Felici come una Pasqua (2)

Perché associare la Pasqua alla felicità? Forse ci può essere d’aiuto la ripresa di un termine simile eppure con una sfumatura molto diversa. La fede cristiana, infatti, non orienta il desiderio umano alla semplice felicità effimera bensì alla gioia spirituale, a quel compimento che solo Dio può donare ma che continuamente ci richiama in questa storia, per vivere di esso e poter davvero sentirci risorti. La gioia spirituale è discreta. Non si sa bene quando e come comincia. Si sente che sorge, nasce da dentro. Si percepisce il passo di Dio che incrementa la fede, la speranza e la carità. È difficile legare la sua origine a qualcosa di esterno. Appare, ma non dipende da qualcosa di preciso. È una gioia molto calma, pacifica, composta e semplice che porta a vedere tutto molto bello. Non ci si sente soli. Qualcuno è presente e questa relazione è avvertita come solida e rassicurante. È una gioia che spinge a un sincero rispetto verso se stessi e il mondo, specie le persone, che portano in sé l’immagine di Cristo. Ci si sente in comunione con tutti, persone e cose, contemplate nella loro bellezza senza volerle possedere. Questa gioia spinge a un ottimismo realista, si sente che sarà possibile andare avanti nella vita e restare fedeli ai propri compiti anche quando sarà impegnativo. Le preoccupazioni, pur rimanendo presenti, non ostacolano la prontezza ad agire. È una gioia più duratura di quella effimera e si allontana lentamente. Quando se ne va non lascia un vuoto interiore e star da soli non pesa. Ci accompagna con la certezza che tale gioia resta dentro di noi e continua a fluire sotterranea; prima o poi riaffiorerà, perché ci appartiene.
È una gioia che si può custodire. Basta il ricordo per avvertirla nuovamente dentro di sé e per scorgere le sue tracce nelle cose che ci capitano. La Pasqua dona una felicità che, non venendo dal mondo, il mondo non può togliere. Essa però non rende estranei alla storia. Ecco perché coloro che la vivono talvolta si allietano ed esultano, altre volte piangono e gemono.

Felici come una Pasqua (1)

Spesso diversi modi di dire” di uso comune riguardano realtà che, a ben vedere, sono più complesse ed “elevate” di quanto non sembri, ma che vengono trattate con leggerezza e semplicità, fino a diventare quasi scontate, entrando così, allo stesso tempo, nel tessuto del vivere quotidiano.
L’espressione “Felici come una Pasqua” associa l’emozione più semplice, quasi banale, della felicità al mistero che sta al cuore della fede cristiana, la Pasqua di risurrezione. Il sentimento, per così dire, più umano e infantile, insieme all’evento cardine della rivelazione divina in questo mondo.
La vera felicità è davvero quella che nasce dalla Pasqua, ma ciò significa allo stesso tempo la necessità di attraversare il mistero pasquale in pienezza. La Pasqua di Gesù è il culmine di una vita spesa totalmente nella dedizione per gli altri, nell’amore del prossimo, alla luce di una radicale relazione con Dio Padre. È solo in questo orizzonte che trova davvero senso la ricerca della felicità cristiana. In questo senso, allora, la felicità della Pasqua può diventare qualcosa di quotidiano, di “semplice”, che passa quasi inosservato.
Il modo di dire che descrive la felicità con l’immagine della Pasqua è tanto noto quanto ambiguo.
Il rischio è di pensare alla felicità come un sogno realizzato o qualcosa da raggiungere, dimenticando che la Pasqua include sempre il Venerdì Santo, e che la felicità è sempre radicata nella storia.

Io sono il buon Pastore

«Io sono il buon Pastore». Solo Gesù è il vero e buon Pastore, perché la sua vita incarna la bontà e la verità del Dio dell’alleanza. Lui solo vuole ciò che è bene per l’umanità. Infatti è venuto per questo: donare loro una vita abbondante. Di fatto la caratteristica più importante del buon Pastore – che Giovanni ripete per cinque volte – è «dare la vita per le sue pecore». Egli è buono perché dà la sua vita e non c’è prova di amore più grande del donare la propria vita per coloro che si ama. Gesù si designa come il buon Pastore perché «conosce» le sue pecore e le sue pecore lo «conoscono». Si tratta di una comunione viva, di cuore e di pensiero. Ma la nostra fede è veramente una relazione di questo genere, intima e personale? «Ho altre pecore… anche quelle io devo guidare». Il desiderio di Gesù di entrare in comunione con le pecore ha una prospettiva universale. Il suo amore vigilante di pastore si estende a tutti, senza distinzione di razza, di nazione e neanche di religione. Dovunque ci sono pecore disposte ad «ascoltare la sua voce» e a «seguirlo». Egli vuole guidare tutte alla «vita eterna». Il solo ovile che non esclude nessuno non è un luogo, ma una vita, quella del Padre. Nella chiesa il buon Pastore prosegue la sua missione universale. La chiesa di Cristo non è più legata a un ovile culturale, a una struttura, ma a una presenza, quella del buon Pastore glorificato, che solo mantiene l’unità del gregge. Nei nostri sforzi verso l’unità non si dovrà mai dimenticare che il fine non è il recinto di questa o quella confessione cristiana, ma l’ascolto della voce dell’unico Pastore, che chiama ciascuno per nome.
Intimità. L’intimità è lo spazio vitale di Dio, là dove il Cristo, il nostro amico, ci conosce personalmente (vangelo), là dove Dio ci fa suoi figli. Pensiamo innanzitutto alle nostre intimità umane, alle persone con le quali possiamo essere noi stessi, possiamo parlare in tutta semplicità, ai momenti in cui lasciamo cadere ogni difesa. Le nostre intimità possono essere sorgenti di dinamismo nelle nostre vocazioni per il mondo, per ricevere confidenze di fatica, di difficoltà, ma anche di gioia.
L’intimità con Dio nella preghiera ci colma e nello stesso tempo turba le nostre intimità perché contesta questo mondo malato di felicità superficiali.

Creare casa

La tematica che l’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni propone in vista della 61a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni che si celebrerà la quarta domenica di Pasqua, il 21 aprile 2024 intende cogliere l’invito di Papa Francesco a creare ambienti adeguati nei quali sperimentare il miracolo di una nuova nascita: in tutte le nostre istituzioni dobbiamo sviluppare e potenziare molto di più
la nostra capacità di accoglienza cordiale, le comunità come la parrocchia e la scuola dovrebbero offrire percorsi di amore gratuito e promozione, di affermazione e di crescita. Quanto sradicamento! Se i giovani sono cresciuti in un mondo di ceneri, non è facile per loro sostenere il fuoco di grandi desideri e progetti. Se sono cresciuti in un deserto vuoto di significato, come potranno aver voglia di sacrificarsi per seminare? L’esperienza di discontinuità, di sradicamento e la caduta delle certezze di base, favorita dall’odierna cultura mediatica, provocano quella sensazione di orfanezza alla quale dobbiamo rispondere creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso.
Fare ‘casa’ è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici e funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi.
È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere.
Così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino.

L’invito conduce alle radici della fede e riporta agli inizi della Chiesa nella quale da subito i primi credenti si sono adoperati per creare spazi di condivisione della vita nei quali poter sperimentare «la gioia di una casa comune: una domus ecclesiae. Prima che di un edificio ci sia un contesto, un luogo permanente di incontro in cui si respiri uno stile di fraternità, di lavoro e di preghiera. I giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di formazione intelligente e affettiva per appassionarsi al Signore, alla comunità cristiana e ai fermenti evangelici disseminati tra i loro coetanei nel mondo.
La Parola di Dio ha bisogno di un terreno buono e l’Eucarestia ha bisogno di una casa.
Anche la vocazione ha bisogno di un terreno buono perché possa attecchire e di una casa nella quale fare Eucarestia, ringraziamento e benedizione per la Parola ricevuta e il dono di quella fraternità che è offerta della propria vita perché insieme agli altri diventi feconda nella carità, a servizio di tutti.
Come la vita, ha bisogno di trovare uno spazio accogliente per nascere, crescere e maturare.
Il desiderio di appartenere ad una persona o ad una comunità nasce da una frequentazione feriale e una conoscenza graduale di quella casa alla quale si sogna di appartenere per essere fecondi. Creare casa è un invito rivolto alla comunità, alla parrocchia, alle famiglie, perché siano sempre più spazi capaci di quell’accoglienza cordiale e libera che fa crescere la vocazione sia di chi li abita che di chi li visita, diviene terreno fecondo di nuove vocazioni.

Chi ha sete, venga!

L’immagine preparata per la 61° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, è un’icona del Cristo che viene; anch’essa porta direttamente alla radice della vocazione cristiana e alla sorgente di ogni chiamata perché la vocazione è incontrare e riconoscere il Signore Risorto che abita i passi della propria storia. Tutta la Scrittura termina con un grido che racchiude una promessa: «Lo Spirito e la Sposa dicono: ‘Vieni!’. E chi ascolta, ripeta: ‘Vieni!’. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
Se il nostro sguardo potesse attraversare il cielo, se potesse guardare attraverso la storia e i fatti della vita altro non vedrebbe che il Cristo che viene perché raggiungerci – venire verso di noi – è l’unica cosa che anch’egli ardentemente desidera; stare in nostra compagnia, fare casa con noi: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Intrattenersi con il Signore Risorto, parlare con lui come con un amico è l’origine della vocazione che si può riconoscere nella Parola – sovente anche un solo versetto di tutta la Scrittura – che è il grembo della fede e il Principio di ogni cosa.
L’immagine scelta è simboleggiata dalla raffigurazione dei quattro evangelisti che occupano gli angoli della tavola: Matteo (l’angelo), Giovanni (l’aquila), Marco (il leone) e Luca (il bue).
La fede e la vocazione – così come la vita e la realtà – hanno a che fare con un invisibile che contiene una promessa, quella della vita eterna che è la vita vera, la vita come dovrebbe essere, la vita che è semplicemente vita, semplicemente felicità.
Il cerchio esterno con i cherubini e i serafini che fanno capolino dai lati del quadrato più interno simboleggia il mondo celeste e ricorda che tutta l’avventura della vita si svolge sotto il cielo ormai aperto dalla Pasqua di Cristo. Cerchio e quadrato ricordano il movimento – immaginando di far ruotare il quadrato attorno al suo centro – iniziato nel Battesimo.
Immersa nell’acqua del fonte la vita di terra ha cominciato a camminare verso la perfezione della carità che potrà essere ricevuta in dono solo nella Gerusalemme celeste ma che già può essere gustata in questo tempo, nella consapevolezza che solo l’amore vale la pena e la bellezza del vivere, l’unica cosa che rimane per sempre.
Intuire la propria vocazione è discernere il calore del divino – ha il volto di Cristo e il sapore dei suoi gesti – che traspare da ciò che è umano come il rosso delle vesti del Signore emerge dal blu che simboleggia la storia, è condividerne la Passione e spendere la vita nel suo amore: il volto di una persona che si accende di una luce particolare nella quale ci si riconosce chiamati come sposi, il mistero di una Chiesa che si desidera servire come ministri ordinati, una famiglia religiosa che chiama ad una appartenenza e ad una consacrazione particolare, una storia di relazioni quotidiane per il quale adoperarsi semplicemente con il lavoro delle proprie mani.

Chiamati

Non è casuale che la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni cada sempre la quarta domenica di Pasqua, in cui si legge un passo del vangelo del buon Pastore. In effetti in questo brano c’è l’essenziale di ogni vocazione: un rapporto profondo, intimo, con il Cristo, in cui lo si conosce e ci si sente conosciuti, amati e si è disposti ad amare con tutti se stessi. Lo si conosce, si entra in relazione con lui. Se ne avverte l’amore, la misericordia, la tenerezza. Si apre il cuore e la mente alla sua Parola, se ne distingue la voce, si prova il desiderio intenso di incontrarlo, di vivere secondo il suo insegnamento. Non si tratta di un contatto episodico, occasionale. C’è gioia e pace, ma anche una fatica, un vero travaglio da affrontare, perché
l’incontro con lui esige una conversione, un cambiamento. Ci si sente conosciuti, ma non da un occhio che indaga e giudica impietosamente. Si percepisce piuttosto uno sguardo benevolo e compassionevole, davanti al quale si può apparire così come siamo. La nostra debolezza, il nostro peccato non costituisce un ostacolo: nulla può fermare il suo amore. La fragilità non diventa una preclusione e la ricchezza non rappresenta un motivo di vanto. È in questa esperienza che si avverte una chiamata, come un’avventura esaltante, che si può correre affrontando ogni rischio. Gesù sarà sempre accanto a noi, anche quando andare avanti significa camminare in un deserto, senza poter contare sul consenso di quelli che ci stanno accanto.
Decisiva è la speranza: il sentirsi parte di un disegno che ci sorpassa, in cui possiamo essere strumenti
di un amore smisurato. Sentirsi chiamati vuol dire passare da spettatori a protagonisti, investendo le proprie energie per un servizio lieto e fedele.

Alla Speranza l’ultima parola

“Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea? Cioè come Dio consacrò Gesù di Nazareth in Spirito Santo e potenza? Come lui passò beneficando e risanando tutti?
E come fu ucciso, inchiodato a una croce, dopo aver consegnato se stesso al Padre? E come poi il terzo giorno Dio lo ha risuscitato, e lui Risorto è apparso ai suoi? E come donando il suo stesso Spirito li ha mandati ad annunciare la sua risurrezione, cioè la nostra salvezza?”
Sì, noi lo sappiamo! Ognuno di noi cristiani sa esattamente che cosa è successo. Lo sappiamo con la testa, lo ricordiamo, lo celebriamo, lo festeggiamo: ci crediamo! Alla Pasqua siamo arrivati facendo memoria del grande dono che Gesù di Nazareth ha fatto per la nostra salvezza. Nei giorni precedenti la domenica di risurrezione abbiamo contemplato il Dio-con-noi, la totalità e la radicalità disarmante del suo amore. Ma quanta Pasqua c’è davvero nella nostra vita? Quanto profumo di risurrezione
respira chi vive con noi e accanto a noi? Celebrare la Pasqua, e farlo con convinzione, significa credere nella verità della risurrezione. Credere cioè che la risurrezione non sia qualcosa di straordinario proprio di un Dio, e riservato solo a lui. La Pasqua ci dice che abbiamo diritto alla speranza, che non c’è morte che tenga, che il male non ha l’ultima parola.

Siamo in un momento non facile della nostra storia, e penso alla storia umana. Comprendo quanto sia difficile, per più persone, credere nella risurrezione quando tutto attorno a noi è attraversato da una violenza che sembra moltiplicarsi ovunque. Quanto sia difficile credere nei testimoni della risurrezione quando è difficile trovare credenti con il cuore in pace che sappiano diffondere pace, seminare pace e costruire pace quotidianamente. Sento tutto il disorientamento.
Ammetto che credere nel Risorto non sia facile. Ma mi auguro che questa umanità non voglia cedere, non voglia evitare di entrare nel sepolcro quando la vita lo chiede, non voglia accontentarsi di guardare tombe vuote come se nulla mi appartenesse.
La Pasqua ci dice che siamo nel giorno nuovo, che possiamo essere nuovi.
La Pasqua ci consegna le chiavi della speranza determinata e operosa perché non fondata sulla potenza e sull’efficienza, ma sulla fiducia certa in Colui che trova sempre il modo di dare vita al mondo, di spezzare i vincoli di morte, di far germogliare l’insperato.
Gesù di Nazareth risorge per dare a ogni donna e a ogni uomo la possibilità di risorgere; si lascia attraversare dalla morte per dire a te, a me, a noi: «Non mollare, non aver fretta di mollare, non cedere alla notte, all’impotenza, alla sfiducia. Tu puoi risorgere perché io sono risorto. Tu puoi dare spazio alla speranza perché io ho dato tutto per te».
Ci saranno volte in cui la nostra fede nel Risorto ci porterà davanti a sepolcri vuoti: non restiamo fuori a guardare, non permettiamo al nostro cuore di arrendersi alla morte, all’impotenza, allo scoraggiamento. Chiediamo lo Spirito del Risorto per permettere alla speranza di dire
l’ultima parola e di insegnarci a coltivarla.

Ma ancora non credevano

«Mostrò loro le mani e i piedi»
Cosa serve per credere? Di cosa avremmo bisogno perché la nostra fede sia certa e determinata?
Guardiamo i discepoli: vedono, toccano, fanno esperienza, ricevono lo Spirito, incontrano il Risorto, alternano gioia a stupore, paura a turbamento… eppure non riescono a credere.
I racconti della risurrezione sembrano essere stati scritti per consolare la nostra incredulità, per darci una pacca sulle spalle, per poter dire a noi stessi: «Coraggio, credere è difficile; lo è stato anche per chi ha visto e toccato».
Credere nella risurrezione è qualcosa che va oltre ogni nostra capacità razionale.
Credere in un Risorto ci spinge oltre; ci chiede di relativizzare ogni certezza, ogni bisogno di sicurezza; ci chiede di rimettere ordine alle priorità della nostra vita, spesso fatta di progetti, di opportunità, di traguardi, di obiettivi da raggiungere costi quel che costi.
E invece il Risorto si offre a noi e alla nostra intelligenza portando con sé, e offrendoci, un’esperienza di morte, di sconfitta, di dolore. Accettarla, farla nostra, assumerla come stile di vita non è questione di sforzo personale, ma di apertura: e tutti i Vangeli della risurrezione, pur in modo diverso ce lo dicono. Dobbiamo lasciarci raggiungere dal Risorto. Dobbiamo permettergli di riempirci del suo Spirito. Dobbiamo lasciarci liberare da lui nella mente e nel cuore.

Dio, perchè?

Quanto sta accadendo in questo periodo anche, e non solo, nel nostro paese, nella nostra comunità, cioè il moltiplicarsi di casi di persone giovani che muoiono all’improvviso, lasciando sgomento, dolore e profonde ferite nei propri familiari e non solo, pone sulle labbra di molte persone questa domanda: Perché? Vogliamo capire il perché, vogliamo che qualcuno ci spieghi cosa sta accadendo. Anche a noi credenti di fronte alla sofferenza, viene naturale chiedersi “Perché?”
Tante e possibili risposte ci potrebbero essere (magari qualcuno le possiede). Onestamente ritengo che una risposta soddisfacente non ci sia. Temo che ne escano solo parole di circostanza.
Ho la sensazione che non si riesca a risolvere adeguatamente la ricerca con una logica puramente umana. Il Figlio di Dio venendo al mondo non ci ha offerto una relazione sulla sofferenza, sulla morte. Il Figlio di Dio si è fatto sofferenza, è morto. Dio soffre!
Gesù si è accostato alla sofferenza, si è fatto vicino con la compassione, con la cura e con la fede.
Il volto di Dio, nel Figlio suo, si presenta come Colui che si prende cura dell’uomo, lo ama con viscere materne, in modo appassionato. Gesù non ha spiegato la sofferenza, ma l’ha vissuta, l’ha offerta, ne ha fatto motivo di salvezza per tutto il mondo. Gesù nella sofferenza si affida al Padre e continua a proporci questo esempio perché lo seguiamo. Dio non vuole il male e le sofferenze, ma che nella nostra vita si manifesti il suo amore, anche quando costa e ci inchioda alla croce.
Di fronte a queste prove fidiamoci di Dio: cioè affidiamoci a Lui.
Nella nostra fragilità, nelle nostre lacrime, nelle assenze, percepiamo tutta la nostra debolezza e l’unica cosa da farsi è prendersi cura gli uni degli altri. È sentire e far sentire il calore del cuore.
Soprattutto è percepire la Presenza di Colui che è venuto per darci la vita in abbondanza.

Annunciazione del Signore

La solennità dell’Annunciazione del Signore, causa coincidenza con la Settimana Santa, quest’anno è stata posticipata. Essa ci inserisce nel mistero dell’incarnazione di Gesù.
Con l’annuncio dell’Incarnazione del Figlio di Dio alla Vergine Maria, Dio entra nel nostro mondo facendosi Uomo come noi. Pertanto, la venuta di Dio in mezzo a noi eleva la natura umana a un livello di santità mai immaginato da nessuno.
Il “sì” di Maria mostra la più grande espressione dell’amore di Dio per tutta l’umanità.
Maria è contemplata nel Mistero dell’Incarnazione come Colei che è stata scelta per essere la Madre di Dio. Di fronte all’annuncio dell’angelo Gabriele, si sottomette in un atto di fede e umiltà, offrendo la sua disponibilità al progetto di salvezza. Maria Santissima mostra la sua fiducia nel Signore diventando uno strumento divino negli eventi futuri. Con il suo consenso, Maria accettò la dignità e l’onore della Divina Maternità, ma anche le sofferenze e i sacrifici ad essa legati.
Per la sua fede, Maria, anche senza sapere cosa sarebbe successo da quel momento in poi, accetta di fare la volontà di Dio, incondizionatamente. Come serva si mette in un atteggiamento di totale disponibilità verso il suo Signore. Maria ha capito la grandezza di Dio e il nostro “nulla”.
A causa della sua umiltà, rimase sorpresa nell’ascoltare le lodi dell’Angelo: “Ave, piena di grazia”. San Tommaso di Villanova ci dice che “Fiat” è una parola potente ed efficace!
Con un “Fiat” (Sia) Dio ha creato la luce, il cielo, la terra, ma con questo ” Fiat ” di Maria, Dio è diventato un uomo come noi.
Per azione dello Spirito Santo, il Figlio di Dio si è formato nel seno della Vergine Maria.
Questa è stata la più grande di tutte le meraviglie: nella Persona di Nostro Signore Gesù Cristo (vero Dio e vero Uomo), la natura divina e umana sono unite.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, l’Annunciazione a Maria inaugura la “pienezza del tempo”, cioè l’adempimento delle promesse. Maria è invitata a concepire Colui nel quale “tutta la pienezza della Divinità dimorerà corporalmente”. La risposta divina al suo “come sarà, se non conosco un uomo?” è data dal potere dello Spirito: “Lo Spirito Santo verrà su di te”.
San Giovanni Paolo II aggiunge che nell’Annunciazione, rispondendo con il suo “fiat”, Maria concepì un uomo che era il Figlio di Dio, consustanziale al Padre. Pertanto, è veramente la Madre di Dio, poiché la maternità riguarda tutta la persona, e non solo il corpo, né solo la “natura” umana. In questo modo il nome “Theotókos” – Madre di Dio – divenne il titolo della Beata Vergine Maria.
Attraverso l’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, nel seno della Vergine Maria, proclamiamo Maria Madre di Dio.
Quindi, affermiamo che il Regno di Dio è già in mezzo a noi, perché il dogma della divina maternità afferma che Dio stesso, nella persona di Gesù Cristo, è entrato nella storia umana.
Chiediamo a Nostra Signora, Madre di Dio e Madre nostra, la grazia della fede e della disponibilità ad assumere apertamente la nostra missione di figli e figlie di Dio.