Prima confessione

Immagino l’emozione dei fanciulli di avvicinarsi per la prima volta al sacramento della Riconciliazione. Il momento che precede di un anno la prima comunione non è un semplice atto “formale” del percorso di
catechesi del fanciullo, come se fosse un lasciapassare per l’Eucarestia.
È qualcosa in più.
La Prima confessione è un momento certamente vissuto con grande trepidazione e attesa dai fanciulli, ma anche dai genitori che, insieme ai catechisti, hanno un importante compito: accompagnare il proprio figlio
in quel cammino di fede che lo porterà all’incontro con la misericordia del Signore.
Entusiasmo, gioia e consapevolezza di star percorrendo un cammino che li avvicinerà sempre più a conoscere l’amore del Signore.
Sono i sentimenti con cui ci si avvicina e si vive il sacramento della prima  confessione.
Quell’atto in cui, subito dopo il battesimo, ci si spoglia dei propri peccati con Dio chiedendo il suo perdono per poter mangiare del suo corpo, come fatto da Gesù spezzando il pane nell’ultima cena.
Il valore e il significato non solo della parola “perdono”, ma di cosa questo termine comporti nella vita di ogni giorno, ciascuno lo può apprendere dalle relazioni quotidiane, soprattutto dall’incontro sacramentale con la misericordia di Dio. 
Più che parlare di importanza del sacramento della penitenza amministrato per la prima volta ai fanciulli che poi dovranno incontrare Gesù eucaristia verosimilmente l’anno successivo, credo sia bene preparare i fanciulli facendo loro capire che quello che ricevono è un grande dono di Dio partecipato loro attraverso le mani della Chiesa, inoltre esso è anche il primo dei sacramenti che in maniera personale e consapevole vivono nella fede. È necessario dunque che prendano coscienza della bellezza di tale dono a partire dalla gratuità del perdono di Dio che viene richiesto e ottenuto da un cuore altrettanto pronto ad accogliere la misericordia del Padre.
Anche se questo Sacramento non verrà celebrato all’interno di una Celebrazione Eucaristica, la
comunità Parrocchiale è vicina a questi fanciulli con la preghiera, soprattutto con uno stile di vita comunitario in cui le fragilità e i limiti personali vengono superati dal perdono reciproco la cui
fonte rimane sempre l’esperienza sacramentale con Dio.

L’arte di educare non è per gente pigra

Educare è essere ciò che si vuole trasmettere! Insomma, educare è risplendere!
‘Risplendere’, sì, perché educare non è salire in cattedra, ma è tracciare un sentiero.
Aveva ragione lo scrittore Ippolito Nievo (1831-1861) a dire che “La parola è suono, l’esempio è
tuono”. L’esempio ha una valenza pedagogica straordinaria almeno per quattro ragioni.

  1. Intanto perché i figli imparano molto di più spiandoci che ascoltandoci.
    I genitori forse non se ne accorgono neppure, intanto i figli fotografano e registrano: “Vorrei avere
    la tua buona volontà di lavorare, mamma, ma non vorrei assomigliare a te per la tua nervosità”
    (Simona, nove anni). ”Papà vorrei che quando mangi, non sputi nel piatto” (Marco, otto anni). 
    ”Bisticciano sempre, ma sono innamorati, difatti a tavola papà dice sempre alla mamma: ‘versami il vino, così è più buono’” (Anna Lisa, dieci anni).
  2. L’esempio ha valenza pedagogica, poi, perché ciò che vien visto compiere dagli altri è un invito ad essere imitato, è un eccitante per l’azione. I ricercatori ci dicono che quando, ad esempio,
    vediamo una persona muovere un braccio, camminare, saltare… nel nostro cervello vengono,
    istintivamente, messi in moto gruppi di cellule (i ‘neuroni specchio’) che spingono a ripetere ciò che si è visto.
  1. La terza ragione della forza pedagogica dell’esempio sta in quella verità che i bravi insegnanti conoscono bene: “Se sento, dimentico. Se vedo, ricordo. Se faccio capisco”. ”Se vedo, ricordo”. Dentro ognuno di noi sono memorizzati mille gesti dei nostri genitori. È bastato vedere il loro comportamento, per non poterli più dimenticare. L’attrice Monica Vitti confessa: “Il rapporto con mia madre è stato determinante. A lei devo tutta la mia forza e il mio coraggio, la serietà e il rigore che ho sempre applicato nel mio lavoro”. A sua volta Enzo Biagi confida: “Di mio padre ricordo la grandissima generosità, la sua apertura e la sua disponibilità verso tutti. Non è mai passato un Natale, e il nostro era un Natale modesto, senza che alla nostra tavola sedesse qualcuno che se la passava peggio di noi… Non è mai arrivato in ritardo allo stabilimento. E io ho imparato che bisogna fare ogni
    giorno la propria parte”. Anche il papa Paolo VI aveva i suoi ricordi: “A mio padre devo gli esempi di coraggio. A mia madre devo il senso del raccoglimento, della vita interiore, della meditazione”. 
    Le testimonianze riportate ci lanciano la domanda “I figli ci ‘guardano’. Che cosa vedono?”.
  2. Finalmente l’esempio è decisivo perché è proprio l’esempio a dare serietà alle parole. Si può
    dubitare di quello che uno dice, ma si crede a quello che uno fa. A questo punto è facile concludere: educare è non offendere mai gli occhi di nessuno! Il grande scrittore russo Feodor Dostoevskij (1821-1881) ha lasciato un messaggio pedagogico straordinario: “Io mi sento responsabile non appena uno posa il suo sguardo su di me”. Magnifico! Beati i figli che hanno più esempi che rimproveri! 
    Beati i figli che hanno genitori che prima di parlare chiedono il permesso all’esempio! 
    Beati i figli che hanno genitori le cui parole d’oro non sono seguite da fatti di piombo!

Il musicista

C’era una volta un musicista che suonava da vero artista uno strumento. 
La musica rapiva la gente a tal punto che si metteva a danzare. Per caso un sordo, che non sapeva nulla della musica, passò di là e, vedendo tutta quella gente che ballava con entusiasmo, si mise, lui pure, a danzare! La vista persuade più dell’udito.

“Si converte l’uomo che scopre di essere amato da Dio”

Immaginavo la conversione come un fare penitenza del passato, come una condizione imposta da Dio per il perdono, pensavo di trovare Dio come risultato e ricompensa all’impegno. Ma che buona notizia sarebbe un Dio che dà secondo le prestazioni? Gesù viene a rivelarci che il movimento è esattamente l’inverso: è Lui che mi incontra, che mi raggiunge, mi abita. Gratuitamente. Prima che io faccia qualcosa, prima che io sia buono, Lui mi è venuto vicino. Allora io cambio vita, cambio luce, cambio il modo di intendere le cose.
La verità è che noi siamo immersi in un mare d’amore e non ce ne rendiamo conto. Quando finalmente me ne rendo conto, comincia la conversione. Cade il velo dagli occhi, come a Paolo a Damasco.

Di San Paolo non facciamo solo memoria della sua santità, del suo martirio, della sua testimonianza, bensì anche della sua conversione. E questo forse perché la conversione di quest’uomo non ha nulla a che fare con la conversione di un ateo, di un miscredente, di un senza Dio, ma a che fare con la conversione di un uomo che a Dio già credeva, anzi ci credeva talmente tanto da perseguitare i cristiani per difenderne il Suo buon Nome. San Paolo è un credente convertito. Egli passa dalla religione alla fede.
Forse, qualche volta, avremmo bisogno che accadesse la medesima conversione. La vita potrebbe rischiare di essere piena di religione ma vuota della vera fede. La religione è frutto di educazione, di tradizione, di aspettative, ma la fede può anche non avere a che fare direttamente con tutto questo.
Si incontra la fede quando in maniera forte e decisiva si fa un’esperienza che ci segna talmente tanto da
farci passare dal credere in valori o idee a credere in Qualcuno. Saulo incontra Cristo sulla sua strada, e da quel momento non è più lo stesso uomo di prima. Saulo diventa Paolo.
Se da una parte la fede è il dono di ricevere un’esperienza che ti cambia la vita, è pur vero che davanti a questa esperienza rimaniamo liberi di dire di si o di no.
È la grande lezione che ha appreso Paolo convertendosi: lui che di retorica e di ragionamenti teologici se ne intendeva, comprende che Dio agisce per fatti e non per meri ragionamenti.

Prendo nota

L’educazione inizia dagli occhi, non dalle orecchie. Oggi i ragazzi ascoltano con gli occhi.
Roberto Benigni, alludendo alla sua esperienza con Federico Fellini, dice: “Quando si sta sotto una quercia, forse rimane in mano qualche ghianda”. I fatti contano più delle parole.
Per imporsi non serve la costrizione, ma l’ammirazione.
Spesso si raddrizzano gli altri semplicemente camminando diritti.
L’educazione più che una tecnica è una respirazione. Se i figli vivono in un’atmosfera elettrica,
diventano elettrici…
Chi parla di dieta con la bocca piena, si auto esclude in partenza.
Quando nel deserto non vi sono le stelle e la notte è buia come la pece, restano le orme.
Gli esempi sono le orme!
Quattro proverbi: “Come canta l’abate, così risponde il frate”.
“La ciliegia verde matura guardando la ciliegia rossa” (Palestina).
“Educatori storti, non avranno mai prodotti dritti” (Olanda).
“Se la pernice prende il volo, il piccolo non sta a terra” (Africa).

II domenica di Avvento: l’uomo con la lanterna – cercare

Io sono l’uomo con la lanterna. Sono uno dei pastori arrivati alla mangiatoia subito dopo la nascita del Bambino. Avevamo ricevuto un annuncio un po’ strano e io volevo vederci chiaro. Era notte fonda, per strada non c’erano luci ma per fortuna avevo con me la lanterna; è mia compagna di vita, non mi separo mai da lei.
Ogni volta che guardi un presepe mi vedi in piedi, con gli abiti un po’ sgualciti, la bisaccia e il lume in mano. Non sono un tipo con cui è facile andare d’accordo: gli altri pastori si accontentano degli stessi pascoli per il loro gregge, ma io no.
A me piace spostarmi e fare in modo che le pecore non mangino sempre negli stessi prati e non bevano negli stessi ruscelli. È questo, forse, il motivo per cui a volte rimango da solo; assomiglio ad un ricercatore piuttosto che ad un pastore!
Mi piace accendere luci quando arriva il buio e tenerle accese quando altri le spengono. Sono un cocciuto, lo so, ma da quando ho visto che un solo lumicino può bucare la notte più scura e farmela attraversare, non mollo le mie convinzioni al primo che passa per la strada.
Io sono l’uomo con la lanterna. E nel presepe c’è spazio anche per me che prima di credere ho voluto vedere coi miei occhi il Bambino e stare per un po’ di tempo davanti alla mangiatoia! Nel presepe c’è spazio anche per me, e per tutti quelli che cercano luce nei grovigli di giorni pesanti e di periodi cupi! Nel presepe c’è spazio anche per me, che sono un tipo complicato, che prima di fidarsi di qualcuno
vuole avere in mano delle ragioni autentiche. E non immagini quanto mi piacerebbe fossimo uomini e donne in ricerca, che non si accontentano di vivacchiare!
Io sono l’uomo con la lanterna e tu chi sei?

Un racconto per riflettere

LA MALATTIA PIÙ GRAVE: L’INDIFFERENZA
Un giorno, ad un luminare della medicina venne chiesto quale fosse la più grave malattia del secolo. I presenti si aspettavano che dicesse il cancro o l’infarto.
Grande fu lo stupore generale quando lo scienziato rispose: “L’indifferenza!”.
Tutti allora si guardarono negli occhi e ognuno si accorse di essere gravemente ammalato.
Infine gli domandarono quale ne fosse la cura.
E lo scienziato disse: “Accorgersene!”

Santo del mese: Santa Francesca Cabrini

LA CASA DELLA PROVVIDENZA: Il vescovo Domenico Maria Gelmini consigliò alla Tondini di dare un’impronta religiosa all’istituto, ma la fioca vocazione delle fondatrici non lo permise. Le due donne continuarono a condurre l’amministrazione dell’orfanotrofio in modo inadeguato tanto che il consulente
ecclesiastico, padre Giulini, decise di sistemare la situazione chiamando Francesca. Egli, essendo anche cappellano delle Figlie del Sacro Cuore, conosceva bene la Cabrini, la sua rettitudine morale e la sua profondità religiosa. Chiese quindi aiuto a don Serrati per convincere Francesca ad accettare l’incarico; su consiglio di don Bassano Dedè, parroco di Sant’Angelo e suo direttore spirituale al quale rimase sempre profondamente legata, ella entrò nella Casa della Provvidenza il 13 agosto 1874. Visse per sei anni nella Casa della provvidenza e per lei questo fu un periodo di grande tribolazione per l’ostilità della Tondini e della Calza. Qui Francesca ricevette l’abito religioso.
Più tardi, pur conservando il suo nome, aggiunse quello di Saverio, in ricordo del grande missionario e
patrono delle missioni. La profonda convinzione di diventare una missionaria rimase intatta nel suo cuore senza essere minimamente attaccata dalle molteplici delusioni che Francesca provò nel corso di quei sei anni trascorsi nella Casa.
FONDAZIONE DELLE MISSIONARIE DEL SACRO CUORE DI GESU’, 1880
Il vescovo Gelmini, giunto ormai alla convinzione che la Casa della Provvidenza non sarebbe mai potuta diventare un’istituzione religiosa, nel 1880, indicò il giusto cammino a suor Francesca Cabrini con queste parole: “desideri farti missionaria; ora il tempo è maturo”. Con il prezioso aiuto di padre Veneroni, le suore si installarono in un antico convento francescano abbandonato: in questo luogo così spoglio, testimone delle guerre napoleoniche, nacque l’istituto delle Salesiane Missionarie del Sacro Cuore. La nascita di questa istituzione ricorda molto da vicino l’aspetto fragile della santa e la sua determinazione: la piccola Comunità nacque senza una regola di vita religiosa prestabilita e senza mezzi economici, ma destinata a diventare di estrema importanza per gli emigranti e i bisognosi. Con l’aiuto di religiosi, sacerdoti e amici il convento fu arredato e preparata una cappella con il Santissimo che fu dedicata al Sacro Cuore di Gesù.
Il 14 novembre 1880, mons. Serrati celebrò la prima messa in questa cappella. La Fondatrice aveva allora solo trent’anni, ma la sua formazione religiosa e spirituale era di grande maturità e solidità.
L’APPROVAZIONE PONTIFICIA: A Francesca fu affidato il compito della cura e dell’educazione delle sue religiose e, nello stilare le Regole, si lasciò guidare dallo spirito di Gesù; l’approvazione diocesana avvenne nel 1881 da parte del vescovo Gelmini e le suore riconosciute come Salesiane Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. La Regola che Madre Cabrini stilò aveva come principi l’obbedienza, la mortificazione, la rinuncia, la vigilanza del cuore, il silenzio interiore. Il 12 marzo 1888 Madre Cabrini ricevette l’approvazione pontificia e con questo decreto nella borsa, tornò di volata a Codogno.
Da questo momento l’attività apostolica e missionaria assunse un ritmo vertiginoso.
LA MISSIONE: A Roma conobbe mons. Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, che si occupava dei gravi problemi che assillavano le “schiere” dei nostri connazionali all’estero; tra il 1876 e il1914 furono 18 milioni gli italiani che emigrarono prima verso le nazioni europee e poi verso le Americhe. La Chiesa preoccupata per le vaste proporzioni che stava assumendo questo fenomeno con un Breve Apostolico del 25 novembre 1887 del papa Leone XIII, incoraggiò e approvò la presenza dei missionari tra gli emigranti italiani nel mondo. Madre Cabrini si incontrò più volte con il vescovo di Piacenza, ma furono le parole del Papa Leono XIII “non all’Oriente ma all’Occidente” a portarla a varcare più volte l’oceano Atlantico. Il 19 marzo 1889 nel convento di Codogno, Madre Francesca Saverio quasi quarantenne e altre sei religiose ricevettero da mons. Scalabrini la Croce di Missionarie. Quattro giorni dopo, il 23 marzo, salparono dal porto francese di Le Havre col piroscafo Bourgogne verso New York, ove sbarcarono il 31 tra la pioggia e il fango. Cominciò così la sua vita missionaria spesa in soccorso degli emigranti vinti, maltrattati, linciati, malvisti dalle classi lavoratrici per le loro attività a buon mercato e sopraffatti dalla miseria e dall’analfabetismo. “Noi non siamo nulla ma con Dio possiamo tutto”. Con questa fede illimitata Madre Cabrini costruirà in 28 anni di missione, scuole, orfanotrofi, ospedali, chiese, oratori, sanatori…

Santo del mese: Santa Francesca Cabrini

LA NASCITA

Francesca Cabrini, decima di undici figli, nacque a Sant’Angelo Lodigiano, il 15 luglio 1850 da Agostino e Stella Oldini.Il padre era noto in paese come il cristianone; con la moglie si dedicava all’educazione dei figli e alle cure della famiglia, organizzando la sua vita tra i suoi doveri di cristiano e di capo famiglia. Francesca crebbe quindi in un clima familiare molto religioso, nel quale la preghiera e la S. Messa occupavano un posto fondamentale nella vita quotidiana. La vita della famiglia Cabrini fu segnata da tanti lutti e dolori: infatti degli undici figli solo quattro raggiungeranno l’età adulta, gli altri moriranno in tenera età. Si racconta che quando Francesca nacque, un volo di colombe si posò sull’aia della casa dove stava essiccando il grano e il papà Agostino cercò di allontanarle.
Una però rimase impigliata con una zampetta nella frusta e in quel momento venne da una finestra del piano superiore il lieto annuncio: “è una bambina”. Essendo nata prematura, Francesca fu subito battezzata nello stesso Fonte Battesimale che si trova ancora oggi nella Basilica di Sant’Angelo, poiché si temeva della sua sopravvivenza; fu infatti sempre gracile di costituzione, ma forte di carattere.

L’INFANZIA:

Fin dai primi anni di vita Francesca ebbe la sorella Rosa come educatrice e maestra, con lei compì il ciclo dell’istruzione primaria, a lei rendeva conto del suo operato, da lei riceveva direttive e sollecitazioni. Nell’andamento di una vita familiare intensa, anche la Cecchina, come la chiamavano familiarmente, con i fratelli seguiva i genitori nelle grandi manifestazioni della religiosità popolare: il catechismo, le processioni, la preparazione e la celebrazione delle feste patronali tra cui quelle tenute in gran conto dai paesani: quella del Sacro Cuore di Gesù, della Madonna, di Sant’Antonio.
Si lasciava attrarre in quei tempi dalle relazioni dei missionari che si leggevano la sera in famiglia, sulle pagine degli Annali della Propagazione della fede; ne era indotta a riflettere e spesso, durante la lettura “si faceva pensosa al racconto di tanti eroismi compiuti anche a costo della vita, per diffondere la conoscenza e l’amore di Dio”.
Evidentemente sorgeva in lei, lenta ma salda la vocazione all’apostolato nelle missioni.

L’ADOLESCENZA:

Francesca, seguendo anche in questo l’esempio della sorella Rosa, si iscrisse alla scuola Normale di Arluno, diretta dalle Figlie del Sacro Cuore. Ad Arluno, paese situato nei dintorni di Milano, Francesca trascorse quasi cinque anni fino al 1868 quando conseguì il diploma di maestra elementare con abilitazione all’insegnamento. In collegio conobbe da vicino la vita della Beata Teresa Eustochio Verzeri fondatrice delle Figlie del Sacro Cuore ed fu ammessa alla lettura dei suoi scritti e all’esperienza della vita religiosa; la giovane Francesca sognava e pregustava la gioia di poter condividere per sempre la vita delle sue educatrici, ma altre erano le vie del Signore a suo riguardo. Appena ottenne il diploma, Francesca lasciò Arluno e tornò a Sant’Angelo, dove iniziò un’intensa vita di apostolato; a Vidardo compì la sua prima esperienza di insegnamento elementare.
Qui ebbe modo di farsi amare ed apprezzare anche se la sua decisione di insegnare catechismo sui banchi della scuola, le provocò qualche fastidio ma la sua fermezza d’animo, la sua emancipazione e la sua ferrea volontà di non permettere mai ad alcuno di interferire con i suoi progetti apostolici ed educativi riuscirono a farle superare ogni ostacolo politico, culturale o economico. Proprio a Vidardo conobbe don Antonio Serrati, il futuro parroco di Codogno, che darà una svolta alla vita di Francesca.

LA MATURITÀ:

Nel 1870 Francesca raggiunse la piena maturità a causa di un avvenimento tragico: la morte dei suoi cari genitori. Il padre, Agostino si spense a febbraio e Stella, la mamma lo seguì nel mese di dicembre. Nel 1872 scoppiò una terribile epidemia di vaiolo e Francesca si prodigò con tanto amore e generosità per quanti caddero ammalati, tanto che lei stessa ne fu colpita. Francesca guarì completamente senza che la malattia le lasciasse tracce indelebili, anzi riprese il lavoro con più zelo di prima. Queste dolorose esperienze accentuarono il desiderio, sempre presente nel suo giovane cuore, di consacrarsi interamente a Dio. La Provvidenza nel 1873 le fece abbandonare Vidardo e il suo paese natale e la condusse a Codogno dove, quindici anni prima dell’arrivo di Francesca, il parroco aveva concesso il suo assenso alla fondazione di un’ istituzione caritativa per l’accoglienza di bambine orfane, nell’edificio messo a disposizione dalla proprietaria della casa, la signora Antonia Tondini con l’assistenza di Mari Teresa Calza.

Per te mi spendo

Per Te Mi Spendo è la raccolta alimentare promossa dalla Caritas Lodigiana e da altre realtà del territorio che si occupano del recupero del cibo in favore delle persone in difficoltà economica.

Raccolta di generi alimentari nei supermercati, a supporto delle famiglie della Diocesi di Lodi.

Sabato 11 novembre 2023 tutto il giorno nei supermercati aderenti