Ci fa bene, almeno una volta all’anno, essere messi di fronte alla nostra radicale povertà, fare i conti con la nostra vita, in cui è presente anche la morte. Non per cadere nella tristezza, nell’angoscia o nella paura, ma per ritrovare il vero senso della saggezza cristiana, che è colma di speranza.
Tutto questo ci induce, alla fin fine, ad un sano realismo: se troviamo il coraggio di guardare in faccia anche al momento oscuro e doloroso della morte, è perché siamo certi che con la morte non è finito tutto. Il nostro destino è la vita eterna. E la vita eterna comincia quaggiù grazie alla vita di Dio che, a partire dal battesimo, scorre già nelle vene della nostra esistenza. Un motivo in più, allora, per vivere bene questa esistenza che sfocia non in un sepolcro, ma nell’eternità.
Un motivo in più per fare di questo corpo, destinato ad essere trasfigurato dalla gloria di Dio, un riflesso continuo del suo amore e della sua tenerezza.
Nella pienezza di Dio
Parlare di vita eterna obbliga a fare i conti con “questa vita” e quindi con il suo senso, la sua direzione, la sua prospettiva; con il valore affidato al corpo, con una nozione specifica di vita morale, con quel passaggio obbligato da questa all’altra vita che è il momento della morte, con la valutazione della sofferenza, del sacrificio, della “perdita” connessa con un “bene” più grande. Se il cristiano di alcuni secoli fa aveva molto chiaro il fine della sua vita («andare in Paradiso») ed era disposto ad affrontare fatiche e disagi anche grandi pur di raggiungerlo, non si può dire altrettanto del cristiano comune di oggi. È prima di tutto una questione di prospettiva, di impostazione della propria esistenza. Sta avvenendo qualcosa di significativo e di preoccupante, anticipato dalla riflessione filosofica e dalle indagini sociologiche. Uomini e donne di oggi, anche credenti, stanno smarrendo il senso del “centro”, dell’“obiettivo”, della “direzione” della propria esistenza. È come se la vita si frantumasse in tanti pezzetti, ciascuno per conto proprio.
Una collana che ha tante perle, ma che ha perso il filo che le tiene unite. Una fede episodica, che attraversa esperienze anche significative, “forti”, ma non trova un legame solido e una direzione chiara.