Educare alla salute, educare alla vita (1)

L’educazione alla salute è un capitolo fondamentale dell’educazione alla vita perché i due beni, salute e vita, sono profondamente interconnessi, ancorché non sovrapponibili: si può, infatti, avere una vita buona con o senza salute, ma l’equilibrio salute non può prescindere dalle scelte di vita.
Educare alla salute e alla vita significa educare al rispetto della dignità della persona umana che è caratterizzata dalle sue capacità, dalle sue abilità, dalle sue fragilità e dalla sua apertura alla reciprocità e al dono. Molte dipendenze, da alcol, droghe o da particolari abitudini avvilenti, derivano da un mal orientato bisogno di assoluto, che viene saturato attraverso beni finiti, incapaci di valorizzare la dignità umana. È il dramma del “male di vivere” molto diffuso nella nostra società e che purtroppo affligge anche tanti giovani. Per questo è importante, nell’educazione della persona e in ogni età, far crescere la consapevolezza della nostra nobile reciprocità e della nostra apertura all’eterno, che costituiscono l’unità di senso attraverso cui guardare tutti i nostri beni, in primo luogo la vita e la salute. La responsabilità verso la salute e la vita è la responsabilità verso il progetto iscritto in noi, verso questo dono che noi siamo che ci richiama ad essere capaci di donare.
Quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell’uomo viene minacciato e inquinato: “L’uomo non riesce più a percepirsi come «misteriosamente altro» rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt’al più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a «una cosa» e non coglie più il carattere «trascendente» del suo «esistere come uomo». Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà «sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua «venerazione».
Essa diventa semplicemente «una cosa», che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile”.

E’ tempo di verità e discernimento

La pandemia ha sconvolto anche (oltre a tante altre realtà della nostra vita) l’abituale procedere delle nostre attività pastorali. Non le ha messe in crisi; lo erano già da tempo. Non è, forse, vero che il calo delle presenze all’assemblea domenicale precede di gran lunga la pandemia?
Quanti hanno una qualche significativa relazione con la comunità cristiana e sono veramente interessati al Vangelo? La questione della fuga del dopo cresima non è forse una questione ricorrente da oltre mezzo secolo?
La pandemia non è la causa della crisi pastorale della Chiesa, ma ha semplicemente messo allo scoperto fragilità e inadeguatezze pregresse a tutti i livelli.
Nessun giudizio di condanna; questi sono i tempi e le dinamiche della storia.

Ritorno a citare una parte del discorso di papa Francesco alla Curia, ma indirettamente a tutta la Chiesa. Diceva: “La tempesta smaschera le nostre vulnerabilità, lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità … La crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e sociale … Come ci ricorda la radice etimologica del verbo Krino, la crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura”.
Parole profetiche che esortano a leggere la pandemia come un tempo di grazia da non sprecare in sterili lamentele e illusori rimpianti. “Nulla sarà più come prima”: non è una semplice frase ad effetto, che talvolta si cita. Ma sperando in segreto esattamente il contrario.

Ancora il papa: “Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere … Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi”. La paura è sempre cattiva consigliera.
Di fronte a una crisi che sembra chiudere un’epoca per aprirne un’altra, non mancano le tentazioni di rifugiarsi nell’illusoria sicurezza del passato. Non dovremmo dimenticare che nella storia della salvezza chi si volta indietro diventa una statua di sale (Genesi 19,26).
Come nella nota parabola (Marco 4,26), il seme ha accelerato improvvisamente la sua crescita e chiama tutti a riscoprire la gioia del Vangelo e a evitare che la Chiesa appaia come un’azienda, con da una parte degli impiegati del sacro e dall’altra dei clienti di cerimonie.

I genitori sono i primi catechisti

Il Documento base per il rinnovamento della catechesi, ci indica il punto di partenza: “Insostituibile è la partecipazione attiva dei genitori nella preparazione dei figli ai sacramenti dell’iniziazione cristiana. In tal modo, non solo i figli vengono adeguatamente introdotti nella vita ecclesiale, ma tutta la famiglia partecipa e cresce: i genitori stessi, annunciando ascoltano, insegnando imparano”.
Per questo il coinvolgimento dei genitori è importante e da loro stessi preso in seria considerazione.
I genitori, per grazia e vocazione propria, sono i primi, indispensabili e attivi educatori alla fede dei figli. Per cui, quanto riescono a dire e a fare loro nella propria casa, con il magistero della parola e della vita, incide nella coscienza e nell’animo dei ragazzi più di ogni altra azione educativa e catechistica successiva.
In questa ottica vanno compresi gli incontri che la Parrocchia propone ai genitori (per mamma e papà insieme) per approfondire tematiche di fede e per riflettere insieme sul sacramento che i figli riceveranno nel corso dell’anno.

Cosa significa adorare

Parlare di adorazione è come parlare di amore: si può dire molto ma tuttavia non dire l’essenziale.
Si tratta dell’ineffabile dove non si esprime a parole ma con la vita. L’adorazione si vive, come l’amore. Infine come amare anche adorare si impara adorando.
Ci sono due verità che si toccano e sono queste: Dio crea l’uomo e lo crea libero.
Libero di scegliere Dio e riconoscerLo come suo Creatore ed anche come suo Salvatore. E l’uomo raggiunge la beatitudine dandoGli gloria, lodando e adorando Dio.
Così, l’adorazione è un atto libero di colui che cerca la vera felicità in Dio, di colui che cerca il riposo della sua anima davanti la presenza del suo Dio.

Adorazione come necessità

Adorare Dio è una necessità intrinseca dell’uomo. Non si può veramente vivere senza adorare Dio. Nell’adorazione l’uomo scopre la sua vera dimensione e scopre che in Dio non ci sono confini. Nell’adorazione incontra il suo riposo, raggiunge la pace. Parafrasando sant’Agostino potremmo dire che il nostro cuore non trova riposo fino a che non riposa in Dio, fino a quando non lo incontra e lo adora. “Un abisso chiama un altro abisso”, dice il salmista.
Solamente l’infinito e eterno Amore di Dio può riempire il vuoto esistenziale che c’è nell’uomo quando non conosce né ha incontrato Dio. Quando non c’è Dio nell’orizzonte di una vita si vive l’angusta contraddizione fra l’essere stato creato col desiderio di eternità e la realtà dei propri limiti, della fragilità e dell’effimero di questa vita.
Ogni uomo -anche quando non sia cosciente di ciò- ha sete di eternità, di infinito, di trascendenza. Questa sete è in realtà sete di Dio. Come lo spiega il salmista: “la mia anima ha sete del Dio vivo”. Ma -questa è la Buona Novella che ci rivela il Signore- anche Dio ha sete dell’uomo, della sua salvezza. Non è un caso che il dialogo di Gesù Cristo con la samaritana inizi con “dammi da bere”. Sicuramente il Signore aveva sete fisica ma Lui aveva un’altra sete più importante da appagare.
Per questo anche ai discepoli -che erano ritornati e si erano meravigliati nel vederlo parlare con una donna per giunta samaritana- quando gli chiedono che mangi, lui risponde che ha un cibo da mangiare che loro non conoscono e poi spiega che questo alimento “è fare la volontà del Padre”. La sete di Cristo è sete di salvezza delle anime, la sua fame è fare la volontà del padre: salvare tutta l’umanità. Gesù, in questo momento concreto della relazione, ha sete della salvezza di quella vita persa e attraverso di lei di tutti gli abitanti di Sicar.
In quel “dammi da bere” sotto il sole di mezzogiorno nel pozzo di Giacobbe, si specchia un altro mezzogiorno, quando si oscura il sole nel Golgota: è il “ho sete” della croce. Il dialogo comincia con il “dammi da bere” ma culmina con la domanda della samaritana sul dove adorare Dio. Dalla sete del Signore deriva la sete della samaritana: dove adorare Dio. La sete dell’uomo e la sete di Dio si incontrano nell’adorazione. Si incontrano e si saziano reciprocamente.
Solo l’amore infinito di Dio riempie l’infinito vuoto di eternità, di bontà, di bellezza dell’uomo.

Partecipare al catechismo (2)

È necessario slegare il catechismo dalla concezione “scolastica”, per fare un vero e proprio percorso di fede, che comporta un impegno costante dei genitori, oltre che dei figli, e anche la possibilità di accedere ai sacramenti indipendentemente dall’età, ma in relazione alla maturità acquisita durante il cammino.
E questa maturità la si raggiunge con l’appartenenza ad un gruppo, l’intrecciarsi di relazioni, la realizzazione di tante esperienze. Tutto ciò per vivere, con coerenza, esperienze vere, e non sbrigare delle formalità con superficialità. Spesso ci dimentichiamo che Dio ama davvero l’uomo e gli va incontro nella sua storia.
Cristo amore è lo spendersi di Dio per me! Se ho incontrato o se sto cercando di incontrare Cristo, perdono allora significato le domande: È obbligatorio andare a Messa la domenica? È obbligatorio andare al catechismo? È obbligatorio andare agli incontri per i genitori? È obbligatorio partecipare alla vita dell’oratorio?…
Se mi innamoro di qualcuno, non mi domando se è obbligatorio incontrarlo, trascorrere insieme del tempo, rimango semplicemente incantato e cerco di conoscerlo il più possibile. Così dovrebbe essere per i genitori, che dicono di essere cristiani (cioè innamorati di Gesù Cristo) a tal punto che decidono di iscrivere i propri figli al catechismo, perché, con il loro esempio e l’aiuto dei catechisti, anche i loro figli possano innamorarsi di questo Dio Amore.

Partecipare al catechismo (1)

Iscrivere i figli a catechismo è assumersi un bell’impegno, quello di “accompagnarli” in un cammino. Portarli a catechismo nel giorno e nell’ora fissati. È già molto! Fedeltà e puntualità a questo appuntamento settimanale, infatti, sono un bel segno di serietà. Occorre però anche che i genitori apprezzino quello che i figli faranno a catechismo, che lo valorizzino parlandone a casa, che lo rendano credibile, prima di tutto con l’esempio. Non pensiamo che una famiglia mandi il figlio o la figlia a qualche corso o impegno (musica, sport, danza…) e poi a casa disprezzi quell’attività. Meno male! Per i bambini sarebbe incomprensibile e insostenibile! Non li aiuterebbe proprio: né a fare quella cosa, né a crescere sereni. Qualcosa del genere vale anche per il catechismo. I bambini hanno bisogno di essere accompagnati, non solo portati. Hanno bisogno di vedere, di toccare con mano, che anche papà e mamma – in qualche modo – ci credono. Se i bambini non respirano un po’ di “aria cristiana” in casa, è difficile che per loro venire a catechismo e all’oratorio sia bello e Significativo.

Per questo proponiamo ai genitori di trovare qualche momento, in casa, per far respirare loro un po’ di aria cristiana. Anzitutto volendosi bene e volendo il bene dei figli, ma anche con qualche gesto esplicitamente cristiano: una preghiera detta insieme, prima dei pasti o alla sera; una visita a Gesù, in chiesa; la partecipazione alla Santa Messa della domenica. Obiettivo del catechismo è l’inserimento nella Comunità per vivere la fede! È essenziale che i ragazzi e genitori si inseriscano attivamente nella vita della Comunità. La catechesi e i sacramenti sono momenti forti di essa e come tali vanno dunque inseriti dentro un cammino di esperienza comunitaria che trova il suo momento più fecondo e coinvolgente nella celebrazione dell’Eucarestia domenicale nel Giorno del Signore.

Il servizio del giudizio (4)

Il metodo della missione cristiana che ci viene esemplarmente documentato negli Atti degli Apostoli e poi nella letteratura patristica dei primi secoli è integralmente applicabile anche da noi oggi.
Esso comporta da un lato il superamento di una cultura della separazione, come quella presente nel giudaismo, volta a preservare innanzitutto la purezza identitaria dalla contaminazione del mondo pagano, e dall’altro però un’inesausta volontà e capacità di giudizio, nel senso sopra indicato, per cui la completa immersione nel mondo, l’apertura a tutti i contatti e a tutte le relazioni non si traduce in un’assimilazione alla mentalità del secolo. «Non conformatevi» è il precetto fondamentale, ma va tenuto insieme a quel “farsi tutto a tutti” che Paolo rivendica come cifra del suo stile missionario, ma che deve appartenere ad ogni cristiano. Si tratta, per dirla in modo ancor più sintetico (ed evangelico), di essere “salati”, perché è esattamente questo che Cristo ha detto ai suoi: «voi siete il sale della terra». È chiaro che questa pretesa – che è innanzitutto di Cristo e poi dei suoi seguaci – di dire all’uomo che cosa c’è nel profondo del suo cuore, può suscitare una reazione e provocare una reazione, anche molto ostile. Però questa è la base del rapporto con il mondo, quel “servizio del giudizio” a cui alludevo prima. Forse non ci rende simpatici, ma è la prima forma di carità che la Chiesa può fare al mondo. Del resto, come recita una vecchia battuta, il Signore non ha detto “voi siete lo zucchero del mondo”.

Il servizio del giudizio (3)

Non è assolutamente così: quella del giudizio è una fondamentale necessità antropologica (tutti noi abbiamo bisogno del giudizio, per vivere e la cosa a cui aspiriamo di più è essere approvati, il che implica l’essere giudicati), e la buona notizia dell’annuncio cristiano è che c’è un Dio che giudica tutto, con verità e con amore. Se non fossimo certi di questo, saremmo disperati, come tutti gli altri uomini, per le ingiustizie e le storture del mondo. Paolo dice che «noi abbiamo il pensiero di Cristo», perciò l’uomo spirituale «giudica ogni cosa» senza essere giudicato, se non da Dio. Dunque il primo e più importante servizio che i cristiani rendono al mondo è proprio il giudizio. Se viene meno questa dimensione culturale del fatto cristiano si dissolvono anche quelle, ad essa coessenziali, della carità e della missione. Naturalmente ciò non significa affatto ridurre la presenza cristiana a una funzione di mera proposizione verbale, o teorica, della dottrina: il giudizio è una cosa molto concreta, consiste forse più di gesti che di parole, ma occorre che siano sempre gesti consapevoli delle proprie ragioni. Il cristianesimo è un fatto critico, cioè un insieme di esperienze e di gesti “pubblici”, cioè visibili da tutti e incontrabili da chiunque lo voglia, che di per sé pongono domande e “mettono in crisi” l’ambiente sociale in cui si pongono.

Il servizio del giudizio (2)

La parola crisi, onnipresente nel nostro linguaggio (tutto è in crisi, c’è la crisi di tutto), viene abitualmente spesa con la connotazione negativa di “rottura di un equilibrio, di una stabilità”, “destrutturazione”, “perdita di valore”, che ha il suo esito finale nella catastrofe o nel collasso di un sistema. Solo a partire da questo senso negativo se ne recupera, in modo quasi paradossale, una accezione positiva, ma solo in modo secondario: così si parla ad esempio di “crisi di crescita”, un po’ come si dice che un organismo può uscire temprato da una malattia o da una difficoltà.
In realtà la crisi ha un valore positivo che sta nella sua origine, che è appunto legata alla categoria di giudizio. Crisi è infatti il giudizio che separa, cioè che “discrimina”: il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto … È un procedimento fondamentale del vivere umano: anche quando uno si mette semplicemente a riordinare la casa, tanto per dire, opera una “crisi”, nel senso che separa le cose da tenere e quelle da buttare, eccetera. Il problema è che noi oggi siamo condizionati dall’essere immersi in un ambiente culturale in cui sul concetto stesso di giudizio grava un pesante fraintendimento, e di conseguenza una diffusa diffidenza. “Giudicare” equivale per molti a “condannare”, “rifiutare”, o “respingere” e non è raro che anche all’interno della Chiesa vi sia chi lo considera un comportamento essenzialmente antievangelico.