Il perdono di Assisi

Si tratta di un’indulgenza plenaria che può essere ottenuta in tutte le chiese
parrocchiali e francescane dal mezzogiorno del 1º agosto alla mezzanotte del 2
e tutti i giorni dell’anno visitando la Chiesa della Porziuncola di Assisi dove morì San Francesco.
Il Poverello ottenne l’indulgenza da papa Onorio III il 2 agosto 1216 dopo aver avuto un’apparizione presso la chiesetta.

Quando venne istituita ufficialmente

Il 2 agosto 1216, dinanzi una grande folla, S. Francesco, alla presenza dei vescovi dell’Umbria con l’animo colmo di gioia, promulgò il Grande Perdono, per ogni anno, in quella data, per chi, pellegrino e pentito, avesse varcato le soglie del tempietto francescano. Nel 1279, il frate Pietro di Giovanni Olivi scriveva che “essa indulgenza è di grande utilità al popolo che è spinto così alla confessione, contrizione ed emendazione dei peccati, proprio nel luogo dove, attraverso san Francesco e Santa Chiara, fu rivelato lo stato di vita evangelica adatto a questi tempi”.

A quali condizioni si può ottenere l’indulgenza?

Ricevere l’assoluzione per i propri peccati nella Confessione sacramentale, celebrata nel periodo che include gli otto giorni precedenti e successivi alla visita della chiesa della Porziuncola, per tornare in grazia di Dio; partecipare alla Messa e alla Comunione eucaristica nello stesso arco di tempo indicato per la Confessione; visitare la chiesa della Porziuncola dove si deve rinnovare la professione di fede, mediante la recita del Credo, per riaffermare la propria identità cristiana, e recitare il Padre Nostro, per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo; recitare una preghiera secondo le intenzioni del Papa, per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice.
Normalmente si recita un Pater, un’Ave e un Gloria; è data tuttavia ai singoli fedeli la facoltà di recitare qualsiasi altra preghiera secondo la pietà e la devozione di ciascuno verso il Papa.

Il tempo del riposo

E Gesù disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti
molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare (Marco 6,31).

L’evangelista Marco racconta il ritorno dei discepoli dalla missione: hanno sperimentato la potenza della Parola, ma anche la fatica e il rifiuto. Gesù li invita al riposo, in un luogo solitario, in sua compagnia: «Venite in disparte, voi soli, e riposatevi un po’». Mi pare che qui si intenda il riposo come uno staccarsi dall’assillo delle solite e troppe cose. L’importante è che la tua vacanza non si riduca a uno “staccarsi” che ricade in un altro affanno. Anche in vacanza, infatti, si può essere sommersi da troppi desideri e da troppe cose. Occorre una scelta e una purificazione, occorre un modo diverso di vivere il tempo e di guardare ciò che ci circonda. Certamente si può vivere la
pausa della vacanza in diverse maniere. Ma una modalità suggerita, per fare un esempio, dai Salmi 104 e 65, ci sembra fondamentale. Il Sal 104 è un inno agli splendori della creazione, una sorta di canto delle creature. O meglio: un inno a Dio che ha creato tutte le cose, e continua a prendersene cura. Osservando le creature, il salmista contempla Dio. Ma al tempo stesso – pieno di ammirazione e di gratitudine – vede che le cose di Dio sono sotto i nostri occhi, create da Dio perché le guardiamo, per goderle. Non costano nulla, e proprio perché non costano nulla – quindi non fatte da noi – sono da guardare: da guardare proprio perché non sono nostre, ma di Dio e, dunque, di tutti.
Non si tratta necessariamente di cose grandiose, ma anche di cose normali, apparentemente piccole, povere, eppure bellissime. […] La semplicità – ma potremmo anche dire la sobrietà – non è
necessariamente rinuncia, ma un modo diverso di guardare. Siamo convinti che le cose di Dio
sono doppiamente belle: belle perché regalate, doni goduti ma non posseduti; perché sempre a
disposizione di chiunque.

Come si reagisce a un dolore insopportabile?

Giobbe e la sua sposa sono due esempi di reazione di fronte al medesimo dolore.
Ma sarebbe troppo semplice affermare che Giobbe è l’uomo rassegnato e sua moglie la donna resiliente. Di fronte alla reazione estrema della moglie che invita l’uomo a maledire Dio, vi è l’emergere di un vuoto che la risposta di Giobbe lascia irrisolto; di una tenebra che non si può non affrontare: il Giobbe “rassegnato” al volere di Dio è colui che, a sua volta, non ha ancora preso in mano la sua vita così come è cambiata. L’uomo che dice: “Il Signore ha dato, il Signore ha strappato”, e si consola del proprio “grattarsi” senza porsi alcuna domanda è l’umanità che ancora intende il divino come la personificazione di un dittatore irragionevole, cui ci si deve chinare, come un padrone senza pietà e non come un padre.
È questo il dio che crediamo e vogliamo? La reazione di Giobbe e quella della moglie sono le due facce della stessa medaglia: entrambi accolgono la vita come qualcosa nei confronti della quale non si può fare altro che benedire e maledire. Entrambi, pur con reazioni così opposte, sono portatori della stessa forma di malattia, quella per cui o ci si rassegna o ci si oppone fino alla vendetta.
Questa è, infatti, la maniera istintiva e semplicistica con cui ci poniamo di fronte a ciò che ci accade:
o ce ne assumiamo la colpa (anche quando non è nostra) o accusiamo qualcun altro, magari anche solo
dicendo: mi è accaduto perché la vita fa schifo. Giobbe e la sua sposa, entrambi, come noi hanno bisogno di un percorso di cura, che passi attraverso una profonda consapevolezza, capace di guardare ciò che ci accade senza per forza “colpevolizzare” se stessi e gli altri.

La rabbia di una moglie

La donna si vede privata, d’un tratto, dei beni, degli affetti e persino della compagnia di quel marito che, per la malattia che si ritrova a patire, deve vivere fuori del consesso degli uomini, lontano dal letto nuziale. Quella moglie improvvisamente sola, abbandonata, ferita nell’orgoglio, non capisce la reazione apparentemente remissiva dello sposo, e lo rimprovera con un’asprezza che non fa altro che allargare una piaga ben più profonda di quella che devasta la pelle di Giobbe, una piaga interiore che entrambi i coniugi stanno sperimentando. Nell’accusa della sposa c’è qualcosa che va oltre la giustizia stessa: quella che lei gli contesta è proprio quella “saldezza nell’integrità”. Sembrerebbe dirgli la moglie: davvero l’uomo giusto è colui che accetta tutto? È colui che non risponde a un evidente atto di ingiustizia? È colui che si fa togliere dalle mani la vita stessa senza reagire se non predicando una rassegnazione neppure felice? A Giobbe che dice: “Dio ha dato, Dio ha tolto”, la sposa ribadisce: “Ti importa ancora di quel Dio?”.
Sembrerebbe che la distanza fra Giobbe e la sua sposa (che, si noti, non ha un nome: forse incarna noi tutti, coi nostri dubbi e la nostra rabbia) stia precisamente in questo: lui è la persona “che accetta la volontà di Dio”; lei la persona che “si ribella e non vuole sottomettersi”. Proviamo a immaginare ciò che l’autore non esprime: quella donna ha perduto i beni, i figli, lo sposo. Se Giobbe ha perso tutto, anche a lei, che era la sua compagna di vita, è toccata la medesima sorte; se lui deve stare a grattarsi le piaghe con un coccio, lei dovrà prenderselo sulle spalle, garantirgli un minimo di sussistenza: paradossalmente, lei dovrà vivere quasi da vedova, benché il marito sia ancora vivo. Questa donna che appare dal nulla e, nel racconto, sparisce subito dopo aver invitato il suo sposo a maledire Dio e a morire, non riapparirà neppure alla fine, quando Giobbe sarà restituito al suo antico splendore. Il protagonista avrà altri figli. Con lei? Di un’altra non si parla, quindi sì, dobbiamo supporre che sia nuovamente lei la madre della sua prole.
Dove è stata, dunque, fino a quel momento e perché gode della medesima benedizione finale?
Ci piace immaginare che, a sua volta, dopo lo sfogo inziale, ella venga trascinata nello stesso cammino del suo compagno di vita, a imparare che esiste un modo sanato per affrontare il dolore, e che quel modo non è schiavo né di una pazienza inetta, né di un’impazienza impraticabile; che non appartiene né all’ambito della rassegnazione né della pura “opposizione”, ma nasce da un dialogo costante e quotidiano con la vita e con ciò che essa ci consegna.

Una serie di sfortunati eventi

La storia di Giobbe, almeno per la sua prima parte, è abbastanza nota: racconta di un uomo che vive una vita agiatissima, ricco di beni e di figli, in salute, che d’improvviso si trova a perdere, nel giro di pochissimo tempo, tutto ciò che ha. Il suo bestiame muore, le sue case e i suoi possedimenti bruciano, i figli gli vengono sottratti da un evento naturale violentissimo.
La reazione di Giobbe sembra quella di un uomo consapevole della volubilità degli eventi umani: sa di essere venuto dal nulla e che la vita non è eterna. Per cui accoglie quel che gli è capitato con una sorta di stoicismo sorretto dalla fede. L’autore del poema tiene a sottolineare che, sia nel benessere che nella sventura, Giobbe rimane un uomo giusto. Proprio questa sua giustizia, conservata sia nel bene sia nel male, diverrà la chiave di lettura di tutto ciò che accadrà in seguito. Purtroppo per Giobbe, la morte dei figli non sarà, di fatto, l’ultima delle disgrazie che lo colpiscono: nella sua discesa nell’inferno del dolore, c’è un’altra tappa, che lo riguarda ancor più personalmente, che lo tocca nella sua stessa carne. Di fatto, finché il male colpisce i nostri beni, le nostre relazioni, persino gli affetti più cari, possiamo sempre sperare di poter ricostruire. Ma quando siamo noi in prima persona a patire, tutto diventa più difficile. Giobbe, l’uomo giusto, finisce seduto su un letamaio a grattarsi la rogna. A questo punto, potremmo dire, il “vaso è colmo”. Colui che era ricco, nobile e sano è diventato povero, malato e ignobile. E qual è la sua reazione? La medesima di prima, almeno apparentemente, ossia l’accettazione umile di quanto gli accade. In verità, a leggere bene il testo, questa volta Giobbe tace. L’unico rumore in scena è quello del coccio strofinato sulle pustole. La voce che rompe il silenzio è un’altra. A parlare è l’unica persona che in tutta quella sventura gli è rimasta accanto, l’unica che non sia stata trascinata nel vortice: sua moglie.

Fra rassegnazione e rabbia

Noi misuriamo, nel quotidiano, la positività della nostra esistenza a partire da una somma di condizioni che ci sembrano necessarie e la cui mancanza è percepita come un dramma. Potremmo riassumere queste condizioni così: benessere psicologico, salute fisica, indipendenza economica, relazioni sociali soddisfacenti, prospettiva di vita significativa. Quando stiamo bene fisicamente, interiormente, socialmente, economicamente, relazionalmente possiamo considerarci “fortunati”, ci sembra di tenere in pugno la nostra vita.
Quando viene meno uno di questi presupposti, ecco che il palazzo della nostra vita soddisfatta si incrina, vacilla. Abbiamo, naturalmente, delle difese: se ci ammaliamo, possiamo cercare un medico, confrontarci, stabilire un percorso terapeutico; se perdiamo il lavoro, siamo spinti anche dalla società a cercarne un altro; se viene meno un amico elaboriamo il lutto e ripartiamo … Ma non sempre tutto va per il verso giusto: una diagnosi può rivelarsi errata; il lavoro che troviamo può non darci alcuna soddisfazione (o possiamo faticare anche semplicemente a trovarne uno); nella nostra famiglia possono aprirsi delle ferite che col tempo si rivelano insanabili … E in questi momenti ci accorgiamo che la nostra vita (proprio la nostra, quella di cui ci sentiamo padroni) ci scivola fra le dita. Stringiamo, stringiamo, ma non riusciamo a trattenere tutto e, talvolta, una piccola crisi apre una ferita che fatica a rimarginarsi. C’è una storia biblica che ci può aiutare per lavorare un poco sulla consapevolezza della nostra vita, di ciò che possiamo tenere fra le mani e di ciò che dobbiamo accettare che non ci appartenga, è quella di un uomo cui l’esistenza è andata in frantumi in pochissimo tempo e senza una ragione apparente. Quell’uomo si chiamava Giobbe.

Il lavoro è preghiera

Quante volte lo abbiamo sentito questo ritornello! Quando affrontiamo, tra adulti, il tema della preghiera, c’è qualcuno che se ne vien fuori con la solita domanda: in fondo, non è vero che il lavoro è preghiera? Facile starsene accoccolata ai piedi di Gesù, ad ascoltarlo.
Ma tanto agevole non deve essere se noi tante volte preferiamo affannarci a spadellare, piuttosto che fermarci accanto al Maestro. In effetti pregare non è facile. Non è facile “staccare” dalle nostre occupazioni e ritagliarci del tempo per Dio, esclusivamente per lui, perché quello non è “tempo perso”. Non è facile fare silenzio perché taccia in noi il tumulto delle voci e delle immagini che ci raggiungono e ci sia uno spazio adeguato in cui lui possa parlare al nostro cuore. Non è facile sederci e lasciare che la sua Parola ci raggiunga e rischiari ogni angolo della nostra esistenza, anche quegli anfratti bui e dolorosi che in un qualche modo noi stessi vorremmo ignorare. Non è facile accettare che questa Parola ci faccia del bene, specialmente quando raggiunge in profondità la nostra coscienza e porta alla luce il male che si annida in noi. Non è facile trovare il tempo per rispondergli, con semplicità e sincerità, con le nostre parole e la nostra esistenza. Perché, allora, si deve pregare se è così difficile, così duro? Perché la preghiera è indispensabile: è la preghiera che ci assicura il nostro rapporto con il Padre e con Gesù, il suo Figlio; senza questo rapporto, sorretto e guidato dallo Spirito Santo, non c’è cristianesimo. Di questo, come di ogni, rapporto bisogna prendersene cura quotidianamente, trovare il tempo per alimentarlo, per renderlo sicuro e solido. Ma, allora, il lavoro è preghiera? Sì, certo… ma solo per chi prega. Chi resta accoccolato ai suoi piedi, per ascoltarlo, rimane unito a lui anche quando lavora!

Nella vecchiaia daranno ancora frutti (Sal 92,15)

Domenica 24 luglio 2022 si celebrerà in tutta la Chiesa universale la 
II Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani. Il tema scelto dal Santo
Padre per l’occasione intende sottolineare come i nonni e gli anziani siano
un valore e un dono sia per la società che per le comunità ecclesiali.

La Giornata di quest’anno si colloca in un tempo particolare, segnato in maniera inaspettata dalla guerra. Nel messaggio, il Santo Padre riconosce un legame tra l’esaurirsi della testimonianza di chi ha vissuto la seconda guerra mondiale e il risorgere del conflitto in Europa.
È il motivo per il quale Egli invita i nonni e gli anziani ad essere “artefici della rivoluzione della tenerezza” e a vivere in maniera particolarmente intensa la preghiera per la pace, in Ucraina e non solo. La missione che il Santo Padre affida agli anziani in questo particolare frangente, manifesta come Egli ritenga che i nonni e gli anziani abbiamo una propria particolare vocazione che li rende una parte rilevante del santo Popolo fedele di Dio. È questa la vera alternativa alla cultura dello scarto: non si tratta di compiere un gesto di carità o elemosinare un trattamento un po’ migliore, ma dell’affermazione della centralità degli anziani nella società e dei nonni nella famiglia. 

La vecchiaia, certamente, impone ritmi più lenti: ma non sono solo tempi di inerzia. La misura di questi ritmi apre, infatti, per tutti, spazi di senso della vita sconosciuti all’ossessione della velocità. Perdere il contatto con i ritmi lenti della vecchiaia chiude questi spazi per tutti. È in questo orizzonte che ho voluto istituire la festa dei nonni, nell’ultima domenica di luglio. L’alleanza tra le due generazioni estreme della vita – i bambini e gli anziani – aiuta anche le altre due – i giovani e gli adulti – a legarsi a vicenda per rendere l’esistenza di tutti più ricca in umanità. Ci vuole dialogo fra le generazioni: se non c’è dialogo tra giovani e anziani, tra adulti, se non c’è dialogo, ogni generazione rimane isolata e non può trasmettere il messaggio. Un giovane che non è legato alle sue radici, che sono i nonni, non riceve la forza – come l’albero ha la forza dalle radici – e cresce male, cresce ammalato, cresce senza riferimenti. Per questo bisogna cercare, come un’esigenza umana, il dialogo tra le generazioni. E questo dialogo è importante proprio tra nonni e nipoti, che sono i due estremi. Immaginiamo una città in cui la convivenza delle diverse età faccia parte integrante del progetto globale del suo habitat. Pensiamo al formarsi di rapporti affettuosi tra vecchiaia e giovinezza che si irradiano sullo stile complessivo delle relazioni. La sovrapposizione delle generazioni diventerebbe fonte di energia per un umanesimo realmente visibile e vivibile. La città moderna è tendenzialmente ostile agli anziani (e non per caso lo è anche per i bambini). Questa società che ha questo spirito dello scarto e scarta tanti bambini non voluti, scarta i vecchi: li scarta, non servono e li mette alla casa per anziani, al ricovero… L’eccesso di velocità ci mette in una centrifuga che ci spazza via come coriandoli. Si perde completamente lo sguardo d’insieme. Ciascuno si aggrappa al proprio pezzetto, che galleggia sui flussi della città-mercato, per la quale i ritmi lenti sono perdite e la velocità è denaro. L’eccesso di velocità polverizza la vita, non la rende più intensa. E la saggezza richiede di “perdere tempo”. Quando tu torni a casa e vedi il tuo figlio, tua figlia bambina e “perdi tempo”, ma questo colloquio è fondamentale per la società. E quando tu torni a casa e c’è il nonno o la nonna che forse non ragiona bene o, non so, ha perso un po’ la capacità di parlare, e tu stai con lui o con lei, tu “perdi tempo”, ma questo “perdere tempo” fortifica la famiglia umana.
È necessario spendere il tempo – un tempo che non è reddituale – con i bambini e con i vecchi,
perché loro ci danno un’altra capacità di vedere la vita.

Allenare la gratitudine (2)

Infine, chi è grato ha il “desiderio di ricambiare”. La gratitudine innesca un movimento inarrestabile, accende un volàno. Ricambiare, d’altronde, non è soltanto sinonimo di restituire in maniera corretta e perfettamente simmetrica (ancora una volta in modo socialmente accettabile), ma è l’ingresso in un cerchio in cui dare e ricevere crescono per contagio d’amore. La gratitudine è l’amore nella sua necessità infinita. Poiché la restituzione di qualcosa che sia più del semplice bene ricevuto è l’atto che permette al bene di rimanere in circolo e all’amore di non consumarsi nella memoria e in uno stile di “conservazione”
L’avidità, se ben intesa, non è il contrario della generosità, ma della gratitudine.
Poiché chi è grato sa che ha già (per grazia) più di quanto ha meritato e, spesso, chi è generoso a questo non pensa, credendo che il valore stia nel donare e non nel riconoscere quello che si riceve. Ci sono persone generose che però non sanno essere grate, poiché la loro generosità, paradossalmente, non riesce neppure ad accorgersi dell’altro. Chi è grato, invece, vive della relazione di scambio, della presenza dell’altro come necessità.

Allenare la gratitudine (1)

La definizione di “gratitudine” proposta dal dizionario Treccani è davvero interessante.
È definita come il “sentimento e disposizione d’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare (è sinonimo di riconoscenza, ma può indicare un sentimento più intimo e cordiale).
Andiamo con ordine: la gratitudine è una “disposizione dell’animo che comporta affetto”. Con la gratitudine, dunque, non si tratta solamente di un “grazie” di circostanza, ma di un atteggiamento personale che cambia nella relazione con l’altro. La gratitudine cii spinge verso colei o colui che ci ha gratificato di qualcosa, che ci ha “fatto grazia”; ci spinge verso l’altro al punto tale da sentire affetto amicale, fraterno, filiale. La gratitudine non si dà a un estraneo che ci abbia semplicemente fatto un favore. Un sentimento profondo di gratitudine permette però anche a colui che precedentemente ci era estraneo di entrare nella cerchia di coloro che per noi sono importanti, di chi nella nostra vita ha un significato.
La gratitudine riempie di senso la persona verso la quale proviamo questo sentimento, trasforma noi e lei, rende indissolubile il nostro rapporto.
Potremmo dire che la gratitudine restituisce al “grazie” il suo senso più profondo. Quello del riconoscimento di un beneficio che sappiamo esserci stato dato gratuitamente, senza che fosse chiesto nulla in cambio. È la riconoscenza della gratuità con cui un altro ci è venuto incontro, che provoca in noi il bisogno di fare altrettanto, di metterci in gioco come l’altro ha fatto con noi. La gratitudine, se compresa nel suo vero valore, non è un atteggiamento di correttezza sociale e civile; anzi, vive di eccessi, perché sposta l’accento dal dono ricevuto al donante, dalla grazia al graziante, dalla bontà percepita al buono che l’ha messa in gioco.

La definizione del dizionario aggiunge ulteriori elementi: la gratitudine implica la memoria, è “ricordo del beneficio”, ma anche del benefattore.
La persona grata non dimentica, ma conserva in sé a lungo il sentimento del bene ricevuto. Chi ha poca memoria di ciò che gli è stato donato e di chi ha donato, non vive nella gratitudine, ma le passa accanto, ne percepisce i benefici solo per il tempo in cui ne è sollecitato. Chi è grato, non può che esserlo per sempre.