Tessitori di fraternità

Noi cristiani siamo così abituati al lessico della fraternità – si pensi solo a quante volte, durante la liturgia, risuona la locuzione: “Fratelli e sorelle” – che parlare di missione oggi in termini di “tessitori di fraternità” sembra qualcosa di estremamente semplice, se non banale. Certamente l’inclinazione alla fraternità è qualcosa che come umani ci portiamo dentro. Noi siamo “animali fatti di relazione e di relazioni”, come si sa bene sin dai tempi di Aristotele. Tuttavia, se c’è una cosa che vale per ogni aspetto della nostra umanità, è il dato per il quale in essa non vi sono automatismi di nessun tipo. Anche un’inclinazione così  profonda, come quella verso l’altro, verso il prossimo, richiede sempre un atto di volontà, una decisione, un passo da compiere in libertà. Ed ecco allora il punto: cosa succede al tempo della fraternità, quando le parole che sentiamo in mezzo al nostro quotidiano non riecheggiano quasi per nulla quelle liturgiche di “Fratelli e Sorelle”, quando scompare il bisogno dell’altro, quando cioè le condizioni economiche, sociali, culturali, di sviluppo sono tali da affrancare la maggior parte delle persone dalle situazioni di povertà, di indigenza, di fame, di esposizione a malattie incurabili così frequenti anche nelle parti ora ricche del mondo sino a poco tempo fa? In una parola: cosa succede alla questione della fraternità  quando il denaro, la tecnologia, l’espansione e la promozione dell’esistenza di ciascun soggetto prendono il sopravvento? Accade che essa diventi un compito, un impegno: una missione. Di più, secondo una possibile lettura di Evangelii gaudium, la fraternità diventa la missione specifica della comunità ecclesiale per questo tempo ed in questo tempo.

La fraternità è un tema attuale, è fondamentale per la Chiesa, ma accomuna anche l’intera umanità: lo si può cogliere immediatamente nei molteplici richiami di Papa Francesco, dall’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, al recente Documento sulla fratellanza umana. Tutto a richiamarci che la fraternità, prima ancora di essere una caratteristica dei cristiani è un’esperienza propria di ogni donna e ogni uomo e che i discepoli di Gesù sono chiamati a custodire e a coltivare in pregnanza di significato, perché è vissuta direttamente o indirettamente da ognuno di noi fin dai primi istanti della propria vita. Proprio per non banalizzare il termine “fraternità” e non chiuderlo nell’ovvietà, è utile comprenderlo nella novità che il Vangelo ci consegna e conseguentemente cogliere la prospettiva di responsabilità che ne scaturisce a partire dalla domanda “che cosa chiederemmo se la fraternità la guardassimo stando dalla parte dell’altro, di colui che chiamiamo fratello?”, e assumere tutta la responsabilità di essere noi propulsori di fraternità. Forse proprio nel sentirci coinvolti in un progetto di vita che ha nella fraternità una urgenza ecclesiale e sociale del nostro momento, ci sentiremo ulteriormente interpellati a verificare in essa una corretta  accoglienza del Vangelo, e così dire anche noi con coraggio “Ecco, manda me” (Is 6,8). Per strappare la fraternità dal rischio di una espressione scontata e per certi aspetti logora, la prospettiva che rimane è veramente quella di convertirci in un rinnovato stile di azione pastorale.

Perché non imparare a pregare?

Solo imparando a pregare possiamo rintracciare la presenza di Dio nelle nostre giornate, solo dimorando in Lui riusciamo a conservare la fede e a renderla efficace per la nostra vita. In un mondo frammentato in cui l’interiorità, prima ancora che la fede, è messa in discussione e mortificata, presi come siamo a sbarcare il lunario, costretti a cedere a ritmi di lavoro forsennati, è difficile conservare la fede e, con essa, la serenità.

La sola partecipazione festiva all’Eucaristia rischia di non essere sufficiente a mantenere viva in noi la fiamma della fede: ci è necessaria l’abitudine alla preghiera quotidiana, alla meditazione settimanale, all’incontro prolungato, nel silenzio, col Signore.

Certo: non siamo monaci di clausura e viviamo nel mondo, ma chi fa esperienza di preghiera, e sa che a volte occorre molta determinazione per trovare il tempo e lo spazio mentale per accedervi, ci testimonia il cambiamento della qualità della sua vita.

Dedicare anche solo dieci minuti al giorno (su 1.440 che lo compongono, meno dell’1%) ci permette di fissare la meta, di orientare la vita, di capire quanto ci sta succedendo.

La preghiera ha innanzitutto bisogno di me: di quello che io sono, sul serio, senza maschere, senza fuggire, senza finte. Solo il mio vero io può incontrare il vero Dio.

La preghiera ha bisogno di un tempo: scegliamo il tempo, se ci è possibile, in cui siamo più in forma. La preghiera ha bisogno di un luogo: è utile creare un angolo specifico o trovare qualche luogo.

La preghiera ha bisogno di una parola da dire: detta col cuore per affidare la vita, per raccomandare le persone che incontriamo, per chiedere aiuto, per dire tutto il nostro malumore, per prendersela con Dio.

La preghiera ha bisogno di una Parola da ricevere: quella che Dio ci dona, prima o dopo le nostre parole. Suggerisco la Parola della messa del giorno. Forse non la capiremo subito, ma è quella che, messa nel cuore, porterà frutto.

Prosegue l’attività del Bambù

In questo tempo si Pandemia, il centro di ascolto è ancora chiuso, ma non si è mai fermata l’azione di solidarietà, di attenzione da parte dei volontari del “Bambù”. Ringrazio di cuore tutte le persone che svolgono questa missione indispensabile. Continua la distribuzione dei pacchi mensile porta a porta (grazie anche all’aiuto e alla disponibilità della Protezione Civile). Ma continua l’assistenza concreta di ascolto, di conoscenza e di pronto aiuto anche nei confronti di famiglie che sono in difficoltà economica. Insomma nel silenzio evangelico questo seme di solidarietà continua a dare frutti tanto belli.

È motivo di orgoglio sapere che nei momenti difficili le persone hanno un punto di riferimento e sanno a chi chiedere aiuto. Ed è bello vedere la pronta disponibilità e l’azione benefica di altrettante persone.

Giornata Mondiale del Turismo

“Turismo e sviluppo rurale”

La 41ma Giornata Mondiale del Turismo ricorre quest’anno nel contesto incerto segnato dagli sviluppi della pandemia COVID-19, di cui ancora non si vede la fine. Ne deriva una drastica riduzione della mobilità umana e del turismo, sia internazionale che nazionale, collocandosi ai minimi storici. La sospensione dei voli internazionali, la chiusura degli aeroporti e dei confini, l’adozione delle severe restrizioni ai viaggi, anche interni, sta causando una crisi senza precedenti in molti settori connessi all’industria turistica. Si teme che nella peggiore delle ipotesi, a fine 2020 si assisterà ad una diminuzione di circa un miliardo di turisti internazionali, con una perdita economica globale di circa 1.200 miliardi di dollari.                                         Ne conseguirebbe una perdita enorme di posti di lavoro nell’intero settore turistico.  Secondo il Segretario Generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo, Zurab Pololikashvili, «il turismo è stato tra tutti il settore maggiormente colpito dal lockdown globale, con milioni di posti di lavoro a rischio in uno dei settori più ad alta intensità di lavoro dell’economia».

Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato

Le offerte che verranno deposte nella bussola, all’ingresso della Chiesa,saranno consegnate secondo questa intenzione.

La Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato dal 1914. È sempre stata un’occasione per dimostrare la preoccupazione per le diverse categorie di persone vulnerabili in movimento, per pregare per loro mentre affrontano molte sfide, e per aumentare la consapevolezza sulle opportunità offerte dalla migrazione.

«Le conflittualità e le emergenze umanitarie, aggravate dagli sconvolgimenti climatici, aumentano il numero di sfollati e si ripercuotono sulle persone che già vivono in stato di grave povertà. Molti dei Paesi colpiti da queste situazioni mancano di strutture adeguate che consentano di venire incontro ai bisogni di quanti sono stati sfollati» (Papa Francesco  –  9 gennaio 2020).

Ho deciso di dedicare questo Messaggio al dramma degli sfollati interni, un dramma spesso invisibile, che la crisi mondiale causata dalla pandemia COVID-19 ha esasperato. Questa crisi, infatti, per la sua veemenza, gravità ed estensione geografica, ha ridimensionato tante altre emergenze umanitarie che affliggono milioni di persone, relegando iniziative e aiuti internazionali, essenziali e urgenti per salvare vite umane, in fondo alle agende politiche nazionali. Ma «non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone» (Papa Francesco: Messaggio Urbi et Orbi, 12 aprile 2020).

Vorrei partire dall’icona che ispirò Papa Pio XII nel redigere la Costituzione Apostolica Exsul Familia (1 agosto 1952). Nella fuga in Egitto il piccolo Gesù sperimenta, assieme ai suoi genitori, la tragica condizione di sfollato e profugo «segnata da paura, incertezza, disagi (cfr Mt 2,13-15.19-23). Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di famiglie possono riconoscersi in questa triste realtà. Quasi ogni giorno la televisione e i giornali danno notizie di profughi che fuggono dalla fame, dalla guerra, da altri pericoli gravi, alla ricerca di sicurezza e di una vita dignitosa per sé e per le proprie famiglie» (Angelus, 29 dicembre 2013).

In ciascuno di loro è presente Gesù, costretto, come ai tempi di Erode, a fuggire per salvarsi. Nei loro volti siamo chiamati a riconoscere il volto del Cristo affamato, assetato, nudo, malato, forestiero e carcerato che ci interpella (cfr Mt 25,31-46). Se lo riconosciamo, saremo noi a ringraziarlo per averlo potuto incontrare, amare e servire. Le persone sfollate ci offrono questa opportunità di incontro con il Signore, «anche se i nostri occhi fanno fatica a riconoscerlo: coi vestiti rotti, con i piedi sporchi, col volto deformato, il corpo piagato, incapace di parlare la nostra lingua» (Omelia, 15 febbraio 2019).

Si tratta di una sfida pastorale alla quale siamo chiamati a rispondere con i quattro verbi che ho indicato nel Messaggio per questa stessa Giornata nel 2018: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ad essi vorrei ora aggiungere sei coppie di verbi che corrispondono ad azioni molto concrete, legate tra loro in una relazione di causa-effetto.

Bisogna conoscere per comprendere.       È necessario farsi prossimo per servire.

Per riconciliarsi bisogna ascoltare.          Per crescere è necessario condividere.

Bisogna coinvolgere per promuovere.      È necessario collaborare per costruire.

Un rapporto fiducioso

Nei Vangeli, in Luca in particolare, emerge chiaramente il fatto che Gesù dedicava molto tempo alla preghiera. Questa sua dedizione ha dapprima incuriosito i discepoli, poi li ha profondamente colpiti, infine li ha travolti. Hanno scoperto che Gesù traeva la sua forza interiore, la sua compassione, la sua gioia nel rapporto costante, personale, intimo con Dio nella preghiera costante.

Che bisogno aveva Gesù di pregare? Nessuno, se la preghiera è l’elenco quotidiano dei nostri bisogni cui Dio deve sopperire. Ma se, invece, la preghiera è entrare in profonda comunione con lui, immergersi nella realtà spirituale che tutto avvolge e riempie, spalancare lo sguardo interiore assumendo la prospettiva dell’Eterno, allora Gesù è maestro di preghiera. Anzi: il Maestro di preghiera.

Gesù prega nei momenti cruciali della sua missione: durante il Battesimo, ricordandoci che i gesti della fede vanno anzitutto celebrati nell’interiorità; nel momento della Trasfigurazione, perché la preghiera ci conduce alla bellezza di Dio; prima della croce, perché la preghiera ci aiuta a sostenere la sofferenza.

Prega nei momenti salienti del suo ministero: prima di chiamare i Dodici, per ricordarci che la Chiesa nasce e vive nella preghiera; prima della confessione di Pietro e per sostenerlo nella prova, perché Gesù si fida e prega per noi.

Il rapporto col Padre è rapporto di fiducia: Gesù ringrazia il Padre che sempre lo ascolta prima della risurrezione di Lazzaro, certo di essere esaudito. La preghiera, per lui, è anche occasione di riconoscere con grande gioia l’opera del Padre verso i semplici e gli umili, primi ad accogliere l’annuncio del Regno. La preghiera dopo l’Ultima Cena, che riporta Giovanni, è una specie di grande sintesi: Gesù porta tutta la sua vita, la sua missione, le persone che ama nella sua preghiera. E porta anche noi, anche me.

Gesù ci svela il volto del Padre: è a lui che rivolgiamo la preghiera. Pregare con Gesù, pregare il Padre e Dio di Gesù, significa anzitutto credere che gli stiamo a cuore, che esiste una logica nel suo agire, nel pieno rispetto della nostra libertà, che Dio si occupa di me. Noi chiediamo al Padre ed egli invia lo Spirito. Perché alla luce dello Spirito possiamo vedere, nella nostra vita, in che modo Dio ascolta le nostre richieste.

La preghiera è un colloquio intimo e comunitario, uno scambio di opinioni, una reciproca intesa. La preghiera è fatta di ascolto di Dio, di intercessione.

La preghiera di Gesù

Perché pregare? L’unica vera e inoppugnabile ragione che trovo in me stesso, l’unica risposta che ancora mi convince è: perché lo ha fatto Gesù, e io, che sono suo discepolo, voglio imitarlo.  L’incontro con Dio accende in noi una nuova sensibilità, spalanca un modo diverso di vedere la realtà e attiva una sensibilità profonda che deriva dall’anima. La preghiera è chiedere, lodare, contemplare,  intercedere. La preghiera diventa il modo di tenersi in contatto con Dio ma anche di restare in unione con noi stessi e con gli altri: è nel profondo dell’anima che sperimentiamo la presenza dell’Assoluto.

Pregare “serve” a qualcosa?

Penso tutti noi siamo consapevoli di quanto si importante e necessario pregare. E come la preghiera sia la fonte della comunità cristiana. Ecco perché diventa importante, oltre alla celebrazione dell’Eucaristia, inserire all’interno del cammino pastorale, momenti di preghiera, celebrazioni, veglie, adorazioni, novene comunitarie. Pregando insieme si diventa comunità. Pregare è cambiare il proprio sguardo sulla realtà a partire dall’Eterno.

La preghiera, oggi, non gode di particolare notorietà, siamo onesti. E non solo fra chi si dichiara non credente, in ricerca, o dubbioso, cosa peraltro comprensibile e legittima, visto che, in genere, considera la preghiera come un’inutile perdita di tempo, quando va bene. Ma anche fra chi si professa cristiano, fra chi vive con semplicità e onestà il Vangelo, fra chi si è messo alla sequela del Nazareno. Pregare non va di moda. Le obiezioni che si rivolgono alla preghiera sono innumerevoli e degne di attenzione. Le persone faticano a pregare per molte ragioni, alcune molto complesse e di difficile valutazione, altre più intuitive e immediate. Eppure, penso, che la nostalgia sia tanta. Nostalgia che emerge prepotente quando si coagula intorno ai luoghi di spiritualità che radunano migliaia di persone disposte a mettersi in ascolto, a fare silenzio, a interrogarsi, a pregare. Mi domando: forse in parrocchia non si trova sufficiente nutrimento delle vere e proprie  oasi di interiorità?

Una nuova riapertura

Don Giuseppe e i Consigli Parrocchiali stanno lavorando insieme per pensare una riapertura degli spazi dell’oratorio, la cui chiusura si è protratta per diversi mesi a causa dell’emergenza sanitaria. Purtroppo, le norme da seguire per ricominciare a usufruire della struttura sono molto rigide, addirittura in misura maggiore rispetto a quelle utilizzate per gli altri locali con frequenza del pubblico. Proprio per questo ci sono limiti oggettivi che momentaneamente limitano l’utilizzo degli spazi alle attività sportive organizzate. Per pensare insieme al futuro e, soprattutto, per trovare nuovi volontari, indispensabili in questa fase, vi invitiamo a una riunione fissata per domenica 27 settembre, alle 17, in chiesa. Il fatto di costituire un gruppo di persone che possa gestire in sicurezza l’oratorio è condizione indispensabile per la riapertura. 

Alleati per il futuro

96° Giornata per l’Università Cattolica

Stiamo vivendo una stagione difficile e incerta. L’urto della realtà, misteriosa e sconcertante, ha provocato la nostra vita riportando a galla le domande che tante volte preferiamo evitare: perché e per chi accade quel che accade? Come vivere il dolore? Che senso hanno avuto tante morti a motivo della pandemia? Oggi tutti parlano di “ripartenza” e noi, la comunità dei credenti, abbiamo un grande e originale contributo da dare. Ricominciare può coincidere con la chiusura di una parentesi, ma non crediamo che possiamo darci l’obiettivo di ritornare a dove ci siamo fermati, scommettendo sul tempo che lenisce le ferite e richiudendo nel cassetto dei ricordi la sfida esistenziale di questi mesi. Riflettere su quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, su ciò che stiamo imparando alla dura scuola della realtà. Nel biennio 2020/2021 l’Istituto Toniolo e l’Università Cattolica compiono 10 anni.  “Pensare alla cultura superiore mentre l’Italia nostra è in preda a convulsioni, mentre imperversa una bufera che potrà forse tutto sommergere, può sembrare iniziativa di gente che vive fuori dal mondo, non a contatto con la tremenda realtà dell’oggi!”. Così scriveva il Comitato Promotore dell’Università Cattolica nel 1920. quello era un tempo cupo di rivoluzioni, di violenze, di incognite, di poteri opachi, di rovine ancora fumanti per gli incendi della Grande Guerra. Occorreva dare risposte, ma quali sarebbero state all’altezza? La risposta fu totalmente controcorrente, totalmente innovativa: la cultura. La risposta fu la formazione,  l’educazione ecco come germogliarono il Toniolo e l’Università. Oggi, alla luce del dramma che ci è accaduto, quell’insegnamento torna a vibrare per investire tutta la nostra ansia di ripartenza e ripresa.  Pensare alla cultura non è altro che pensare alla vita, oggi come un secolo fa, sospinti dalla stessa urgenza di contribuire alla costruzione del bene comune.  La Giornata per l’Università cattolica che si celebra il 20 settembre è stata intitolata: “Alleati per il futuro”.

Domenica 20 settembre: Giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le offerte che verranno deposte nella bussola, all’ingresso della Chiesa, saranno consegnate secondo questa intenzione.