Pentecoste (4)

Spirito: misterioso cuore del mondo, vento sugli abissi, fuoco del roveto, Amore in ogni amore. Lo Spirito: estasi di Dio, effusione ardente, in noi, della sua vita d’amore. Senza lo Spirito il cristianesimo non è che arida dottrina, la Chiesa si riduce a
organizzazione e codice, la morale a fatica sovente incomprensibile, la croce a follia, Cristo rimane un evento del passato.

Ci sono tante “sere” nella vita, tanti momenti in cui tutto sembra finire, soprattutto la speranza: e sono i momenti nei quali una novità che arriva dirompente non lascia certo il tempo che trova. Ti sconquassa, ti scuote, ti rivoluziona, ti fa ribollire dentro, magari ti fa anche un po’ male perché smuove le giunture dell’anima: ma è sempre qualcosa di profondamente decisivo. È qualcosa che ti fa perdere la paura, che ti fa correre nel buio della notte e accorgersi che in quella sera della vita gli occhi si riaprono alla speranza.

Capitò così anche la sera di quel giorno, il giorno di Pentecoste, il giorno in cui i giudei osservanti celebravano la festa delle sette settimane, cioè il tempo trascorso dalla notte dell’Esodo (la Pasqua) al giorno in cui Mosè ricevette le Tavole della Legge sul Sinai; lo stesso tempo in cui, a primavera inoltrata, si iniziavano a raccogliere i primi frutti della terra. I Dodici, riuniti in un luogo a porte chiuse – chiuse come il loro cuore alla speranza – stanno per assistere alla conclusione dell’ennesimo giorno di festa trascorso come un giorno qualsiasi, senza alcuna voglia di festeggiare la Legge di Mosè che il Maestro aveva insegnato loro a superare, né di gioire per i frutti di una terra che ora non avevano più, perché per seguire lui avevano lasciato tutto in case, campi, terreni e familiari.
E così, mentre il giorno stava per finire, all’improvviso dal cielo arriva qualcosa che nessuno aspettava più, qualcosa che non rientrava nelle loro attese, qualcosa che sconvolge il loro torpore, qualcosa che illumina a giorno anche la sera più buia, qualcosa che non li può lasciare indifferenti, qualcosa che sconvolge talmente le loro vite da prendere possesso addirittura della loro bocca e della loro voce permettendo loro di parlare in lingue diverse e totalmente sconosciute a chi, a mala pena, biascicava qualcosa di ebraico, perché ognuno sapeva solo l’aramaico materno.
No, qui ora si parla greco, latino, arabo, e le più diverse lingue della terra: perché è arrivato qualcosa che non riesce a lasciare indifferenti, e quando arriva ti sconvolge l’esistenza, senza neppure lasciarti il tempo di ragionare se aderirvi o no, perché la sua forza ti trascina per strada ad annunziare le grandi opere di Dio.
A te, che non speravi più nemmeno di poter imparare qualcosa di nuovo, lo Spirito mette sulla bocca un linguaggio nuovo, e così anche agli altri, ognuno diverso, eppure tutti quanti ci si capisce. Perché il linguaggio è diverso, ma la sostanza è la stessa: è il linguaggio dell’amore, ed è universale. E ciò che più sconvolge, è il fatto che arriva alla sera della vita, mentre il giorno di Pentecoste stava per finire.
Sembra proprio che per Dio, e per il dono del suo Spirito, non è mai troppo tardi.

Pentecoste (3)

Spirito: misterioso cuore del mondo, vento sugli abissi, fuoco del roveto, Amore in ogni amore. Lo Spirito: estasi di Dio, effusione ardente, in noi, della sua vita d’amore. Senza lo Spirito il cristianesimo non è che arida dottrina, la Chiesa si riduce a
organizzazione e codice, la morale a fatica sovente incomprensibile, la croce a follia, Cristo rimane un evento del passato.

Ci sono cose, nella vita, che accadono quando meno te l’aspetti. E non sono tutte cose brutte, o amare sorprese. Semplicemente, sono cose insperate, che accadono senza essere alimentate dalla speranza: e dal momento che speranza e attesa sono, in fondo, le due facce di un’unica medaglia, ciò che non è (o non è più) oggetto di speranza, di fatto non è più neppure atteso. E quando giunge in maniera improvvisa, ci coglie – appunto – alla sprovvista e mette in subbuglio le nostre esistenze.
Pensiamo a una coppia che attende da anni la nascita di un figlio, e questo non avviene; mentre avviene, eccome, che gli anni passino e ormai neppure più si rimanga aperti alla speranza. Ma poi, quando tutto parla in maniera diametralmente opposta al rifiorire della vita, essa giunge, improvvisa e inattesa, a mettere a soqquadro le due esistenze.
Pensiamo alle quantità di copie di curriculum vitae che un giovane neolaureato manda a tutte le imprese, ditte o istituzioni che hanno a che fare con ciò per il quale ha conseguito il tanto agognato foglio di carta, e ai mille colloqui fatti conclusi con un nulla di fatto perché per essere assunto serve l’esperienza che non ha; e allora, preso da spirito di sopravvivenza, si adatta a qualsiasi tipo di lavoro che gli permetta di guadagnarsi il pane quotidiano.
Ma quando meno se l’aspetta, arriva la grande occasione della vita che gli dona la possibilità di fare ciò che ha tanto desiderato e nel quale non sperava più.
Oppure una persona delusa da una vita che le ha fatto provare l’amore e la vicinanza di qualcuno che poi si è rivelato l’opposto di ciò che era, e le altre occasioni per avere qualcuno al fianco si sono rivelate per quello che erano, appunto “occasionali”, senza alcuna prospettiva che permettesse di guardare al di là della siepe del tempo.
Ma poi arriva la conoscenza inattesa, l’incontro non sperato, la persona per nulla ideale ma tremendamente reale che ti ridà la voglia di ricominciare e con la quale senti che la vita ha una prospettiva più bella. Quanti esempi di eventi inattesi potrebbe citare ognuno di noi, e molti di essi giunti magari nel momento in cui la vita iniziava a rabbuiarsi, ad andare verso una sera che non necessariamente è quella dell’età.

Pentecoste (2)

Il Vangelo di Giovanni colloca la Pentecoste già la sera di Pasqua: «Soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito di Cristo, ciò che fa vivere, viene a farci vivere, leggero e quieto come un respiro, umile e testardo come il battito del cuore. C’è un Dio in noi.
Questa è tutta la ricchezza del mistero: «Cristo in voi!». La pienezza del mistero è di una semplicità abbagliante: Cristo in voi, Cristo in me. Quello Spirito che ha incarnato il Verbo nel grembo di santa Maria fluisce, inesauribile e illimitato, a continuare la stessa opera: fare della Parola carne e sangue, in me e in te, farci tutti gravidi di Dio e di genialità interiore.
Perché Cristo diventi mia lingua, mia passione, mia vita, e io, come i folli e gli ebbri di Dio, mi metta in cammino dietro a lui «il solo pastore che pei cieli ci fa camminare».

Pentecoste (1)

La Pentecoste non si lascia recintare dalle nostre parole. La liturgia stessa moltiplica le lingue per dirla: nella prima Lettura lo Spirito arma e disarma gli Apostoli, li presenta come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un fuoco, una divina follia che non possono contenere. E questo, dopo il racconto della casa di fiamma, di un vento di coraggio che spalanca le porte e le parole. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti. La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o risentiti, su questa mia Chiesa, amata e infedele, viene la sua passione mai arresa, la sua energia imprudente e bellissima.
«Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra». Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie di tutta la Bibbia: tutta la terra è gravida, ogni creatura è come incinta di Spirito, anche se non è evidente, anche se la terra ci appare gravida di ingiustizia, di sangue, di follia, di paura. Ogni piccola creatura è riempita dal vento di Dio, che semina santità nel cosmo: santità della luce e del filo d’erba, santità del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. Una divina liturgia santifica l’universo

Covid-19: ritorno alla normalità

Come è ormai noto, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, condividendo l’indicazione dell’apposito Comitato tecnico, ha annunciato lo scorso 5 maggio che il Covid-19 non costituisce più un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale.
La Conferenza Episcopale Italiana, con lettera dell’8 maggio successivo, ha segnalato che tutte le attività ecclesiali, liturgiche e pie devozioni possono tornare a essere vissute nelle modalità consuete precedenti all’emergenza sanitaria.
Tutto ciò premesso, atteso che nessuna porzione del territorio diocesano è al momento
caratterizzata da un particolare rischio epidemiologico, il nostro vescovo Maurizio, stabilisce quanto segue:
Tutti i fedeli siano richiamati al dovere della partecipazione alla Messa domenicale e festiva;
L’ingresso in un luogo sacro non sia impedito a chi non indossa la mascherina;
Non sono esclusi e quindi non è possibile escludere dalla Comunione Eucaristica i fedeli che non indossino la mascherina e/o vogliano ricevere la Comunione sulla lingua o in ginocchio;
Il ministro ordinato inviterà allo scambio della pace, attenendosi alle indicazioni del messale; i fedeli possono continuare a scambiarsi il gesto di pace senza alcun contatto fisico; tuttavia, chi lo desidera può esprimere il segno di pace con la consueta stretta di mano;
È consentito raccogliere le offerte durante la celebrazione, al momento dell’offertorio e
distribuire sussidi liturgici in formato cartaceo;
Siano riempite le acquasantiere.

Ascensione del Signore

Con l’ascensione di Gesù, con il suo corpo assente, sottratto agli sguardi e al nostro avido toccare, inizia la nostalgia del cielo. Aveva preso carne nel grembo di una donna, svelando il profondo desiderio di Dio di essere uomo fra gli uomini e ora, salendo al cielo, porta con sé il nostro desiderio di essere Dio. L’ascensione al cielo non è una vittoria sulle leggi della forza di gravità. Gesù non è andato lontano o in alto o in qualche angolo remoto del cosmo.
È “asceso”’ nel profondo degli esseri, “disceso” nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita.
A questa navigazione del cuore Gesù chiama i suoi. A spostare il cuore, non il corpo.
Il Maestro lascia la terra con un bilancio deficitario, un fallimento a giudicare dai numeri: delle folle che lo osannavano, sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne tenaci e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno molto amato, questo sì, e sono venuti tutti all’ultimo appuntamento. Ora Gesù può tornare al Padre, rassicurato di avere acceso amore sulla terra.
Sa che nessuno di quegli uomini e di quelle donne lo dimenticherà. È la sola garanzia di cui ha bisogno. E affida il suo Vangelo, e il sogno di cieli nuovi e terra nuova, non all’intelligenza dei primi della classe, ma a quella fragilità innamorata.
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.
Nel momento dell’addio, Gesù allarga le braccia sui discepoli, li raccoglie e li stringe a sé, e poi li invia. È il suo gesto finale, ultimo, definitivo; immagine che chiude la storia: le braccia alte in una benedizione senza parole, che da Betania veglia sul mondo, sospesa per sempre tra noi e Dio! Il mondo lo ha rifiutato e ucciso e lui lo benedice.
Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.
Gesto prolungato, continuato, non frettoloso, verbo espresso all’imperfetto per indicare una benedizione mai terminata, in-finita; lunga benedizione che galleggia alta sul mondo e vicinissima a me: Lui che benedice gli occhi e le mani dei suoi, benedice il cuore e il sorriso, la tenerezza e la gioia improvvisa! Quella gioia che nasce quando senti che il nostro amare non è inutile, ma sarà raccolto goccia a goccia, vivo per sempre.
Che il nostro lottare non è inutile, ma produce cielo sulla terra.
È asceso il nostro Dio migratore: non oltre le nubi ma oltre le forme; non una navigazione celeste, ma un pellegrinaggio del cuore: se prima era con i discepoli, ora sarà dentro di loro, forza ascensionale dell’intero cosmo verso più luminosa vita.

Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori

Professare la fede a 14 anni impegna per una scelta di servizio e apre a una testimonianza che trova casa soprattutto nell’esperienza della comunità parrocchiale e in particolare dell’oratorio.

Desidero esprimere un augurio sincero ai 14enni, in sette parole.
SIATE CREDENTI: siate membra del popolo di Dio, perciò siate fedeli a Dio che parla, alla Sua Parola e alla Sua Alleanza, alla strada che vi indica; siate nuovi, vivete una vita nuova, abitata dallo Spirito che ci fa vedere il mondo, con gli occhi di Dio.
SIATE CONCORDI: abbiate “un cuor solo e un’anima sola”, siate concordi con tutti, appassionati dell’unità, cultori dell’amicizia; siate uniti alla Comunità Parrocchiale, ai compagni, a chi è vicino, a chi è lontano, a chi è anziano.
SIATE LIBERI: siate capaci di una libertà autentica, solida, che non si attacca a nulla e non teme le prove e le difficoltà; siate capaci della libertà di chi è servo solo di Dio e che non deve procurarsi più nessun altro padrone né farsi servo di altri servi; siate liberi da voi stessi e dalle vostre passioni che siete chiamati a vincere; liberi dalle idolatrie dalle molte facce, sempre pronte a incatenarci in una prigione fatta di illusioni.
SIATE CORAGGIOSI: non lasciatevi accalappiare dalla sfiducia, dallo scoraggiamento, dall’impotenza; testimoniate la vostra fede dovunque e sempre, con coraggio: “Sii forte, fatti animo, non temere e non ti spaventare; il Signore Dio tuo cammina con te e non ti abbandonerà”.
SIATE GENIALI: siate capaci di lasciare nel mondo la vostra impronta, proprio come ha fatto Cristo; diventate capaci di novità, di creatività, di stupore; siate capaci di far emergere le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti nella realtà del mondo.
SIATE PERSEVERANTI: assumete con consapevolezza e portate avanti con fedeltà gli impegni importanti; l’impegno cristiano è importante, implica una missione che non ha mai termine, è per tutta la vita e, proprio per questo, è chiamato a rinnovarsi e ad assumere compiti sempre nuovi ed inaspettati.
Siate fedeli nei piccoli impegni per imparare la perseveranza grande richiesta dalla fede.

Mese di Maggio

Anche questa settimana ci ritroveremo, da lunedì a venerdì alle ore 21.00 per la Recita del Rosario. Continuerà la nostra breve riflessione, prima della conclusione di ogni serata, sulla “Salve Regina. È il saluto dei servi alla Regina di misericordia; saluto solenne, espresso con felice disposizione letteraria: lo stesso termine apre e chiude la prima strofa («Salve Regina, Madre di misericordia […] salve»); è clamore nel senso biblico-liturgico di grido di un popolo oppresso che sale fino al cielo, clamore che si leva dai servi – oppressi dalla coscienza del peccato e gementi in terra d’esilio – alla loro Avvocata, perché intervenga in loro favore; è la supplica dei Salve regina. Una invocazione alla madre di Gesù, perché «dopo questo esilio» mostri ad essi il Figlio, «frutto benedetto» del suo grembo.
Per comprendere la Salve regina bisogna collocarla all’interno di un vasto affresco teologico in cui emerge la visione di Cristo, nostra speranza, e della chiesa, come comunità di speranza, ma anche un modo di considerare l’esistenza cristiana alla luce delle realtà ultime, rivolta verso il suo traguardo e compimento.
Cristo, nostra speranza. Gesù risorto è la nostra speranza, egli è «il primogenito di coloro che risorgono dai morti», la pienezza di tutte le cose. Della nostra speranza egli è il fondamento supremo, la garanzia assoluta, il contenuto immenso. In lui il futuro ha già
un volto personale e il regno di Dio ha un nome. Cristo risorto è punto di riferimento, di speranza, per ogni uomo e ogni donna che, su questa terra, partecipa al mistero del dolore. Nel presente del dolore, Cristo risorto è la certezza del futuro della gloria.
La chiesa, una comunità di speranza. È il popolo che compie nella speranza il suo pellegrinaggio verso la vera Terra promessa, verso la comunione piena con Dio. L’immagine della vita come cammino verso il cielo si presenta con tre componenti essenziali: il viandante, la via, la meta. Il viandante viene designato come esule, come pellegrino, come uomo che ha smarrito la strada. La via è considerata ora come deserto o terra arida, come valle di lacrime, come mare in tempesta, oppure come Cristo-via, la sola che conduce al Padre.
La meta è individuata ora in Dio, il termine di ogni «santo viaggio», ora nella «città del Dio vivente» o nella «Gerusalemme celeste», ora nel «nuovo cielo» e nella «nuova terra», ora nella definitiva «Terra promessa».

A cosa ti chiama Gesù, cosa vuole da te?

Gesù sa che siamo deboli e che è impossibile usare bene i doni che ci dà solo con le nostre forze. Noi dopo un po’ ci stanchiamo, ci scoraggiamo, ci dimentichiamo o possiamo buttare via delle cose preziose. Questo è un peccato, è il vero peccato!
Così come nessuno può darsi la cresima da solo, o battezzarsi da solo, nessuno può credere e mantenere viva la fede da solo. Per questo Gesù ci mette assieme e ci dona i nostri genitori, i sacerdoti, i catechisti, gli amici, i santi e tante persone che ci aiutano ad usare bene e non sprecare i doni che Gesù ci dà. Devi rimanere attaccato a esse!
È impossibile essere felici da soli. E allora sfruttiamo tutti gli strumenti che il Signore ci dà e ci chiede di usare per non perdere i doni che ci offre.
Ecco alcune cose che ci aiutano a non perdere e a godere di più dei doni che ti verranno fatti:
1 – La preghiera: attraverso cui noi riapriamo il nostro cuore a Dio, lo ringraziamo per i doni che ci dà, gli chiediamo quello di cui abbiamo bisogno, certi che ci
2 – I sacramenti: attraverso i quali Dio ci ridona sempre la sua vita divina. Con la Comunione Gesù viene proprio ad abitare nella nostra anima attraverso il Pane della Vita. Con la Confessione ci libera dal male, dai nostri peccati e ci fa ricominciare sempre.
3 – La vita della comunità cristiana: partecipare alla vita di una comunità in cui posso fare esperienza che stare con Gesù e con chi vuole seguirlo è meglio e sono più contento. La prima comunità è la propria famiglia. Poi c’è ad esempio il gruppo delle medie di cui fai parte e poi la nostra comunità, in particolar modo l’oratorio.

A cosa ti chiama Gesù, cosa vuole da te?

È come se la Chiesa fosse una grande squadra di calcio. Ognuno riceve dall’allenatore il suo ruolo secondo le sue qualità, i suoi doni e i suoi talenti. Nella squadra c’è il portiere, ci sono i difensori, i centrocampisti e gli attaccanti. La squadra però è una sola! Così quando l’attaccante segna un goal tutti festeggiano, quando il portiere para un tiro insidioso tutti gioiscono! Nessuno vince da solo. Vince la squadra! Ognuno serve e collabora alla vittoria secondo il suo ruolo. Ci sarà chi ha più fiato, chi ha più tecnica, chi è più forte nei colpi di testa e chi invece non sbaglia un tiro, ma tutti insieme collaborano nel costruire la squadra e nel perseguire la vittoria