta luminosa del suo amore. Il cristiano non dovrebbe, anzitutto e tanto meno esclusivamente, chiedersi quante volte è caduto, proprio come un funambolo. Dovrebbe piuttosto chiedersi in quanti modi l’amore di Dio si è rivelato nelle persone, nelle situazioni, nelle ispirazioni, nelle gioie e nelle sofferenze del quotidiano pellegrinaggio. Da questa contemplazione della giornata che si fa lode, sarà più facile rilevare le distrazioni e le disattenzioni. Nel contrasto luminoso con tanti messaggi di amore da parte del Signore, il peccato risalterà maggiormente nella sua gravità. Quindi il tempo pasquale ci fa riconoscere come pellegrini verso l’amore: da schiavi, a mercenari, a figli. Cioè dalla paura della punizione e della preoccupazione del guadagno alla dignità e intimità di figlio. Attenti però, pellegrini: la docilità non è passività. Ci vuole attenzione. Attenzione necessaria per scegliere a ogni bivio la giusta strada. E ci vuole consapevolezza. Ad ogni bivio necessita la consapevolezza del peccato. Già il senso del peccato. Oggi molte persone dichiarano apertamente: non si comprende più nulla, non si riesce a capire con chiarezza quando è o non è peccato. Abbiamo in testa una grande confusione.

Qualcuno dice: ci saranno nella mia vita tanti atteggiamenti, comportamenti che io non reputo “peccato” e magari lo sono. Come fare per riavere più chiarezza nel definire il bene e il male? Come dire ad un’azione, ad un gesto: questo è peccato?  Un piccolo suggerimento, in questo tempo pasquale: prendiamo in mano il Vangelo, leggiamo più di frequente. Questa Parola illuminerà la nostra coscienza, ci aiuterà a prendere maggior consapevolezza

Don Giuseppe

Consegna generi alimentari

L’appello lanciato nella settimana pasquale dall’Associazione Il Bambù, per la raccolta di generi alimentari, ha dato un esito molto positivo: nel breve periodo di tempo sono stati raccolti nel cesto, posto in chiesa da don Giuseppe, una buona quantità di generi alimentari che verranno consegnati a famiglie bisognose.

La raccolta è proseguita anche dopo la Pasqua, con esito positivo: alcune persone, accogliendo il nostro invito, hanno continuato a portare generi alimentari  di prima necessità, dando così continuità alla nostra iniziativa. A tutti va il nostro ringraziamento.

Nel contempo, i volontari dell’Associazione stanno preparando altri 16 pacchi, destinati ad altrettante famiglie: la consegna verrà effettuata già dalla prossima settimana (tra martedì e mercoledì) dalla Protezione Civile del nostro comune, che ringraziamo vivamente.

Con questa consegna a domicilio riusciamo così, grazie al contributo di  persone generose, a mantenere il nostro servizio quindicinale.

Domenica della Divina Misericordia

Non si tratta di amare lo sbaglio, ma di essere fedele all’altro anche nel suo errore offrendogli uno spazio amico in cui la sua debolezza possa trasformarsi in forza.

Amare chi ha sbagliato vuol dire incoraggiare a sbagliare? Viviamo oggi dentro la cultura dell’intransigenza e della rigidità. Siamo cattivi e duri con chi sbaglia o con chi pensiamo abbia sbagliato. Si invocano con disinvolta facilità punizioni rigorose e anche la pena di morte. Non si crede che uno possa rialzarsi e rifarsi la vita. Non si sa il perché, ma noi siamo comprensivi con noi stessi, con i nostri errori e siamo cattivi con gli altri.

Pretendiamo comprensione, tenerezza, misericordia e poi riserviamo agli altri il giudizio pesante, l’ingenerosa esclusione. Se di fronte allo sbaglio uno è condannato e non trova perciò chi lo ama e crede ancora in lui, potrà egli risollevarsi e riprendere il cammino?

Il peccato nella Bibbia è indicato soprattutto come “sbagliare il bersaglio”. Il peccatore è uno che non raggiunge l’obiettivo, che non c’entra il bersaglio. Questo errore, consapevole o meno, gli impedisce di crescere e di costruirsi. Può l’uomo sentirsi persona in ricerca, senza ammettere di poter sbagliare? Può costruirsi, definirsi con una traiettoria lineare, progressiva, senza ammaccature o deviazioni? Gli sbagli, gli errori, non appartengono alla condizione umana, fatta di debolezza e di fragilità? Questi sbagli, o anche peccati, non possono trasformarsi in opportunità per individuare meglio l’obiettivo e capire di più la realtà e la vita?  Il giusto bersaglio non può chiarirsi attraverso vari tentativi a volte errati?

Se ci soffermiamo su Gesù osserviamo che il suo comportamento a questo proposito è illuminante. Mentre i farisei esigevano la conversione dei peccatori prima di salutarli e di parlare con loro. Gesù, invece, sta con loro, “mangia con loro” perché, amati, abbiano la forza di convertirsi. È l’amore che sprigiona un’energia creatrice capace di rovesciare le persone e le situazioni. Ritenere che una persona è più grande del suo sbaglio e che va amata anche dentro alla sua devianza, scatena e infonde una vigorosa volontà di riscatto. Non è la punizione che eliminerà il male e la cattiveria, ma una presenza amorosa e incoraggiante.Non si tratta di togliere le punizioni, ma queste devono essere mosse dall’amore: devono esprimere il giusto rimprovero per il male commesso, ma devono essere animate dalla speranza che ci potrà essere una rinascita perché la persona rimane sempre più grande del suo sbaglio. È un grande fraintendimento pensare che amare chi sbaglia o ha sbagliato significa amare o condividere lo sbaglio. Il papa Giovanni XXIII in una sua enciclica afferma: “Bisogna odiare il peccato, ma amare il peccatore”. Viviamo in una situazione in cui si verificano atti di feroce e incredibile violenza.

C’è in tutti una rabbiosa ribellione e una giustificata intolleranza. Il perdono sembra non soltanto una via debole nel fronteggiare i soprusi, ma addirittura la strada per incoraggiarli. A livello sociale e statale non è facile dosare le doverose leggi punitive con l’umano atteggiamento del recupero della persona. Il fatto che ci sia il rifiuto del perdono come modalità per ricomporre i dissidi, è una spia che ci fa capire che c’è un’idea non corretta di perdono. Possiamo pensare che Gesù abbia invitato al perdono per permettere il male e non come la via giusta per contrastarlo e sanarlo?

Don Giuseppe

Ogni domenica S. Messa ore 10.30 in streaming

L’esperienza delle celebrazioni trasmesse in streaming è stata per la nostra parrocchia una scommessa vinta. Siete stati in tanti a seguire la diretta e a rivedere in seguito la registrazione, che, lo ricordiamo per chi avesse problemi di orario, resta a disposizione sul canale YouTube della parrocchia. Da domenica quindi, fino alla fine dell’emergenza, la messa delle 10.30 sarà sempre trasmessa in streaming.

S. Messa ore 10.30 – II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia

Credere alla resurrezione è credere all’amore.

Gesù è l’uomo che ha saputo amare e che ha fatto dell’amore un comandamento per sé prima di darlo come comandamento ai suoi discepoli. In Gesù, quella che l’evangelista Giovanni chiama “la volontà del Padre”, ma che fuori del linguaggio religioso chiameremmo il senso che lui dava alla sua vita, spinge Gesù a rimanere nell’amore totale rifiutandosi, anche nell’ora della Passione, di opporre violenza a violenza.

Questo lo porta fino a rinunciare a se stesso per fedeltà a sé stesso.Gesù è andato fino alla fine di sé, cioè all’estremo della fedeltà a se stesso. Ecco come l’obbedienza piena al senso che egli dava alla sua vita lo ha portato ad affrontare la morte. La sua ultima parola è stata, “è compiuto”, perché il senso del suo venire al mondo era compiuto.

Dobbiamo credere che è in questo suo amore che consiste la sua divinità. “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”. L’unico scopo della fatica di scrutare giorno dopo giorno le sante Scritture è nient’altro che cercare di penetrare tutta la profondità e lo spessore di questo “come”, intuendo che in questo “come” ci è dato il modo con il quale accedere e mettere in pratica la nostra capacità di amare, ossia di voler vincere la disumana morte. Da sempre, infatti, è la paura della morte che ci impedisce di amare; Cristo l’ha sconfitta per permetterci di amare senza paura. Confessare che Cristo ha vinto la morte significa, infatti, credere che questa capacità di amare è in ciascuno di noi come è in ogni essere umano e va cercata come si cerca l’acqua nel deserto. Va cercata in mezzo alle mille contraddizioni all’amore e ai continui fallimenti, sapendo che anche il sentimento più santo ha il suo miserabile rovescio.

All’amore come Gesù l’ha vissuto occorre crederci contro ogni evidenza dei fatti e dei risultati, contro ogni ragionevole scetticismo, ogni assennato realismo, perché nel cristianesimo con c’è altra ricerca di Dio che non sia la ricerca ostinata di amarci come Gesù ci ha amati. Per questo, noi umani dobbiamo smettere di essere sedotti, come narra la Genesi, dalla promessa del tentatore “sarete come Dio” per cominciare a voler essere come l’uomo Gesù. L’uomo che è giunto al più alto livello possibile nell’umanizzazione dell’uomo. Se ci siamo arresi e abbiamo rinunciato a credere che possiamo amarci come Gesù ci ha amati, di fatto non crediamo al suo amore e, se non crediamo al suo amore, non crediamo alla sua resurrezione e non crediamo al suo Dio. L’amore di cui Gesù è stato capace è l’unico e vero oggetto della nostra fede. L’amore vissuto da Cristo è il Dio di noi cristiani.

Don Giuseppe

Essere risorti con Cristo è amarci come Lui ci ha amati

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”.

Davanti al comandamento nuovo, siamo in presenza non solo di una parola che esprime l’uomo Gesù tutto intero, ma siamo di fronte anche a una delle più alte sintesi a cui l’umanità è giunta. L’amore di un essere umano per un altro è forse la prova più ardua per ciascuno di noi, la testimonianza più alta di noi stessi; l’opera suprema di cui tutte le altre non sono che la preparazione.

Riconosciamolo, questo comando di Gesù ogni volta in più che lo ascoltiamo ci pare un’impresa impossibile, di fronte alla miseria di cui è fatto il nostro amore coniugale, fraterno e perfino quella convivenza sociale che ha nome solidarietà, ospitalità, aiuto.

Oppure, quando ci sforziamo di interiorizzarlo, il comandamento nuovo ci può anche far paura e atterrire; invece i comandi di Gesù devono essere per noi ragione di gioia. Come, infatti, non credere che, se il Signore risorto ci comanda di amarci come lui ci ha amati, è perché lui sa non soltanto che possiamo amarci, ma che lo possiamo in quel preciso modo, il suo.

Ecco il Vangelo della risurrezione: noi umani sì, siamo esseri mortali, ma possiamo amarci come Cristo ci ha amati. Ecco il cuore della fede pasquale. Confessare di essere risorti con Cristo significa credere che possiamo amarci come lui ci ha amati.

Don Giuseppe