Cristo – stando al testo della Lettera agli Ebrei – lascia intravedere la possibilità di fare del nostro dolore un’offerta: un’offerta sofferta. Certo, la liturgia della sofferenza non è come quella convenzionale, coi riti e le formule fissate in antecedenza. È una liturgia improvvisata, per la quale ci troviamo sempre impreparati; non segue regole fisse, e le parole non si possono imparare prima.
Sovente siamo costretti a fare ciò che non vogliamo. Ma c’è pure un aspetto pedagogico nella sofferenza.
Il Figlio, infatti, “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. L’obbedienza non si impara sui trattati o attraverso le prediche. Molte materie, molte scienze umane e religiose, si possono imparare frequentando dei corsi.
Che cosa sia l’obbedienza lo si capisce soltanto attraverso la pedagogia, l’esperienza insostituibile del dolore, dell’abbandono, del negativo, e adottando lo stesso atteggiamento di Cristo nei confronti della croce. Obbedire a Dio non significa semplicemente piegarsi alla sua volontà. Ma essere docili nell’amore. È l’amore lo stile dell’obbedienza caratteristica di chi ha abbandonato l’orizzonte della legge antica, scolpita sulla pietra o scritta nel libro, per entrare nella prospettiva “interiore” della Nuova Alleanza.
Quella della croce è un’educazione dolorosa, eppure necessaria, insostituibile.
Il dolore trasforma l’uomo: ossia soffrendo s’impara. Il dolore accettato per amore diventa così sacramento di fraternità, scuola di umanità. Gesù, tuttavia, indica due sbocchi nel suo dramma: la fecondità del sacrificio e la glorificazione. Il primo aspetto viene illustrato dalla piccola parabola del chicco di grano.
L’altro aspetto è quello della glorificazione. Nella prospettiva specifica di Giovanni, la glorificazione non è altro che la manifestazione dell’amore: la gloria di amare!
Sulla croce Cristo non rivendica altra gloria all’infuori della gloria di amare.
