Solennità della dedicazione della nostra Chiesa (2)

Così, ogni anno la nostra comunità cristiana vive l’anniversario della dedicazione come una delle sue solennità più grandi, facendo memoria grata di tutto questo. Perché farne memoria ogni anno? E come mai è una “solennità”, cioè il grado più alto delle feste cristiane, come il Natale, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste? Potremmo chiamarla “la solennità della Chiesa locale”: attraverso il segno del tempio manifestiamo il nostro essere pietre vive dal giorno del Battesimo, la nostra missione di annunciare il Vangelo come grembo che genera altri alla fede, il dono immenso che ci viene fatto ogni volta che ci riuniamo in santa assemblea per celebrare l’Eucaristia! Scrive il vescovo san Cesario di Arles: “Se dunque, o carissimi, vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa’ piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima”. La chiesa-edificio è immagine, è simbolo della Chiesa-comunità. Anzi la vera Chiesa è la comunità, è il Popolo di Dio. Ascoltiamo san Pietro, che ammonisce i cristiani: “quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale”. Se una chiesa è il luogo d’una presenza divina, questo “luogo” è l’assemblea dei fedeli, è l’anima d’ogni fedele. “Non sapete che siete tempio di Dio?”, dirà san Paolo”. Così, domenica 31 ottobre celebreremo Solennemente questo appuntamento. È come se la liturgia ci dicesse: “Siete unici, ma in un corpo armonioso. Siete speciali, ma in una comunione universale. Proprio perché siete voi, con la vostra storia, la vostra originalità, il vostro cammino, siete parte irrinunciabile della Chiesa. Non solo voi, ma non senza di voi”.

Solennità della dedicazione della nostra Chiesa (1)

Nei primi secoli la dedicazione di un edificio al culto divino avveniva semplicemente con la celebrazione dell’Eucaristia.
Così la Chiesa vivente, popolo di Dio, sentiva di essere essa stessa il «luogo privilegiato» della presenza del Signore. In seguito si diede maggior rilievo al tempio materiale, dedicandolo con cerimonie molteplici e complesse e celebrandone l’anniversario (consacrazione). La liturgia però non ha mai cessato di ricordare che il tempio materiale non è che l’immagine del tempio spirituale, costruito di pietre vive, che siamo noi, nella comunione e nella corresponsabilità, per l’edificazione del popolo di Dio.
In questa Solennità della dedicazione della nostra chiesa, la nostra comunità cristiana deve sentirsi sempre più impegnata a costituire «una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica».

La prima pietra di una chiesa è simbolo di Cristo. La Chiesa poggia su Cristo, è sostenuta da lui e non può essere da lui separata. Egli è l’unico fondamento di ogni comunità cristiana, la pietra viva, rigettata dai costruttori ma scelta e preziosa agli occhi di Dio come pietra angolare. Con lui anche noi siamo pietre vive costruite come edificio spirituale, luogo di dimora per Dio. Questa è la realtà della Chiesa; essa è Cristo e noi, Cristo con noi.
Egli è con noi come la vite è con i suoi tralci. La Chiesa è in Cristo una comunità di vita nuova, una dinamica realtà di grazia che promana da lui. Ma cosa significa la parola “chiesa”? Il termine deriva dal greco ekklesía, che significa “assemblea” o “coloro che sono convocati”. Il significato fondamentale di “chiesa” non è quindi quello di un edificio, ma di persone.
Il contenuto (le persone) ha in seguito dato il nome anche al contenitore (l’edificio).
Per capirci, potremmo scrivere in minuscolo l’edificio e in maiuscolo le persone convocate.

Ma perché si parla prima di “benedizione” e poi di “dedicazione”? Quando la costruzione di una chiesa è terminata, viene benedetta, invocando la benevolenza e la presenza del Signore su di essa. In seguito quel luogo può anche essere dedicato ad altro scopo. Quando invece la chiesa viene “dedicata” significa che la si vuole destinare in modo definitivo al culto. Il rito della dedicazione può però essere celebrato solo quando la chiesa possiede un altare fisso. Non si tratta di passaggi burocratici… Come per tutte le nostre case, si tratta di momenti che segnano una storia di amore di chi abita i luoghi, di chi li ha sognati proprio perché esprimano, custodiscano e incrementino la storia di bene di chi li abita. Così è anche tra di noi e con il Signore: La chiesa è un edificio in cui Dio e l’uomo vogliono incontrarsi; una casa che ci riunisce, in cui si è attratti verso Dio, ed essere insieme con Dio ci unisce reciprocamente.

Verso la conclusione del mese missionario (2)

Dalla missione dentro di sé si può passare alla missione verso gli altri, ricordando che essere credente significa essere credibili ed esortando tutti all’uso della parola alla luce della Parola di Dio: occorre essere missionari con l’esempio, e questo avviene se l’incontro con il Risorto trasforma la nostra vita.
Solo allora si può andare incontro al prossimo che mi è vicino e la prossimità permette di poterci parlare nella sincerità, nella collaborazione, nel modo sincero di costruire la città terrena, avendo per tutti un atteggiamento a dimensione d’uomo, e quindi secondo Dio.
Quale effetto produce questa conversione interiore: quello di essere come il cero pasquale luci accese per diradare tante tenebre che ci sono; il lucernario con il suo simbolismo nella notte di Pasqua infatti ci fa comprendere cosa significa cambiare per essere per tutti sorgente di luce. E per poter far questo il cristiano ha bisogno dell’alimento, la preghiera, perché il cristiano può consumare se stesso solo se si alimenta nell’incontro con il Signore. Questo è il segreto della vita missionaria. La preghiera del Padre nostro ci aiuta ad allargare gli orizzonti all’uomo di tutti i luoghi e di tutti i tempi e che gli altri segni che rivivremo nella celebrazione ci ricorderanno il nostro impegno di battezzati e ci daranno la spinta per essere missionari nel nome del Signore e sotto la guida di Maria,  Stella della nuova evangelizzazione.

Siamo una comunità che adora il Signore

Non si può non pensare all’inizio del “decalogo”, i dieci comandamenti, dove sta scritto: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20,2-3). Troviamo qui l’elemento costitutivo dell’Eucaristia: inginocchiarsi in adorazione di fronte al Signore. Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito. Ci prostriamo dinanzi a un Dio che per primo si è chinato verso l’uomo, come Buon Samaritano, per soccorrerlo e ridargli vita, e si è inginocchiato davanti a noi per lavare i nostri piedi sporchi.
Adorare il Corpo di Cristo vuol dire credere che lì, in quel pezzo di pane, c’è realmente Cristo, che dà vero senso alla vita, all’immenso universo come alla più piccola creatura, all’intera storia umana come alla più breve esistenza. L’adorazione è preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma.
Ecco perché adorare ci riempie di gioia. Facendo nostro l’atteggiamento adorante di Maria, preghiamo per noi e per tutti; preghiamo per ogni persona che vive in questa comunità, perché possa conoscere Te, o Padre, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo. E così avere la vita in abbondanza.

Verso la conclusione del mese missionario (1)

Il 31 ottobre si conclude il Mese Missionario.
Mentre finisce questo mese missionario la nostra, come ogni parrocchia, sta vivendo il suo Anno pastorale che ci fa comprendere che noi siamo su questa terra non per guardare solo a noi stessi, chiusi nel nostro egoismo e nel nostro individualismo, soli nel nostro piccolo mondo, ma per essere per l’altro, per essere con l’altro, in missione per il mondo. Per questo occorre costruirsi con la preghiera e il sacrificio perché niente nella Chiesa è fecondo se non nasce dall’adorazione, dalla preghiera attorno alla Parola di Dio e dall’Eucaristia.
La prima missione da compiere è all’interno di noi stessi, quella di possederci spiritualmente, di far missione in noi stessi che significa andare al di là delle piccole visioni, al di là delle piccole divisioni e recuperare il senso serio dell’esistenza che solo in Dio ha la sua luce, coltivare pensieri di bontà, portando in tutto un atteggiamento buono, di apertura.

L’importanza del Rosario

Il Rosario è una preghiera mariana?

Il Rosario non è principalmente una preghiera rivolta a Maria, ma una preghiera con Maria. Non è quindi una preghiera mariana, ma è una preghiera essenzialmente cristologica.
I misteri, che esso propone, mettono al centro il personaggio principale: Cristo Gesù.

Esiste anche un Rosario missionario?


Sì, ed è molto suggestivo: una decina, quella bianca è per la vecchia Europa, perché sia capace di riappropriarsi della forza evangelizzatrice che ha generato tante Chiese; la decina gialla è per l’Asia, che esplode di vita e di giovinezza; la decina verde è per l’Africa, provata dalla sofferenza, ma disponibile all’annuncio; la decina rossa è per l’America, vivaio di nuove forze missionarie; la decina azzurra è per il Continente dell’Oceania e dell’ Australia che attende una più capillare diffusione del Vangelo.

Giornata missionaria mondiale (3)

Nella Chiesa italiana si rilancia lo slogan, impegnativo, “Testimoni e profeti”. Chi possono essere, oggi, i testimoni e i profeti?
Da tempo una forma di pensiero sempre più pervasiva si è annidata nel modo di concepire la vita e le relazioni, mi riferisco al disumano ragionevole. Un pensiero unico centrato sull’individualismo e sulla ricerca del benessere a tutti i costi. Anche nella Chiesa, a mio modesto avviso, questa visione del vivere ha inferto delle ferite. La risposta a tutto ciò non sta nell’elaborare concettualmente risposte convincenti ma esibire una vita che abbia il sapore e il gusto del bello, del vero, del buono.
Essere testimoni e profeti richiede semplicità del cuore, vita lontana da ripiegamenti autoreferenziali, insieme alla fiducia in Dio e negli uomini. I testimoni e i profeti sono da identificare in quanti, e sono tanti, desiderano porre le radici della propria vita in una vera docilità allo Spirito, l’unico capace di aprire la vita al mistero di Dio e al mistero dell’uomo. Lì dove la vita si apre all’umano redento dall’amore grande del Cristo Gesù, fiorisce la vita e quella speranza capace di contagiare l’esistenza di molti.

Giornata missionaria mondiale (2)

Anche oggi, nel mondo, si moltiplicano situazioni di conflitto, povertà, negazione dei diritti essenziali, migrazioni forzate… In quasi tutti i Paesi del mondo sono presenti i missionari, spinti da un generoso impegno per l’evangelizzazione e la promozione umana. 
Potrei sembrare banale ma il segno della loro testimonianza è la trasparenza e la freschezza con cui vivono il Vangelo, sapendosi fare tutto a tutti, ad ogni latitudine del globo terrestre e in ogni ambito esistenziale segnato dalla fragilità e dalla sofferenza. Quanto andiamo vivendo, anche a causa della pandemia, ha messo a nudo le fatiche che abitano i nostri vissuti. I missionari, ovvero coloro che sentono incontenibile la gioia di un annuncio che si fa solidarietà e vicinanza, diventano gli avamposti di una sacramentalità della Chiesa che nell’umano ferito e dolente sa attestare l’esercizio dell’ospitalità e della cura, la vicinanza del Cristo sulle strade dell’uomo.

Giornata missionaria mondiale (1)

“Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”: è preso dagli Atti degli apostoli il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale 2021.
“Essere attrattivi”, come spesso ci rimanda Papa Francesco, è questione di autenticità, di verità nell’agire. Solo chi è stato contagiato dall’amore può trasmettere amore. Dovremmo interrogarci su quanti
dei nostri cammini di fede sono davvero esperienze dell’amore con cui Dio ci ama. Con questo messaggio il Papa ci invita a sperimentare quell’amore viscerale, ricco di compassione e umanità, che ritroviamo nell’esperienza del Cristo. Solo chi è stato toccato da quest’incontro ha il cuore che trabocca di gioia e può evangelizzare, ovvero portare al mondo un annuncio di speranza, di gioia che narri la vicinanza del Signore alla vita di ciascuno; la possibilità di sperimentare una vita nuova, segnata dalla gratuità e dalla fraternità. Generare alla fede è azione dello Spirito che soffia come e dove vuole e non azione prevedibile di strategie pastorali spesso ipertrofiche e sterili.

Giornata Eucaristica (2)

Un abisso chiama un altro abisso”, dice il salmista (sal 42). Solamente l’infinito e eterno Amore di Dio può riempire il vuoto esistenziale che c’è nell’uomo quando non conosce né ha incontrato Dio. Quando non c’è Dio nell’orizzonte di una vita si vive l’angusta contraddizione fra l’essere stato creato col desiderio di eternità e la realtà dei propri limiti, della fragilità e dell’effimero di questa vita.
Ogni uomo -anche quando non sia cosciente di cio’- ha sete di eternità, di infinito, di trascendenza. Questa sete è in realtà sete di Dio. Come lo spiega il salmista: “la mia anima ha sete del Dio vivo” (sal 42). Ma -questa è la Buona Novella che ci rivela il Signore- anche Dio ha sete dell’uomo, della sua salvezza. Non è un caso che il dialogo di Gesù Cristo con la samaritana inizi con “dammi da bere”. Sicuramente il Signore aveva sete fisica ma Lui aveva un’altra sete più importante da appagare. Per questo anche ai discepoli -che erano ritornati e si erano meravigliati nel vederlo parlare con una donna per giunta samaritana- quando gli chiedono che mangi, lui risponde che ha un cibo da mangiare che loro non conoscono e poi spiega che questo alimento “è fare la volontà del Padre”. La sete di Cristo è sete di salvezza delle anime, la sua fame è fare la volontà del Padre: salvare tutta l’umanità. Gesù, in questo momento concreto della relazione, ha sete della salvezza di quella vita persa e attraverso di lei di tutti gli abitanti di Sicar.
In quel “dammi da bere” sotto il sole di mezzogiorno nel pozzo di Giacobbe, si specchia un altro mezzogiorno, quando si oscura il sole nel Golgota: è il “ho sete” della croce.
Il dialogo comincia con il “dammi da bere” ma culmina con la domanda della samaritana sul dove adorare Dio. Dalla sete del Signore deriva la sete della samaritana: dove adorare Dio. La sete dell’uomo e la sete di Dio si incontrano nell’adorazione. Si incontrano e si saziano reciprocamente. Solo l’amore infinito di Dio riempie l’infinito vuoto di eternità, di bontà, di bellezza dell’uomo.