Parlare oggi di emozioni significa interrogarsi sul significato più profondo (antropologico) dell’uomo. In prospettiva pedagogica e pastorale, questo invito si fa sempre più urgente e parlare di emozioni significa parlare dell’uomo, della sua vitalità, delle sue caratteristiche e di quello che lo costituisce, non esaurendosi in particolari abilità o specifiche competenze. Queste non hanno un mero compito strumentale, dal momento in cui sono parte dell’uomo e sono antecedenti della sua capacità razionale.
L’uomo è fatto di emozioni, ne compongono l’interiorità e queste sono processi della conoscenza, intesi sul piano funzionale come guida del comportamento. Nonostante la nostra storia occidentale stia uscendo solamente negli ultimi decenni da secoli di tabuizzazione del vissuto emotivo, la mentalità biblica è decisamente aperta a questo discorso: Sansone che fa fuori mille uomini con una mascella d’asino come arma, il popolo che piange di commozione quando sente pronunciare, dopo decenni, la legge di Dio che credeva dimenticata, Giobbe che si lamenta per quasi 40 capitoli, Giona che fa il risentito, Gesù che grida come un matto nel tempio e piange a dirotto quando muore Lazzaro (ecc.).
La Bibbia è un testo coloratissimo di emozioni e la storia della Salvezza non può fare a meno del temperamento dei suoi eroi. Per questo, il cammino che è stato proposto al grest ha voluto ribadire la necessità di riconoscere, nominare, esprimere e comprendere le emozioni, per armonizzarle all’esercizio del pensiero e al comportamento nelle relazioni.
