Conversione

La conversione non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma è un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede. Sì, la quaresima è il tempo del ritrovamento della propria verità e autenticità, ancor prima che tempo di penitenza: non è un tempo in cui “fare” qualche particolare opera di carità o di mortificazione, ma è un tempo per ritrovare la verità del proprio essere. Gesù afferma che anche gli ipocriti digiunano, anche gli ipocriti fanno la carità: proprio per questo occorre unificare la vita davanti a Dio e ordinare il fine e i mezzi della vita cristiana, senza confonderli.
Come Cristo per quaranta giorni nel deserto ha combattuto e vinto il tentatore grazie alla forza della Parola di Dio, così il cristiano è chiamato ad ascoltare, leggere, pregare più intensamente e più assiduamente – nella solitudine come nella liturgia – la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. La lotta di Cristo nel deserto diventa allora veramente esemplare e, lottando contro gli idoli, il cristiano smette di fare il male che è abituato a fare e comincia a fare il bene che non fa! Emerge così la “differenza cristiana”, ciò che costituisce il cristiano e lo rende eloquente nella compagnia degli uomini, lo abilita a mostrare l’Evangelo vissuto, fatto carne e vita. Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima. Simbolica ricca, quella della cenere, già conosciuta nell’Antico Testamento e nella preghiera degli ebrei: cospargersi il capo di cenere è segno di penitenza, di volontà di cambiamento attraverso la prova, il crogiolo, il fuoco purificatore. Certo è solo un segno, che chiede di significare un evento spirituale autentico vissuto nel quotidiano del cristiano: la conversione e il pentimento del cuore contrito. Ma proprio questa sua qualità di segno, di gesto può, se vissuto con convinzione e nell’invocazione dello Spirito, imprimersi nel corpo, nel cuore e nello spirito del cristiano, favorendo così l’evento della conversione.

Tutto inizia con il Mercoledì delle Ceneri

Con il rito dell’imposizione delle ceneri inizia la quaresima. Questo gesto antichissimo affonda le radici nella storia della salvezza e rimanda sempre a tre significati inequivocabili.
Il primo ha a che fare con la conoscenza della nostra piccolezza. Davanti alla grandezza del creato e all’imprevedibilità delle cose terrene, l’esperienza ci dice che da soli non troviamo risposte adeguate e soddisfacenti.
Il secondo aspetto ha a che fare con il riconoscimento di Dio quale fonte e culmine di tutta l’esistenza, compresa chiaramente quella personale di ognuno di noi. Tu sei il Signore, tu sei il vero punto di svolta della mia vita: riconosciamo Dio come Signore della nostra vita non per lo spauracchio del suo giudizio su di noi, ma per l’amore che lui ha avuto e ha per noi.
Il terzo aspetto riconducibile alle ceneri è la conversione. Tempo di quaresima, tempo di conversione, ma di quale conversione parliamo? Come ben sappiamo, i vangeli ci arrivano nella loro lingua originale che è il greco. In greco il termine usato per dire la conversione è metánoia. Questa parola è composta da due parole, meta cioè oltre, e nous che significa intelletto, pensiero. Con conversione si intende, dunque, soprattutto un oltrepassamento del pensiero comune per arrivare ad un modo diverso di intender le cose, di considerare i valori etici e la vita nella sua totalità secondo il modo di pensare che è oltre e che per noi coincide col pensiero di Dio. In questo senso, il cammino penitenziale di quaresima che la Chiesa ci indica attraverso la preghiera, il digiuno e l’elemosina, vuole proprio creare in noi uno spazio vuoto perché sia riempito dalla presenza di Lui e di conseguenza del suo modo di vedere la realtà.
Signore, so che mi hai fatto come un capolavoro, prezioso ai tuoi occhi, so che senza di te sono ben poco, aiutami a diventare più simile a te e soprattutto a vedere e pensare la realtà come la pensi Tu.

Quaresima, tempo di gioia

Diversamente dagli altri tempi liturgici, che iniziano tutti di domenica o con le solennità da cui prendono il nome, la Quaresima prevede una specie di prologo alla prima domenica: il solenne digiuno delle Ceneri. Capita in un giorno feriale, quando i ritmi della vita non possono essere
interrotti, eppure segna un passaggio epocale: il tempo subisce uno scarto, diventa segno sacramentale della nostra conversione. Ciò che il nostro cuore indurito e distratto non riesce mai a fare, è ora a portata di mano. Possiamo volgerci a Dio e lasciarci cambiare in modo che ogni nostro momento, ogni nostro gesto tragga da lui origine e compimento.
Il digiuno che le Ceneri ci mettono davanti serve a percepire nella concretezza della carne questo stacco reale quanto intangibile: siamo entrati in un’altra era, questa Quaresima segnerà la nostra conversione. Qui e ora, nell’ordinario ritmo delle cose di sempre, ci volgeremo a Dio e Dio farà di noi un’umanità nuova.
La Quaresima non è dunque un tempo di mortificazione, ma di gioia: niente può tenerci lontano da Dio, e la nostra povertà è il luogo dove Lui può dimorare. Basta fargli spazio: digiuno (cioè rinuncia a sentirsi sazi di ciò che ci possiamo procurare: beni, affetto, risultati, ecc.), preghiera (perché il cuore affamato si leva a Dio e attende da Lui il cibo necessario) e misericordia (perché Dio riversa nei cuori di chi grida a Lui il Suo stesso amore) sono gli strumenti che allargano
il nostro cuore e lo liberano da tutto ciò che ci intralcia nel cammino della piena comunione con Dio. Quando arriva, allora, la prima domenica di Quaresima dovrebbe trovarci già con il cuore sintonizzato sulla gioia che ci è posta innanzi: abbiamo fatto un digiuno (ognuno come può, ma lo abbiamo fatto) e da qualche giorno abbiamo sintonizzato i pensieri sul nuovo tempo che viviamo.
La nostra conversione è a portata di mano, il Signore ci dona il suo Spirito per riconciliarci e rinnovarci.

Sale e Luce (2)

Invece riguardo al sale io credo che ci sia molto sale in certi gesti, per esempio in un sorriso, in un saluto. Il saluto si fa col volto. Il valore di un sorriso, un testo che tutti conosciamo: “Donare un sorriso rende felice il cuore. Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona. Non dura che un istante ma il suo ricordo rimane a lungo. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno né così povero da non poterlo donare. E se poi incontri chi non te lo offre sii generoso, porgigli il tuo: nessuno ha tanto bisogno di un sorriso come colui che non sa darlo”. Donare un sorriso rende felice il cuore. Quando sorridiamo? Quanti di noi salutano con facilità? E, poi, anche il sale dell’ascolto. Nel mondo di oggi vogliamo parlare tutti.
In televisione quando si fa politica sono scioccato da questa difficoltà ad ascoltarsi, ciascuno vuole parlare. Ciascuno pensa dal suo punto di vista, ha la sua opinione e pensa di risolvere ogni questione. Dobbiamo cambiare mentalità. Tutto l’Antico Testamento ha dentro questo verbo “ascoltare”: “Ascolta, Israele”.
E anche tra le persone dobbiamo ascoltarci di più. Dobbiamo farci il regalo di ascoltarci a cominciare dalla famiglia. L’ascolto non è soltanto un dare, l’ascolto è un ricevere. Se ascolti la storia di una persona, poi dici: “Ma io come sono meschino a pensare così”. Se ascolti un dolore dici: “Ma io mi lamento del mio dolore, sono fuori strada”. L’ascolto permette le proporzioni, cioè permette di dire: “Questa cosa qui non è importante. Io la pensavo importante ma non è importante. Sono fuori strada, sto esagerando. Sono troppo egocentrico”. E, poi, il sale della dedizione, del donarsi. C’è più gioia nel dare che nel ricevere. Certe persone meravigliose che seguono una persona malata; i nonni con i nipotini; la cura che si ha delle persone; certe coppie che hanno figli e coi genitori anziani e li curano bene. Magari li hanno in una casa di riposo ma sono lì, ci sono. Quanta gente, quanta gente meravigliosa. Quanta gente che dà il sale perché il sale è così, si perde ma dà sapore a quello che mangiamo. Ci vuole gente così per cambiare la vita nostra e la vita degli altri. E, quindi, il sale ci dice che l’ultima parola non è l’egoismo – restare nella saliera – ma l’ultima parola è l’amore. Ora finisco con questo racconto famosissimo: Il re, un giorno, si recò dal grande mistico Farid. S’inchinò e gli offrì un paio di forbici tempestate di diamanti. Farid le ammirò ma le restituì al visitatore: “Grazie per il dono magnifico, ma io non ne faccio uso. Dammi piuttosto un ago”. “Ma se hai bisogno di un ago, ti saranno utili anche le forbici”, replicò il re. “No – spiegò Farid – le forbici tagliano e separano. Un ago, invece, cuce e unisce ciò che era diviso. Il mio insegnamento è fondato sull’amore e sulla comunione. Mi occorre un ago per ricucire l’unità e non le forbici per tagliare e dividere”. 
Forse qualche forbice in meno, qualche ago in più, ci farebbe bene.

Sale e Luce (1)

Mi ritornano alla mente le parole di Gesù ascoltata nel Vangelo di Domenica 5 febbraio u.s. La luce della testimonianza e il sapore dei gesti. E, allora, ho cercato di trovare un pò di luce e un pò di sale guardando la vita e le famiglie in maniera profonda.
Qual è la luce che occorre alle famiglie che, quando la troviamo, capiamo che la vita è bella? La luce è l’amore. L’amore è la luce della vita. E l’amore sono i legami, il sapere camminare insieme, il vivere insieme. Papa Francesco continuamente ripete questo motivo: vivere insieme è un’arte, è un cammino; amare è mettersi in viaggio; occorre gustare questo stare insieme anche se è molto difficile. Un’altra luce, secondo me molto significativa, è la preghiera della coppia, della famiglia ma di ciascuno di noi. È questo un punto che continuo a ripetere. Solo chi prega, crede. Uno che non prega, non crede. Credente è uno che vive davanti a Dio. Quindi se non preghiamo, come possiamo dire: “Io credo, sono credente!”? Ma noi adulti abbiamo imparato a pregare? Siamo capaci di insegnare a pregare? Quando ci vedono i nostri figli, ma chiunque, con in mano il Vangelo? Quando? Il mio sogno, come parroco, è che ogni casa abbia la sua Bibbia aperta, con l’angolo della Parola, ben evidenziato, con un fiore, una icona, un ricamo. Pregare, pregare insieme. Questa è la luce. Porre dei gesti per cui uno dice: “Perché lo fa?”. E, quindi, uno comincia a capire che c’è un mondo oltre quello che si vede, tutto un mondo da raccontarci e da raccontare ai figli. C’è tutto un oltre che va gustato, la realtà è tutta simbolica, tutto ci deve parlare: un fiore, un incontro con una persona. Ecco la luce, la luce dei legami, la luce della preghiera.

Perché tanto dolore? (lo “scandalo” della sofferenza) 2

A proposito della gioia e dei suoi surrogati, mi chiedo: dov’è la vera gioia? Perché spesso, spessissimo, viene confusa con altre cose che non sono gioia, ma surrogati di essa, come il piacere, le gratificazioni di ogni genere. Abbiamo voluto reagire a una cosiddetta società repressiva spalancando le porte di una società permissiva, dove impera, non solo a livello di comportamenti ma anche di idee e valori, quella che Benedetto XVI chiamava “dittatura del relativismo”. Il sospetto tipico del nostro tempo vede la vita cristiana come tristezza, rinunce, umore nero e visione pessimista della vita.
Chi dice questo non ha ancora bevuto all’acqua viva che Gesù promise alla samaritana (Gv 4).
Forse dovremmo chiederci se veramente Gesù è la mia Gioia. Alcune volte si ha l’impressione che essere cristiani, discepoli voglia dire “fare” per il Signore. Forse non è prima di tutto “stare con Lui”? È la sua presenza, la sua Persona, la relazione con Lui la fonte della vera Gioia? Oppure per me la gioia è nel compiere qualcosa per Gesù?
Certa è una cosa: se noi credenti non siamo ancora espressione di Gioia piena (dataci dall’incontro con il Signore), come possiamo rimanere stupiti di una mondo che vive nelle sue profondità uno stato di sottile malessere?

Giovedì eucaristico

Gesù ci dice di adorare

L’Adorazione Eucaristica è un culto, vero e proprio, dovuto solo a Dio.
È Gesù stesso a testimoniare che solo a Dio si deve adorazione quando, alle tentazioni di satana nel deserto, rifiutò di adorare il demonio. “Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”.
Gesù Cristo Dio, nella sua ultima Cena con gli Apostoli, rivelò che il pane dell’altare sarebbe diventato il suo Corpo, il cibo per i credenti che avessero voluto professare quel mistero.
Così, ogni volta che il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione dell’ostia, permette che Cristo Dio sia presente realmente nel Santissimo Sacramento.
Essendo Gesù Cristo, vero Dio (e vero uomo), presente nell’Eucaristia, gli si deve adorazione.
Allora, il pane consacrato nell’Eucarestia, il Corpo vivo del Cristo, viene esposto nell’ostensorio, sull’altare. Dinanzi ad esso, non possiamo che rendere devotamente omaggio.
Gli occhi fissi a quel Pane che ci rende miti e sereni, ci proietta e ci trasporta nella dimensione spirituale che ci collega, in comunione, al Signore.
Portiamo davanti a Lui tutto il nostro essere, il nostro vissuto, la nostra quotidianità, le gioie, piccole o grandi, le soddisfazioni, gli impegni, i sacrifici, i propositi e le nostre angustie, fragilità, cadute, insuccessi, delusioni e tutte le avversioni che ci confondono il cuore.
Sentiamo che, nel silenzio dell’ascolto, il Signore fa pulizia nella nostra anima; la libera da tutto quello che non è necessario alla nostra salvezza, alla comprensione di chi dovremmo essere, per volere del Creatore. Così, riusciamo a permettere che quello spazio sia riempito da Cristo, che vive in noi e per noi. Assaporiamo la pace che tanto cercavamo perché rimanere, li, in adorazione è già sufficiente a capire il mistero del Dio presente e annuire al suo messaggio.


Perché tanto dolore? (lo “scandalo” della sofferenza)

Perché un ragazzo, nel fiore dell’età, quando davanti a lui dovrebbe schiudersi la speranza e il respiro più ampio della vita, arriva a sopprimere questa vita? E sappiamo che questi eventi si stanno moltiplicando in modo allarmante. Sì, è un allarme. Ma di che cosa? Perché un ragazzo accumula tanto dolore, spesso mascherato, e tanta poca gioia di vivere? Mi viene da pensare a due cause:
Una attribuibile al tipo di società in cui viviamo, che formulerei in questo modo: grandi promesse che poi non vengono mantenute. Per esempio: la società in generale, e i mass media in particolare, propongono uno standard di vita di un certo livello. Un ragazzo cresce identificandosi con determinati modelli, che dietro la maschera hanno il vuoto. Modelli che non pagano. Si confonde la realtà “virtuale” con la realtà “reale”. Prima o poi ci si accorge dell’inganno. Si può continuare a illudersi e a vivere nel “virtuale”, ci si può continuare a drogare per non affrontare la realtà. Ma a volte, la delusione è così terribile e fulminante che una personalità fragile non regge la frustrazione e assistiamo al crollo improvviso.
Questa causa mi fa pensare a un’altra. Perché un adolescente, apparentemente bravo, buono e studioso, è così fragile che basta un brutto voto a scuola per mandarlo in tilt? A questo punto l’interrogativo si sposta sulle cosiddette “agenzie educative”. Queste cose ci devono interrogare: che tipi di persone stiamo formando? Che cosa possiamo fare per aiutare la crescita di persone che non siano “molluschi”: con una corazza durissima all’esterno, fragilissimi all’interno.
“Se ti lasci andare nel giorno dell’angoscia, è segno che la tua forza si riduce a ben poco” (Pr 24,10).
Perché queste personalità–molluschi? Anche qui possiamo riscontrare varie cause.
Voglio sottolinearne due: Il non saper dire mai di no. Questo atteggiamento ingenera non solo una visione distorta della vita, che prima o poi presenterà i suoi no, ma induce un sospetto terribile nel figlio a cui tutto si permette: i miei genitori non mi amano perché mi danno tutto. Il figlio che cresce avverte, anche se non gli piace, che c’è un limite alle cose, che la strada della vita ha dei paletti che vanno rispettati per il suo stesso bene, altrimenti andrà fuori strada e si farà male. Se coloro che gli stanno vicino non gli presentano questi limiti non si sentirà protetto da loro. Capite che non si tratta di un discorso repressivo, come se non si volesse lo sviluppo sereno, gioioso e positivo di un giovane. È un discorso educativo.
Se uno, poi, è cresciuto, senza che qualcuno gli dicesse mai di no, non saprà neanche dire di no a se stesso. Penserà che la vita è tutta una discesa e non si accorgerà del burrone. Pensiamo, in proposito alle parole di Gesù: “Stretta è la via che conduce alla vita. Spaziosa e larga quella che conduce alla perdizione”.

Un’altra causa può consistere nell’aver abbassato la qualità della gioia: abbiamo cioè identificato la gioia, e l’ambiente è stracolmo di questo messaggio, con la gratificazione dei bisogni, siano essi di tipo primario-istintivo, o di tipo secondario-sociale.
Abbiamo parlato dei ragazzi, perché ci fa male al cuore questo moltiplicarsi allarmante dei suicidi e omicidi e violenze, tra adolescenti e giovani. Dobbiamo interrogarci seriamente sulle cause e porre dei rimedi, non tanto fare discorsi demagogici o prediche.
Ma forse non c’è tanto dolore e tanta poca di gioia anche tra gli adulti? In fondo i giovani rispecchiano, e magari moltiplicano, ciò che vedono in noi. Perché viene a mancare la gioia di vivere?

Perché spesso c’è tanto dolore e poca gioia di vivere?

Di fronte a questo argomento provo un duplice sentimento: una sorta di timore di fronte a un tema troppo grande e complesso, intorno al quale girano i più grandi e drammatici interrogativi della nostra esistenza. E d’altra parte, un desiderio di riflettere, meditare su questo binomio misterioso, dolore e gioia, che impasta quotidianamente il nostro vivere. La Parola di Dio è piena di questo binomio e lo coniuga in tante sfumature: pensiamo al libro di Giobbe e agli altri libri sapienziali.
Così la saggezza e la filosofia, la letteratura di tutti i popoli si è sempre interrogata su questi temi di fondo: perché c’è il dolore? Come può convivere con la gioia? Quale dei due prevale nella nostra quotidiana esperienza? Il titolo sembra già dare una risposta, nel senso che la dose di dolore avrebbe la parte del leone su quella della gioia: tanto dolore e poca gioia di vivere.

Giornata mondiale del malato

Ci si può ammalare, si possono ammalare gli altri. Due diversi modi segnano il confine tra salute e malattia. Altro è ciò che riguarda se stessi, altro quel che riguarda gli altri, ma in comune vi è la medesima prospettiva: il radicale cambiamento di sguardo. La visione del mondo si trasforma, quando da sani ci si scopre malati. La malattia sembra definire tutto l’orizzonte e persino l’identità della persona: non si percepisce più come libera, ormai è “malata”. Benché nella vita avvengano alcuni passaggi fondamentali, nessuno di essi pare assomigliargli. Il primo giorno di scuola, il primo giorno al lavoro, il matrimonio, il primo figlio, il licenziamento, la separazione… svolte decisive, ma non abbastanza da essere paragonate all’ammalarsi. Il futuro incerto si colora di scuro, la novità è minacciosa, ciò che non dipende da sé adesso riguarda tutto di sé. Poi si ammalano gli altri, le persone care. Sorge un’improvvisa distanza, come se il desiderio di soccorrere, di farsi prossimi al dolore altrui, venisse frenato dall’impulso ad allontanarsi: sei in una condizione diversa, che mi fa paura, per te, per me. Mi avvicino, mi prendo cura, ma ti sento e mi sento lontano. Forse è proprio lo squilibrio che accade nel corpo e si riflette nel proprio intimo – sia quando ci si ammala, sia quando si ammalano gli altri – a suggerire impropriamente quella visione cara ad alcune religioni, come ad una certa lettura del cristianesimo, che lega la pena alla colpa.
Per spiegare l’armonia perduta si ricorre alla colpa, che ne diviene la causa; per darsi una prospettiva si pensa all’espiazione, che deve seguire come effetto. Al centro sta il dolore di non avere più libertà e speranza di autodeterminarsi, come se tale libertà fosse divenuta la sorgente del male. Senza entrare nella lotteria di chi ha la fortuna di essere sano e di chi incorre nella mala sorte di ammalarsi, Gesù sta in mezzo all’umanità per cambiare lo sguardo di ognuno, su se stesso, sugli altri, sul mondo. Il suo sguardo d’amore pasquale è l’unico che risana, perché fa del dolore di ognuno il proprio, con la singolare capacità di assumerlo e di portarlo via con sé, spogliando la sofferenza dalla cecità in cui tenta di farci sprofondare.
Se è vero che ciò che in tutti ed in ognuno la malattia genera è il mutamento di sguardo, allora è possibile che sia questo a dover essere trasformato, nei sani come nei malati: nella comunità umana prima ancora che in quella ecclesiale. Mentre al dolore non si può impedire di restare avvolto nel mistero, si può consentire all’amore di dischiudere un mistero ancor più grande, l’unico che può davvero salvare tutti.