Campo Scuola 2023 – (dalla 3 media alla 4 superiore)

Quest’anno il campo scuola dedicato ai ragazzi che hanno frequentato dalla classe 3 media fino alla classe 4 superiore sarà organizzato in questo modo:

Da domenica 23 luglio a domenica 30 luglio:

Il costo di partecipazione compreso di trasporto, alloggio con trattamento di pensione completa (comprese lenzuola ed esclusa biancheria da bagno) è di 400 € il primo figlio/a, per il secondo fratello/sorella  il costo è di 350 €

I posti disponibili sono 35, farà fede la data e l’ora di iscrizione registrate dal sistema; la caparra di 100 €, da versare in contanti presso le parrocchie entro il 15 Aprile, non verrà restituita in caso di rinuncia.

Per quanto riguarda il saldo si chiede di fare un versamento sull’IBAN : IT51Z0832432950000000036085,  che sarà attivo dal 20 Aprile, entro il 30 Giugno specificando nella CAUSALE  “NOME E COGNOME DEL BAMBINO – SALDO CAMPO SCUOLA”

L’invio del modulo è da ritenersi a tutti gli effetti un’iscrizione.

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Campo Scuola 2023 – (dalla 4 elementare alla 2 media)

Quest’anno il campo scuola dedicato ai ragazzi che hanno frequentato dalla classe 4 elementare fino alla classe 2 media sarà organizzato in questo modo:

Da domenica 16 luglio a domenica 23 luglio:

Il costo di partecipazione compreso di trasporto, alloggio con trattamento di pensione completa (comprese lenzuola ed esclusa biancheria da bagno) è di 400 € il primo figlio/a, per il secondo fratello/sorella  il costo è di 350 €

I posti disponibili sono 35, farà fede la data e l’ora di iscrizione registrate dal sistema; la caparra di 100 €, da versare in contanti presso le parrocchie entro il 15 Aprile, non verrà restituita in caso di rinuncia.

Per quanto riguarda il saldo si chiede di fare un versamento sull’IBAN : IT51Z0832432950000000036085,  che sarà attivo dal 20 Aprile, entro il 30 Giugno specificando nella CAUSALE  “NOME E COGNOME DEL BAMBINO – SALDO CAMPO SCUOLA”

L’invio del modulo è da ritenersi a tutti gli effetti un’iscrizione.

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8 Marzo: il senso di una festa

In occasione della “Festa della donna” ho trovato particolarmente bello, profondo e ricco di riflessioni il commento di una suora di clausura.
Non riguarda solo la dignità della donna in generale, bensì parla del fatto che tale dignità deve essere prima di tutto riconosciuta e rispettata dalla donna stessa. La donna deve assumersi in prima persona la responsabilità di far emergere e rispettare la propria dignità. La donna deve diventare sempre più protagonista e artefice della sua vita e del suo futuro creando una convivenza equilibrata e armoniosa, portatrice ed educatrice di valori profondi per sé e poi per la società in cui vive.

Così scrive la claustrale: «Che le donne facciano sentire la loro voce e richiamino l’attenzione su quanto di loro si pensa, si dice e soprattutto si propaganda, per manifestare il loro dissenso e le loro ragioni, lo ritengo legittimo, ma nello stesso tempo spererei vivamente che la donna stessa abbia giusta consapevolezza della dignità che vuole affermare e idee chiare sulla sua identità e capacità di progettazione della propria vita. Cosa che, francamente, non mi sembra essere sempre certa nel nostro contesto sociale.
Mi sembra infatti che essere donna, e donna emancipata, attualmente si identifichi il più delle volte con l’equiparazione di ruoli e poteri rispetto all’uomo. Tanto che non è raro sentire parlare di cifre sulla partecipazione femminile agli incarichi di rappresentanza o di alto livello a dimostrazione della sua posizione culturale ancora minoritaria. Ma il problema è a monte: se anche la donna giungesse ai vertici delle più brillanti carriere – cosa che cordialmente le auguro e talora, di fatto, già avviene – desidererei comunque che il suo modo di essere e di porsi fosse di timbro diverso, femminile appunto (il che non vuol dire inferiore, ma di altra qualità), arricchendo ogni ambito culturale, politico e sociale della sua specifica forma di umanità e sensibilità. Per il suo profondo rapporto con la vita, il suo intuito e la sua capacità di osservazione, per l’attenzione all’umano e le connaturali doti di generosità, la donna è infatti, a mio avviso, portatrice privilegiata di originalità, di innovazione e creatività, nonché di bellezza nel senso più filosofico ed estensivo del termine.
In tutta sincerità non trovo convincenti né interessanti le donne che imitano la figura maschile mostrando una sicurezza talora aggressiva che indurisce il loro tratto, oppure ostentando una spregiudicatezza di comportamenti e di toni che le omologa a un modello quanto mai dissonante dal loro fondamento antropologico. Perché, tra l’altro, una delle questioni connesse al valore, o disvalore della donna oggi, è quella dello smantellamento di quella compostezza, o meglio pudore (parola obsoleta nella nostra cultura, se non all’indice) che custodisca ma anche sveli in certo senso il mistero profondo della persona».

A tutte le donne che festeggeranno l’8 marzo l’augurio di sperimentare la bellezza e la grandezza del proprio essere donne e madri di nuove generazioni di uomini e donne, che in piena sintonia vivono nel rispetto e apprezzamento reciproco per la costruzione di una nuova umanità così come è stata pensata e voluta dal Creatore.

“Invitiamo le comunità a pregare per la pace”

Pubblichiamo una nota della Presidenza della Cei, a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina.

Il grido accorato di Papa Francesco scuote le coscienze e chiede un impegno forte a favore della pace: è tempo di trovare spazi di dialogo per porre fine a una crisi internazionale aggravata dalla minaccia nucleare. Ad un anno dall’invasione russa di uno Stato indipendente, l’Ucraina, vogliamo tornare a ripetere il nostro “no” deciso a tutte le forme di violenza e di sopraffazione, il nostro “mai più” alla guerra. Per questo, invitiamo le comunità ecclesiali ad unirsi in preghiera per invocare il dono della pace nel mondo.
In Ucraina, così come in tanti (troppi) angoli della terra risuona infatti l’assordante rumore delle armi che soffoca gli aneliti di speranza e di sviluppo, causando sofferenza, morte e distruzione e negando alle popolazioni ogni possibilità di futuro. Sentiamo come attuale l’appello lanciato sessant’anni fa da san Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris: «Al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può ricostruire nella vicendevole fiducia» (n. 39).
Se da una parte è urgente un’azione diplomatica capace di spezzare la sterile logica della contrapposizione, dall’altra tutti i credenti devono sentirsi coinvolti nella costruzione di un mondo pacificato, giusto e solidale. Il tempo di Quaresima ci ricorda il valore della preghiera, del digiuno e della carità, le uniche vere armi capaci di trasformare i cuori delle persone e di renderci “fratelli tutti”.
Aderendo all’iniziativa del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, invitiamo a celebrare venerdì 10 marzo una Santa Messa per le vittime della guerra in Ucraina e per la pace in questo Paese. Sarà un’occasione per rinnovare la nostra vicinanza alla popolazione e per affidare al Signore il nostro desiderio di pace. Chiedere la conversione del cuore, affinché si costruisca una rinnovata cultura di pace, sarà il modo in cui porteremo nel mondo quei germogli della Pasqua a cui ci prepariamo.

Sale e Luce (2)

Invece riguardo al sale io credo che ci sia molto sale in certi gesti, per esempio in un sorriso, in un saluto. Il saluto si fa col volto. Il valore di un sorriso, un testo che tutti conosciamo: “Donare un sorriso rende felice il cuore. Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona. Non dura che un istante ma il suo ricordo rimane a lungo. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno né così povero da non poterlo donare. E se poi incontri chi non te lo offre sii generoso, porgigli il tuo: nessuno ha tanto bisogno di un sorriso come colui che non sa darlo”. Donare un sorriso rende felice il cuore. Quando sorridiamo? Quanti di noi salutano con facilità? E, poi, anche il sale dell’ascolto. Nel mondo di oggi vogliamo parlare tutti.
In televisione quando si fa politica sono scioccato da questa difficoltà ad ascoltarsi, ciascuno vuole parlare. Ciascuno pensa dal suo punto di vista, ha la sua opinione e pensa di risolvere ogni questione. Dobbiamo cambiare mentalità. Tutto l’Antico Testamento ha dentro questo verbo “ascoltare”: “Ascolta, Israele”.
E anche tra le persone dobbiamo ascoltarci di più. Dobbiamo farci il regalo di ascoltarci a cominciare dalla famiglia. L’ascolto non è soltanto un dare, l’ascolto è un ricevere. Se ascolti la storia di una persona, poi dici: “Ma io come sono meschino a pensare così”. Se ascolti un dolore dici: “Ma io mi lamento del mio dolore, sono fuori strada”. L’ascolto permette le proporzioni, cioè permette di dire: “Questa cosa qui non è importante. Io la pensavo importante ma non è importante. Sono fuori strada, sto esagerando. Sono troppo egocentrico”. E, poi, il sale della dedizione, del donarsi. C’è più gioia nel dare che nel ricevere. Certe persone meravigliose che seguono una persona malata; i nonni con i nipotini; la cura che si ha delle persone; certe coppie che hanno figli e coi genitori anziani e li curano bene. Magari li hanno in una casa di riposo ma sono lì, ci sono. Quanta gente, quanta gente meravigliosa. Quanta gente che dà il sale perché il sale è così, si perde ma dà sapore a quello che mangiamo. Ci vuole gente così per cambiare la vita nostra e la vita degli altri. E, quindi, il sale ci dice che l’ultima parola non è l’egoismo – restare nella saliera – ma l’ultima parola è l’amore. Ora finisco con questo racconto famosissimo: Il re, un giorno, si recò dal grande mistico Farid. S’inchinò e gli offrì un paio di forbici tempestate di diamanti. Farid le ammirò ma le restituì al visitatore: “Grazie per il dono magnifico, ma io non ne faccio uso. Dammi piuttosto un ago”. “Ma se hai bisogno di un ago, ti saranno utili anche le forbici”, replicò il re. “No – spiegò Farid – le forbici tagliano e separano. Un ago, invece, cuce e unisce ciò che era diviso. Il mio insegnamento è fondato sull’amore e sulla comunione. Mi occorre un ago per ricucire l’unità e non le forbici per tagliare e dividere”. 
Forse qualche forbice in meno, qualche ago in più, ci farebbe bene.

Sale e Luce (1)

Mi ritornano alla mente le parole di Gesù ascoltata nel Vangelo di Domenica 5 febbraio u.s. La luce della testimonianza e il sapore dei gesti. E, allora, ho cercato di trovare un pò di luce e un pò di sale guardando la vita e le famiglie in maniera profonda.
Qual è la luce che occorre alle famiglie che, quando la troviamo, capiamo che la vita è bella? La luce è l’amore. L’amore è la luce della vita. E l’amore sono i legami, il sapere camminare insieme, il vivere insieme. Papa Francesco continuamente ripete questo motivo: vivere insieme è un’arte, è un cammino; amare è mettersi in viaggio; occorre gustare questo stare insieme anche se è molto difficile. Un’altra luce, secondo me molto significativa, è la preghiera della coppia, della famiglia ma di ciascuno di noi. È questo un punto che continuo a ripetere. Solo chi prega, crede. Uno che non prega, non crede. Credente è uno che vive davanti a Dio. Quindi se non preghiamo, come possiamo dire: “Io credo, sono credente!”? Ma noi adulti abbiamo imparato a pregare? Siamo capaci di insegnare a pregare? Quando ci vedono i nostri figli, ma chiunque, con in mano il Vangelo? Quando? Il mio sogno, come parroco, è che ogni casa abbia la sua Bibbia aperta, con l’angolo della Parola, ben evidenziato, con un fiore, una icona, un ricamo. Pregare, pregare insieme. Questa è la luce. Porre dei gesti per cui uno dice: “Perché lo fa?”. E, quindi, uno comincia a capire che c’è un mondo oltre quello che si vede, tutto un mondo da raccontarci e da raccontare ai figli. C’è tutto un oltre che va gustato, la realtà è tutta simbolica, tutto ci deve parlare: un fiore, un incontro con una persona. Ecco la luce, la luce dei legami, la luce della preghiera.

Perché tanto dolore? (lo “scandalo” della sofferenza) 2

A proposito della gioia e dei suoi surrogati, mi chiedo: dov’è la vera gioia? Perché spesso, spessissimo, viene confusa con altre cose che non sono gioia, ma surrogati di essa, come il piacere, le gratificazioni di ogni genere. Abbiamo voluto reagire a una cosiddetta società repressiva spalancando le porte di una società permissiva, dove impera, non solo a livello di comportamenti ma anche di idee e valori, quella che Benedetto XVI chiamava “dittatura del relativismo”. Il sospetto tipico del nostro tempo vede la vita cristiana come tristezza, rinunce, umore nero e visione pessimista della vita.
Chi dice questo non ha ancora bevuto all’acqua viva che Gesù promise alla samaritana (Gv 4).
Forse dovremmo chiederci se veramente Gesù è la mia Gioia. Alcune volte si ha l’impressione che essere cristiani, discepoli voglia dire “fare” per il Signore. Forse non è prima di tutto “stare con Lui”? È la sua presenza, la sua Persona, la relazione con Lui la fonte della vera Gioia? Oppure per me la gioia è nel compiere qualcosa per Gesù?
Certa è una cosa: se noi credenti non siamo ancora espressione di Gioia piena (dataci dall’incontro con il Signore), come possiamo rimanere stupiti di una mondo che vive nelle sue profondità uno stato di sottile malessere?

Perché tanto dolore? (lo “scandalo” della sofferenza)

Perché un ragazzo, nel fiore dell’età, quando davanti a lui dovrebbe schiudersi la speranza e il respiro più ampio della vita, arriva a sopprimere questa vita? E sappiamo che questi eventi si stanno moltiplicando in modo allarmante. Sì, è un allarme. Ma di che cosa? Perché un ragazzo accumula tanto dolore, spesso mascherato, e tanta poca gioia di vivere? Mi viene da pensare a due cause:
Una attribuibile al tipo di società in cui viviamo, che formulerei in questo modo: grandi promesse che poi non vengono mantenute. Per esempio: la società in generale, e i mass media in particolare, propongono uno standard di vita di un certo livello. Un ragazzo cresce identificandosi con determinati modelli, che dietro la maschera hanno il vuoto. Modelli che non pagano. Si confonde la realtà “virtuale” con la realtà “reale”. Prima o poi ci si accorge dell’inganno. Si può continuare a illudersi e a vivere nel “virtuale”, ci si può continuare a drogare per non affrontare la realtà. Ma a volte, la delusione è così terribile e fulminante che una personalità fragile non regge la frustrazione e assistiamo al crollo improvviso.
Questa causa mi fa pensare a un’altra. Perché un adolescente, apparentemente bravo, buono e studioso, è così fragile che basta un brutto voto a scuola per mandarlo in tilt? A questo punto l’interrogativo si sposta sulle cosiddette “agenzie educative”. Queste cose ci devono interrogare: che tipi di persone stiamo formando? Che cosa possiamo fare per aiutare la crescita di persone che non siano “molluschi”: con una corazza durissima all’esterno, fragilissimi all’interno.
“Se ti lasci andare nel giorno dell’angoscia, è segno che la tua forza si riduce a ben poco” (Pr 24,10).
Perché queste personalità–molluschi? Anche qui possiamo riscontrare varie cause.
Voglio sottolinearne due: Il non saper dire mai di no. Questo atteggiamento ingenera non solo una visione distorta della vita, che prima o poi presenterà i suoi no, ma induce un sospetto terribile nel figlio a cui tutto si permette: i miei genitori non mi amano perché mi danno tutto. Il figlio che cresce avverte, anche se non gli piace, che c’è un limite alle cose, che la strada della vita ha dei paletti che vanno rispettati per il suo stesso bene, altrimenti andrà fuori strada e si farà male. Se coloro che gli stanno vicino non gli presentano questi limiti non si sentirà protetto da loro. Capite che non si tratta di un discorso repressivo, come se non si volesse lo sviluppo sereno, gioioso e positivo di un giovane. È un discorso educativo.
Se uno, poi, è cresciuto, senza che qualcuno gli dicesse mai di no, non saprà neanche dire di no a se stesso. Penserà che la vita è tutta una discesa e non si accorgerà del burrone. Pensiamo, in proposito alle parole di Gesù: “Stretta è la via che conduce alla vita. Spaziosa e larga quella che conduce alla perdizione”.

Un’altra causa può consistere nell’aver abbassato la qualità della gioia: abbiamo cioè identificato la gioia, e l’ambiente è stracolmo di questo messaggio, con la gratificazione dei bisogni, siano essi di tipo primario-istintivo, o di tipo secondario-sociale.
Abbiamo parlato dei ragazzi, perché ci fa male al cuore questo moltiplicarsi allarmante dei suicidi e omicidi e violenze, tra adolescenti e giovani. Dobbiamo interrogarci seriamente sulle cause e porre dei rimedi, non tanto fare discorsi demagogici o prediche.
Ma forse non c’è tanto dolore e tanta poca di gioia anche tra gli adulti? In fondo i giovani rispecchiano, e magari moltiplicano, ciò che vedono in noi. Perché viene a mancare la gioia di vivere?

Perché spesso c’è tanto dolore e poca gioia di vivere?

Di fronte a questo argomento provo un duplice sentimento: una sorta di timore di fronte a un tema troppo grande e complesso, intorno al quale girano i più grandi e drammatici interrogativi della nostra esistenza. E d’altra parte, un desiderio di riflettere, meditare su questo binomio misterioso, dolore e gioia, che impasta quotidianamente il nostro vivere. La Parola di Dio è piena di questo binomio e lo coniuga in tante sfumature: pensiamo al libro di Giobbe e agli altri libri sapienziali.
Così la saggezza e la filosofia, la letteratura di tutti i popoli si è sempre interrogata su questi temi di fondo: perché c’è il dolore? Come può convivere con la gioia? Quale dei due prevale nella nostra quotidiana esperienza? Il titolo sembra già dare una risposta, nel senso che la dose di dolore avrebbe la parte del leone su quella della gioia: tanto dolore e poca gioia di vivere.

La domenica della parola di Dio

Oggi siamo invitati a celebrare la “Domenica della Parola”, istituita da Papa Francesco: occasione preziosa per sensibilizzare i fedeli al valore incommensurabile e imprescindibile dell’ascolto della Parola di Dio, specie quando essa viene proclamata durante la celebrazione liturgica. Il tema di quest’anno è quello della testimonianza. L’espressione a cui si ispira è quella che Giovanni annota all’inizio della sua prima lettera: “Vi annunciamo ciò che abbiamo veduto”.
La parola ascoltata, o meglio celebrata, che diviene evento, esperienza di Cristo Risorto presente e operante in mezzo a noi, chiede di essere annunciata, dunque portata a tutti, perché ogni uomo e donna possa condividere il dono della salvezza. L’annuncio rimanda alla figura del testimone, ossia di colui che ne è portatore, come ricorda S. Paolo nella Lettera ai Romani: “Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?” (Rm 10,14).
Essere testimoni significa condividere ciò che si è visto e toccato, ciò che è stato esperito, colui che abbiamo incontrato. La Parola per noi è Gesù, il Verbo che si è fatto carne e che si fa presente ogni volta che ci riuniamo nel suo nome e facciamo memoria di lui. È per questo che la proclamazione e l’ascolto della Parola trovano il contesto più proprio e ricco nella liturgia. Nell’Esortazione Apostolica post sinodale Verbum Domini, Benedetto XVI scriveva: “Parola ed Eucarestia si appartengono così intimamente da non poter essere comprese l’una senza l’altra: la Parola di Dio si fa carne sacramentale nell’evento eucaristico”.
In questo anno “Eucaristico e sinodale” per la nostra Diocesi, ci è offerta la possibilità di sottolineare tale stretto rapporto, che ricorda come proprio nella celebrazione liturgica, ed in particolare nella celebrazione della Messa, la Parola si fa evento, è lo stesso Cristo che parla e si dona a noi come Pane della vita. È dunque nella celebrazione che noi riviviamo l’incontro con il Risorto, di cui siamo chiamati a farci testimoni. Il congedo con cui si scioglie l’assemblea liturgica è sempre da interpretare come un invio rivolto a tutti alla missione e alla testimonianza. Infatti ciò che abbiamo ascoltato, ricevuto, ciò che abbiamo celebrato e vissuto nel sacramento, è anche ciò che ci qualifica come testimoni e che dobbiamo annunciare al mondo.
Essere annunciatori della Parola significa essere testimoni del Risorto.