Perché associare la Pasqua alla felicità? Forse ci può essere d’aiuto la ripresa di un termine simile eppure con una sfumatura molto diversa. La fede cristiana, infatti, non orienta il desiderio umano alla semplice felicità effimera bensì alla gioia spirituale, a quel compimento che solo Dio può donare ma che continuamente ci richiama in questa storia, per vivere di esso e poter davvero sentirci risorti. La gioia spirituale è discreta. Non si sa bene quando e come comincia. Si sente che sorge, nasce da dentro. Si percepisce il passo di Dio che incrementa la fede, la speranza e la carità. È difficile legare la sua origine a qualcosa di esterno. Appare, ma non dipende da qualcosa di preciso. È una gioia molto calma, pacifica, composta e semplice che porta a vedere tutto molto bello. Non ci si sente soli. Qualcuno è presente e questa relazione è avvertita come solida e rassicurante. È una gioia che spinge a un sincero rispetto verso se stessi e il mondo, specie le persone, che portano in sé l’immagine di Cristo. Ci si sente in comunione con tutti, persone e cose, contemplate nella loro bellezza senza volerle possedere. Questa gioia spinge a un ottimismo realista, si sente che sarà possibile andare avanti nella vita e restare fedeli ai propri compiti anche quando sarà impegnativo. Le preoccupazioni, pur rimanendo presenti, non ostacolano la prontezza ad agire. È una gioia più duratura di quella effimera e si allontana lentamente. Quando se ne va non lascia un vuoto interiore e star da soli non pesa. Ci accompagna con la certezza che tale gioia resta dentro di noi e continua a fluire sotterranea; prima o poi riaffiorerà, perché ci appartiene.
È una gioia che si può custodire. Basta il ricordo per avvertirla nuovamente dentro di sé e per scorgere le sue tracce nelle cose che ci capitano. La Pasqua dona una felicità che, non venendo dal mondo, il mondo non può togliere. Essa però non rende estranei alla storia. Ecco perché coloro che la vivono talvolta si allietano ed esultano, altre volte piangono e gemono.