L’opera educativa: essere adulti

L’educazione è strutturalmente legata ai rapporti tra le generazioni.
Il dialogo richiede una significativa presenza reciproca e la disponibilità di tempo. L’educazione si realizza attraverso la dialettica dell’incontro/scontro con l’alterità che permette la composizione e configurazione della propria identità in crescita.
Il percorso e processo educativo non si realizza pertanto in modo automatico e indolore: è infatti attraversato da una necessaria dose di conflittualità, la quale, lasciando emergere le differenze, favorisce pure lo sbocciare delle ricchezze e delle potenzialità di queste ultime.

Ciò che manca al processo educativo attuale è l’adulto.
Alla radice della questione è il sorgere e l’imporsi di un nuovo sentimento di vita in direzione di una cultura della giovinezza, che di fatto costituisce un grosso ostacolo per l’esistenza dei giovani.
Viviamo un tempo in cui gli adulti amano più la giovinezza che i giovani.
Sentimento di vita = ciò che rende pienamente umana la vita degli uomini.
Ciò che stabilisce oggi amabile, vivibile e degna la vita degli uomini è propriamente il culto della giovinezza.
Giovinezza intesa come forza, come grande salute, come vigore, come bellezza e sensualità, come scenario sempre aperto delle possibilità di un’esistenza, come senso di libertà sempre revocabile.
Oggi al centro dell’immaginario collettivo vige il desiderio di restare sempre giovane. Non si intende qui la giovinezza dello spirito.
Solo se riesci a mostrare la giovinezza nel modo di vestire, nella traccia del tuo corpo, nel modo
di considerare l’esistenza come possibilità sempre aperta, solo allora hai diritto ad una vita degna,
ad una vita riuscita.
La giovinezza è la grande macchina della felicità degli adulti odierni, l’unica macchina di felicità.

Vietato lamentarsi

Perché smetterla di lamentarsi? Perché le lamentele ci impediscono di trovare una soluzione, ci fanno disperdere energia, generano uno stato d’animo negativo e influenzano le relazioni interpersonali. Perché ci lamentiamo? Perché siamo abituati a farlo, perché siamo insoddisfatti della nostra vita e perché è un meccanismo efficace per manipolare gli altri.

Tutti si lamentano? No, c’è una percentuale di persone che, pur avendone validi motivi, decide di fronteggiare le difficoltà sviluppando competenze emotive e tecniche e quindi capacità di risoluzione dei problemi.

La gente si accorge di essere in preda a questa abitudine? Non tutti, a volte è tanta l’abitudine a farlo che non ci si rende conto della paralisi egocentrica di cui si è vittime. Addirittura qualcuno può dire: “Che ci posso fare se sono fatto così”.

Il lamento fa male al cervello? Recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato che ascoltare o produrre per più di trenta minuti al giorno contenuti intrisi di “negatività” nuoce a livello cerebrale.

Invece le persone che scelgono consapevolmente di trasformare le cosiddette “crisi” in opportunità sono di fatto i benefattori, veri e propri architetti di reti neurali che migliorano la funzionalità del cervello.

Cosa succede se ci lamentiamo e basta? Rischiamo di rovinarci la vita e di sentirci sempre più impotenti. Se c’è una cosa che fa male alla vita è non riuscire a esprimere il proprio talento e la propria ricchezza interiore. Lamentarsi vuol dire: brontolare, compiangere, recriminare, accusare, affliggersi, disperarsi, lagnarsi, mugugnare … senti il suono di queste parole? Sono demotivanti al massimo.

A forza di lamentarti, ti induci ad avere una “faccia da lamento”, ti imbruttisci e diminuisci la tua motivazione positiva. Cerca invece di trovare modi opposti di fronteggiare le cose della vita. Utilizza parole che aprono e che portano a stati d’animo positivi come: opportunità, possibilità, risultati, soluzioni, comprensione, realizzazione e gratitudine. Ottimizzare ciò che abbiamo per farne qualcosa in più.

Perché ci trattiamo male? Perché non conosciamo la nostra vera natura, il nostro grande potenziale e perché ci siamo allontanati da Dio. Una persona che crede poco in se stessa è simile a un albero a cui vengono regolarmente tagliate le radici per impedirgli di crescere. Non arriva mai a conoscere la fioritura, il rigoglio, il profumo. Vive per consumare e magari cercherà la felicità dell’ennesimo oggetto, nella macchinetta mangiasoldi … Per trovare Dio bisogna togliersi le bende dagli occhi e cominciare a vedere che c’è un’altra vita che ti aspetta: quella del risveglio. Cercare un altrove attraverso la preghiera, l’invocazione, la propria vocazione. Vedere è più che guardare. Tutti guardano, pochi vedono.

“Dio sa mutare in lamento in danza”

Alcune volte si sente ripetere la frase: “Lamentati e stai bene”. È una frase che potrebbe significare che se sei ottimista, stai male. Espressione che potrebbe associarsi anche a connotati fisici, come il viso imbronciato e le spalle curve. La ripetizione di questa frase crea un “incantesimo” che ci porterebbe a diventare un popolo di lamentosi e vittime sempre di qualcosa o di qualcuno.

Pur riconoscendo le difficoltà della vita, non posso credere che la soluzione si possa trovare nel lamento, ma credo al contrario che si trovi nella voglia di agire per cambiare in meglio la nostra condizione.

Come diceva Martin Luther King: “Può darsi non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventereste se non farete nulla per cambiarla”. Tutti vogliamo una vita migliore, tutti cerchiamo quella serenità, quella calma che ci aiutano ad affrontare meglio gli ostacoli, gli imprevisti, i dolori dell’esistenza.

Troppo spesso, però, questa teoria e generica volontà di vivere in modo migliore non viene tradotta in pratica. Una cosa è certa: dobbiamo attivare nella nostra vita più entusiasmo, più gratitudine e più responsabilità, per ottenere coesione e gioia di vivere.

Il cuore della vita sta nella fede, nella fiducia, nello sviluppo delle proprie potenzialità e nell’aiutare anche il prossimo. Nelle istituzioni, nelle famiglie, nelle relazioni interpersonali, nel mondo del lavoro, c’è bisogno di respirare un’aria nuova, di immaginare un futuro migliore e di fare cose concrete per attivare un cambiamento positivo.

Con quale dei sette giovani del Vangelo mi identifico maggiormente?

La risposta che ogni giovane potrebbe dare coinciderà con una delle sette risposte dei giovani del Vangelo, perché in esse sono rappresentate tutte le risposte che i giovani danno a Gesù Cristo.

Somiglio al giovane buono e ricco quando respingo l’invito di Cristo a mettermi alla sequela di colui che dà la vita e, quale che sia la mia risposta, una cosa è certa: Dio non smette di amarmi e continuerà ad aspettarmi con le braccia aperte.

Somiglio alla ragazza marionetta quando mi lascio manipolare dalla mentalità di un mondo che non ama e non conosce Dio. Quando mi diverto e diverto gli altri, senza considerare che sono un figlio amato da Dio. E benché sia sordo, alla voce di Dio, lui sarà sempre vicino a me e dentro di me.

Somiglio al giovane di Nain quando permetto che Satana prenda le redini della mia vita e lascio che mi conduca su sentieri di peccato e di morte. Tuttavia, Cristo prende l’iniziativa, viene a cercarmi, mi tocca con la sua grazia infinita e mi dice: “Giovane, dico a te, alzati”.

Somiglio al giovane che dona i suoi cinque pani e due pesci quando rinuncio a me stesso e sono capace di donare la mia vita e il mio tempo al servizio degli altri. Quando sono capace di consegnare i miei cinque pani e due pesci, simbolo del mio cuore, nelle mani dell’unico vero Dio e del suo inviato Gesù Cristo.

Somiglio alla ragazza della porta ogni volta che critico la Chiesa, i cristiani e i discepoli di Gesù, ma non sono capace di aprire la porta del mio cuore a Cristo.

Somiglio al giovane Giovanni Marco quando non sono capace di superare le tentazioni che si presentano lungo il cammino e ho smesso, momentaneamente, di seguire Cristo, ma, nonostante le diserzioni e le cadute, sono capace di rialzarmi e riprendere la via, la verità e la vita.

La sfida è arrivare a identificarmi pienamente col giovane vestito di bianco e per fare ciò devo vestirmi della nuova vita in cristo e annunciare al mondo che Cristo Gesù, il crocifisso è risorto.

I Giovani del Vangelo

Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo

In occasione della festa di san Giovanni Bosco è immediato il collegamento con i giovani.

Mosso da questa circostanza ho preso la Bibbia e mi sono messo a leggere attentamente i quattro Vangeli, cercando in essi l’aggettivo giovane o il termine ragazzo. A poco a poco cominciarono a emergere diversi personaggi. Al termine ne identificai sette. Esaminando questi sette giovani del Vangelo scoprii che essi riflettono le caratteristiche della gioventù ed evidenziano contemporaneamente le risposte che i giovani danno a Gesù Cristo, che “è lo stesso ieri e oggi e per sempre”. La rassegna della gioventù inizia dal giovane buono e ricco (Mc 10,17-22) che cerca la perfezione, ma non è disposto a pagare il prezzo della vera libertà; incapace com’è di staccarsi dai suoi beni materiali, finisce col ritornare a casa sua ad accarezzare tutti i suoi tesori. La sua risposta a Gesù è girarsi dall’altra parte e respingere il suo invito a diventare discepolo del Regno.Il secondo giovane è la figlia di Erodiade (Mc 6,21-28) . La osserviamo divertirsi a una festa di compleanno: incomincia ballando e finisce chiedendo la testa di Giovanni il Battista. Preferisce mettere a tacere la voce di un profeta piuttosto che ascoltare la Parola di Dio che la invita alla conversione.

Il terzo giovane è trasportato da quattro persone al cimitero della città dove dovrà essere sepolto (Lc 7,11-17) . Sembra ormai tutto finito: non c’è alcuna soluzione e ogni speranza è perduta, ma Gesù si avvicina e lo chiama a essere testimone di una vita nuova. Questo giovane che passa dalla morte alla vita risponde a Gesù scendendo dal feretro e diventando un testimone che non può smettere di parlare di quello che Dio ha compiuto nella sua vita.

Il quarto protagonista è il giovane dei pani e dei pesci (Gv 6,4-13) . Risponde con generosità alla chiamata di Dio, donando il poco che ha, ma che basta ad alimentare una moltitudine. I suoi cinque pani e due pesci sono il simbolo di una vita che si dona in pienezza a Dio.

Il quinto giovane lo troviamo vicino alla porta del palazzo del sommo sacerdote (Gv 18,15-18) . Si tratta di una ragazza che apre la porta e che sa identificare il profilo di un discepolo di Gesù, ma è incapace di aprire la porta del proprio cuore perché Cristo entri nella sua vita.

Il sesto giovane segue Gesù nella notte del giovedì santo (Mc 14,43-52) , nascondendosi nell’ombra e proteggendosi dal freddo con una tunica. La sequela finisce in fuga. L’ultimo è il giovane vestito di bianco (Mc 16,1-8)  che, dall’interno del sepolcro, annuncia al mondo che Gesù, morto sul monte Calvario, è vivo ed è capace di dare la vita, e vita in abbondanza.

L’opera educativa: essere adulti

L’educazione non è più di moda. Non se ne avverte l’esigenza. Nell’essere dell’adulto il giovane dovrebbe trovare inscritta questa legge: “Lì dove sono io, là sarai tu”, quindi cammina, datti da fare. Scegli questo destino. Si cresce cioè guardando gli altri davanti a noi, guardando gli adulti. Purtroppo il giovane oggi trova incarnata quest’altra disperata legge: “Lì dove tu sei, io sarò”.

Insomma: non ti muovere. Tu sei nel paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile cammino sull’orlo del non-essere della vecchiaia e della morte sono io adulto. Tu puoi star fermo. Tu sei il (mio) modello. Negli occhi del suo (naturale) modello, l’adulto, allora il giovane scopre di essere diventato lui il modello. Ma in questa scoperta, cioè nel venire a sapere di essere modello del proprio modello, scorge un solo messaggio: non crescere! L’educazione finisce lì dove l’adulto interpreta la propria esistenza come un continuo vivere contromano”, per ritornare indietro, per bloccare l’orologio biologico, per recuperare il paradiso perduto.

Il “logo” di questa domenica

Il Logo della Domenica dalla Parola di Dio si ispira al passo evangelico dei discepoli di Èmmaus e mette in evidenzia il tema del rapporto tra i viaggiatori, espresso in sguardi, gesti e parole. Gesù appare come colui che «si avvicina e cammina con» l’umanità, «stando in mezzo» .
In lui «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti siamo uno». Camminando tra i suoi, egli ne rinvigorisce i passi, additando gli orizzonti dell’evangelizzazione raffigurati nel logo dalla stella: «Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome e le conduce fuori.
E quando ha spinto fuori le pecore, cammina davanti ad esse ed esse lo seguono perché conoscono la sua voce».

Le sue parole sono un tutt’uno con quelle racchiuse nel rotolo che tiene tra le mani: «Chi è degno di aprire il rotolo e di scioglierne i sigilli». Se i due discepoli sono smarriti di fronte ai misteri della storia,
subito vengono rassicurati: «Non piangete; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il rotolo e i suoi sette sigilli». «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» . La familiarità con la Parola di Dio nasce della relazione, dalla ricerca, nelle Sacre pagine, del volto di Dio. La Scrittura non ci porge concetti ma esperienze, non ci immerge solo in un testo, ma ci apre anche all’incontro con il Verbo della vita, decisivo «per insegnare, convincere,
correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona». Sullo sfondo una grande luce: c’è chi vede un solo al tramonto; a noi piace cogliere il «sole che sorge» e che, nel Risorto, annuncia l’alba di una nuova missione destinata a tutti i popoli: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura».

“Tenendo alta la Parola di Dio” (Fil 2,16)

L’espressione biblica con la quale quest’anno si intende celebrare la Domenica della Parola di Dio è tratta dalla Lettera ai Filippesi. Come si deduce da alcuni riferimenti, l’apostolo scrive la lettera dalla prigionia. Rappresenta certamente uno dei testi più importanti che la Chiesa tiene tra le sue mani. Il brano cristologico con il quale Paolo evidenzia l’abbassamento compiuto dal Figlio di Dio nel farsi uomo permane nel corso di tutta la nostra storia come un punto di riferimento di non ritorno per comprendere il mistero dell’incarnazione.

La liturgia non ha mai cessato di pregare con questo testo. La teologia ne ha fatto uno dei contenuti principali per l’intelligenza della fede. La testimonianza cristiana ha trovato in queste parole il fondamento per costruire il servizio pieno della carità. La lettera mentre esprime i contenuti essenziale della predicazione dell’apostolo, mostra anche quanto sia necessario per la comunità cristiana crescere nella conoscenza del Vangelo. Con il nostro versetto, l’apostolo intende offrire un insegnamento importante alla comunità cristiana per indicarle in quale modo è chiamata a vivere in mezzo al mondo. Richiama anzitutto all’importanza che i cristiani sono tenuti a dare al loro impegno per la salvezza, proprio in forza dell’evento realizzato dal farsi uomo da parte del Figlio di Dio e dall’essersi offerto alla violenza della morte in croce: «Con timore e tremore lavorate alla vostra salvezza» (Fil 2,12).

Nessun cristiano può pensare di vivere nel mondo prescindendo da questo evento di amore che ha trasformato la sua vita e l’intera storia. Certo, Paolo non dimentica che per quanto impegno i cristiani possano mettere nel raggiungere la salvezza, permane sempre il primato dell’azione di Dio: «È Dio che suscita tra voi il volere e l’agire in vista dei suoi amabili disegni». L’insieme di questi due elementi permette di comprendere le parole impegnative che l’apostolo dedica ora ai cristiani di Filippi avendo dinanzi agli  occhi i credenti che nel corso dei secoli saranno discepoli del Signore. Il primo impegno che i credenti  sono tenuti a fare proprio è la coerenza di vita. Il richiamo a essere “irreprensibili” e “integerrimi” in mezzo a un mondo dove predomina spesso la falsità e la furbizia, rimanda alla parola di Gesù quando   invitava i suoi discepoli: «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». Perché questo si possa realizzare, Paolo indica la strada da perseguire: i cristiani hanno l’esigenza di rimanere fedeli e uniti alla Parola di Dio. «Tenendo alta la parola di vita» i discepoli di Cristo «brillano come astri nell’universo». È una bella immagine quella che l’apostolo offre oggi anche a tutti noi. Viviamo un momento drammatico. L’umanità pensava di avere  raggiunto le più solide certezze della scienza e le soluzioni di un’economia per garantire sicurezza di vita. Oggi è costretta a verificare che nessuna delle due le garantisce il futuro. Emerge in maniera forte il disorientamento e la sfiducia a causa dell’incertezza sopraggiunta in maniera inaspettata. I discepoli di Cristo hanno la responsabilità anche in questo frangente di pronunciare una parola di speranza. Lo possono realizzare nella misura in cui rimangono saldamente ancorati alla Parola di Dio che genera vita e si presenta come carica di senso per l’esistenza personale. Forse, l’interpretazione più autorevole di questo versetto può essere quella di Vittorino. Il grande retore romano di cui Agostino descrive nelle Confessioni la conversione, scriveva nel suo Commento ai Filippesi: «Io mi glorio in voi perché possedete la parola di vita, cioè perché conoscete Cristo, che è la Parola di vita, perché quello che è fatto in Cristo è vita. Quindi Cristo è la Parola di vita, da questo percepiamo quanto siano grandi il profitto e la gloria di coloro che reggono le anime degli altri». Nella Domenica della Parola di Dio, riscoprire la responsabilità di operare perché questa Parola cresca nel cuore nei credenti e li animi di gioia per l’evangelizzazione, è un augurio che si fa preghiera.

Rimanendo in Cristo, sorgente di ogni amore cresce il frutto della comunione

La comunione in Cristo richiede la comunione con gli altri. Doroteo di Gaza, un monaco della Palestina del VI secolo, lo esprime con queste parole: “Immaginate un cerchio disegnato per terra, cioè una linea tracciata come un cerchio, con un compasso e un centro. Immaginate che il cerchio sia il mondo, il centro sia Dio e i raggi siano le diverse strade che le persone percorrono. Quando i santi, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, nella misura in cui penetrano al suo interno, si avvicinano l’un l’altro e più si avvicinano l’uno all’altro più si avvicinano a Dio. Comprendete che la stessa cosa accade al contrario, quando ci allontaniamo da Dio e ci dirigiamo verso l’esterno. Appare chiaro, quindi, che più ci allontaniamo da Dio, più ci allontaniamo gli uni dagli altri e che più ci allontaniamo gli uni dagli altri, più ci allontaniamo da Dio”.

Avvicinarci agli altri, vivere insieme in comunità con altre persone, a volte molto diverse da noi, costituisce una sfida. Non vi è amicizia senza sofferenza purificatrice, non vi è amore per il prossimo senza la croce. Solo la croce ci permette di conoscere l’imperscrutabile profondità dell’amore”. Le divisioni tra i cristiani, il loro allontanamento gli uni dagli altri, è uno scandalo perché significa anche allontanarsi ancor di più da Dio. Molti cristiani, mossi dal dolore per questa situazione, pregano ferventemente Dio per il ristabilimento dell’unità per la quale Gesù ha pregato. La sua preghiera per l’unità è un invito a tornare a lui e, conseguentemente, a riavvicinarci gli uni gli altri, rallegrandoci della nostra diversità.

Come impariamo dalla vita comunitaria, gli sforzi per la riconciliazione costano e richiedono sacrifici. Siamo sostenuti, però, dalla preghiera di Cristo che desidera che noi siamo una cosa sola, come lui è con il Padre, perché il mondo creda.

Rimanere in Cristo per produrre frutto

“La gloria del Padre mio risplende quando voi portate molto frutto” (Gv 15, 8). Non possiamo portare frutti da noi stessi. Non possiamo produrre frutto separati dalla vigna. È la linfa, la vita di Gesù che scorre in noi, che produce frutto. Rimanere nell’amore di Gesù, rimanere un tralcio della vite, è ciò che permette alla sua vita di scorrere in noi. Quando ascoltiamo Gesù, la sua vita scorre in noi; Egli ci invita a lasciare che la sua parola dimori in noi e allora qualsiasi nostra richiesta sarà esaudita. Per la sua parola portiamo frutto. Come persone, come comunità, come Chiesa desideriamo unirci a Cristo per il conservare il suo comandamento di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati.