L’Eucaristia e la bellezza di Dio (2)

L’eucaristia è la scuola dell’amore

L’eucaristia è invocazione dello Spirito Santo, che attualizza nel tempo la presenza e l’opera di Cristo.
La Chiesa invoca dal Padre il dono dello Spirito, che renda presente il Signore Gesù morto e risorto nei segni sacramentali ed estenda i benefici della riconciliazione da Lui compiuta a tutti coloro che ne partecipano e all’umanità intera per cui essi intercedono. La Chiesa sa che questa invocazione è esaudita dalla misericordia di Dio, fedele alla promessa racchiusa nel comando che Gesù ha dato di celebrare il suo memoriale. Grazie all’opera dello Spirito Santo non solo il Risorto si rende presente nei segni del pane e del vino, ma trasforma anche la comunità celebrante nel Suo Corpo presente nella storia. Perciò la Chiesa rivolge al Padre la doppia domanda: “Manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo”, e: “A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. La partecipazione all’eucaristia apre il cuore all’azione dello Spirito, aiutandoci a vivere da persone riconciliate con Dio, con se stesse e con gli altri e ad annunciare e donare agli altri la grazia della comunione che ci è stata donata. Chi si lascia guidare dallo Spirito, che il pane della vita gli trasmette, scopre la passione per l’unità del corpo di Cristo e tende a manifestarne la bellezza nella storia degli uomini. L’eucaristia è il sacramento dell’unità della Chiesa, segno e strumento della riconciliazione donata da Dio, forza per sanare ogni lacerazione e perciò sorgente e motivo dell’impegno di carità e di giustizia, al servizio dell’unità e della pace della famiglia umana. Questo impegno deve essere molto concreto e si realizza perciò anzitutto nei rapporti della vita quotidiana, a casa, sul lavoro, nella scuola: così, l’eucaristia vissuta dall’intera famiglia aiuta ciascuno a voler più bene agli altri, superando egoismi e paure; vissuta insieme a colleghi di lavoro o compagni di scuola facilita rapporti veri e belli, capaci di costruire autentici cammini di riconciliazione e di servizio ai più deboli. La santa Messa è insomma la scuola dell’amore, che nasce e si esprime nella comunione fra di noi e con Dio!

L’Eucaristia e la bellezza di Dio (1)

L’eucaristia è la sorgente della speranza

In quanto memoriale della Pasqua del Figlio, l’eucaristia rende presente il sacrificio della Croce di Gesù e si offre come il convito pasquale, nel quale si partecipa veramente al Corpo e al Sangue di Lui: Gesù morto e risorto è realmente presente nei segni del pane e del vino, così che la Santa Cena è il sacramento dell’incontro con Lui, la partecipazione al suo mistero pasquale, che ci riconcilia con Dio. Unendosi al sacrificio che Cristo ha compiuto una volta per sempre sulla Croce e che viene reso presente nel sacramento dell’altare, chi vive l’eucaristia si offre al Padre ed entra nella pace della riconciliazione compiuta da Gesù Crocifisso e Risorto. La partecipazione alla Sua Pasqua viene espressa nell’atto della comunione, in cui coloro che sono stati redenti da Lui si nutrono dell’unico pane e dell’unico calice per diventare il Suo Corpo, la Chiesa: “Chi mangia Cristo – dice Sant’Agostino – diventa Cristo!”. Perciò, la Messa è pienamente vissuta quando culmina nella comunione al Corpo e al Sangue di Gesù, alla quale ci si deve preparare mediante la conversione del cuore e la fede: una Messa senza comunione è come un’offerta d’amore rifiutata! Uniti a Cristo nella partecipazione alla sua Croce, veniamo uniti a Lui anche nella potenza della Sua resurrezione, riconciliati col Padre e con gli uomini nella comunione della Chiesa, che è il suo Corpo vivente nella storia. Nutriti del pane della vita, possiamo pregustare le gioie del Regno a venire ed anticiparne la realizzazione nel tempo del nostro pellegrinaggio terreno: la vita, alimentata dal cibo eucaristico, è protesa verso il futuro della promessa di Dio e sperimenta al tempo stesso la gioia del dono già ricevuto e la speranza nella promessa non ancora pienamente compiuta. La Messa è la scuola della speranza che vince il dolore e la morte, la speranza che non delude e che è in persona il Signore Gesù!

Martirio di S. Giovanni Battista

La festa liturgica del martirio di S. Giovanni Battista ci ricorda quando il “Precursore”, imprigionato da Erode Antipa, colpevole di adulterio, viene decapitato per volere di Salomé e la sua testa, su un bacile d’argento, portata come richiesto ad Erodiade che da tempo lo voleva morto.

La celebrazione del martirio ha origini antiche

Giovanni è il cugino di Gesù, concepito tardivamente da Zaccaria ed Elisabetta, entrambi discendenti da famiglie sacerdotali: la sua nascita è collocata circa sei mesi prima a quella di Cristo, in coerenza con l’episodio evangelico della Visitazione di Maria a Elisabetta. La data della morte, invece, avvenuta fra il 31 e il 32, si fa risalire alla dedicazione di una piccola basilica risalente al V secolo nel luogo del suo sepolcro, Sebaste di Samaria: in quel giorno, infatti, sembra sia stata ritrovata la sua testa che Papa Innocenzo II fa traslare a Roma nella chiesa di San Silvestro in Capite.

Ultimo profeta e primo apostolo

Dopo la giovinezza, Giovanni si ritira a condurre vita ascetica nel deserto. Indossa una veste di pelli di cammello e una cintura sui fianchi; si ciba solo di locuste e miele selvatico. Intorno al 28-29, durante l’impero di Tiberio, iniziano la sua vita pubblica e la sua predicazione. Si sposta, quindi, sulle rive del Giordano, nelle vicinanze di Gerico, e predica la conversione annunciando la vicinanza del regno messianico, invita alla penitenza e inizia a praticare il battesimo con acqua per purificare gli uomini dal peccato.
La sua fama si diffonde e in molti arrivano da tutte le parti del regno di Israele per ascoltarlo.

“Una lampada che arde e risplende”

Giovanni non è tenero nelle parole. Ne ha per tutti. Si scaglia spesso contro i farisei ai quali rinfaccia le loro ipocrisie, inoltre è inviso ai sacerdoti, perché con il suo battesimo perdona i peccati, rendendo inutili i sacrifici espiatori che si fanno a quell’epoca al Tempio. Ovvio, quindi, che critichi anche la condotta del re d’Israele, Erode Antipa, il figlio di quell’Erode il Grande autore della strage degli innocenti, che vive con la moglie del fratello Filippo, Erodiade, pur essendo il loro un matrimonio regolare e fecondo: una pratica contraria alla legge giudaica. Erode, dunque, imprigiona Giovanni nella fortezza di Macheronte, sul Mar Morto, ma non lo odia: parla con lui e quei discorsi lo turbano. Arriva il compleanno di Erode e durante la festa, la figlia di Erodiade, Salomé, intraprende una danza in onore del re che ne resta ammaliato e le concede di chiedergli qualunque cosa, fosse pure la metà del regno. Così il Battista muore, da martire. Non un martire della fede – perché non gli viene chiesto di rinnegarla – ma un martire della verità, sia perché non ha mai mancato di difenderla, sia perché per la Verità che è Gesù, lui è vissuto ed è morto.

S. Agostino vescovo e dottore della Chiesa

Cosa ci dice la figura di Agostino in questo momento storico segnato dalla ripartenza dopo la pandemia?
Sant’Agostino può aiutarci a vivere questo momento paradossale: usciti dal confinamento è finalmente il tempo di rientrare in noi stessi, di smettere la fuga e di tornare a casa! La sua esperienza di fede si fonda tutta su questo coraggioso passaggio dalla evasione al rientro, dal cercare fuori al ritrovare dentro. La fuga da sé per lui è finita proprio nella consapevolezza di avere in Dio un inseguitore instancabile che lo chiama e lo precede, lo avverte e lo soccorre. Per riconoscere la Sua voce e ascoltarla servono, ancora oggi, coraggio, onestà, umiltà. “Non uscir fuori da te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore. Rientrate nel vostro cuore! Dove volete andare lontani da voi?
Andando lontano vi perderete. Torna, torna al cuore”.
L’invito al viaggio della vita, quello interiore e più avventuroso di sempre, ci raggiunge nel giorno in cui si fa memoria dell’uomo, del santo che l’ha pronunciato, Agostino d’Ippona: 28 agosto.
Parole sincere, sapienti, che si stagliano nitide tra le nebulose contraddizioni di questo tempo in cui l’ambiguità delle informazioni ci ha confuso e la paura e la precarietà per il futuro ci hanno disperso.
“Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te”.
Coraggio: una delle tre virtù che il santo ci può insegnare ad esercitare ancora oggi.
Non la forza aggressiva degli eroi, ma il mite cor-agere, letteralmente l’agire del cuore.
Agostino ha avuto il coraggio di agire con il cuore, muscolo che nel mondo antico era sede dei pensieri e dell’intelligenza, della sapienza e della volontà, luogo delle decisioni e sacrario dell’anima che solo Dio scruta nel profondo. È possibile per tutti noi, figli di questo tempo, tornare al cuore – essere coraggiosi, strappando al degrado quello spazio interiore dove decidere in modo nuovo le direzioni da prendere, gli orientamenti da dare alla vita perché sia sapiente, sapida, gustosa.
Onestà: con rettitudine e franchezza Agostino ha dialogato con la sua coscienza, scegliendo di non mentire mai a sé stesso, ai suoi amici, né ai suoi nemici cercando in tutto la Verità, ammettendo ogni errore, confutando ogni menzogna senza sottrarsi a nessun confronto. La fuga da sé per lui è finita proprio nella consapevolezza di avere in Dio un inseguitore instancabile che lo chiama e lo precede, lo avverte e lo soccorre: “Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità;
diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace”. Ecco professata l’onestà di arrendersi alla Verità.
Umiltà: “filo d’erba assetato” si definisce Agostino, uomo arido mendicante la rugiada di Dio.
Questa la sua imitabile umiltà: il sapersi bisognoso dell’Altro e di altro da sé, attendendo all’opera dell’artigiano che con fatica e Grazia leviga le dure pietre del proprio cuore perché sa che solo insieme ai fratelli può costruire la cattedrale della comunione fraterna, casa sicura tenuta insieme dal cemento della Carità dove tutti hanno “un cuor solo e un’anima sola”.

Avendo vissuto il dramma della ricerca di senso e della Verità, Sant’Agostino è particolarmente vicino ai giovani di oggi. Agostino incoraggia i giovani alla ricerca, li invita a non mettere mai un punto fermo ai loro risultati, ad essere onesti di fronte alla Verità e ad accettarla una volta riconosciuta. Cercare col desiderio di trovare e trovare col desiderio di continuare a cercare.
«Puntare sempre in alto, non scoraggiarsi mai: questo è il consiglio di Sant’Agostino. Il suo motto “Canta e cammina” definisce proprio il suo modo di fare, che è un suggerimento per noi: mai essere ripiegati su sé stessi, proiettarsi sempre verso l’alto, essere sempre aperti alla trascendenza di Dio, al cuore di Dio».
Ma qual è stato il motore della conversione di Agostino?
Il grande ideale che ha toccato il cuore di Agostino e che lo stesso Agostino propone agli altri, è l’incontro con Cristo, colui che appaga i tutti desideri del cuore umano.

Il Signore bussa alla porta (3)

«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20)

Nonostante tutto, Signore Gesù, credere in te ci rende felici, ci permette di andare avanti nella vita, nonostante difficoltà e incertezze.
Con la speranza nel cuore possiamo attraversare anche le stagioni aride della solitudine e dell’angoscia, dei tanti dubbi che restano senza risposta.
Per questo noi ti ringraziamo, Signore Gesù, per la gioia che ci è donata dalla tua presenza fedele perché tu ci aggiungi in qualunque luogo ci troviamo.
Noi ti ringraziamo, Signore Gesù, per la buona novella offerta ad ognuno, da qualsiasi luogo provenga, chiunque esso sia…
È questa buona novella che guarisce la nostra debolezza. Noi ti ringraziamo, Signore Gesù, perché nulla può farti dimenticare coloro che hai chiamati alla vita, le tue creature, perché senza stancarti tu bussi alla nostra porta, perché senza sosta tu bussi alla porta del mondo!

Il Signore bussa alla porta (2)

«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20)

Possiamo anzi dire che la capacità di vivere un po’ del silenzio interiore caratterizza il vero credente e lo stacca dal mondo dell’incredulità. L’uomo che ha estromesso dai suoi pensieri, secondo i dettami della cultura dominante, il Dio vivo che di sé riempie ogni spazio, non può sopportare il silenzio. Per lui, che ritiene di vivere ai margini del nulla, il silenzio è il segno terrificante del vuoto. Ogni rumore, per quanto tormentoso e ossessivo, gli riesce più gradito; ogni parola, anche la più insipida, è liberatrice da un incubo; tutto è preferibile all’essere posti implacabilmente, quando ogni voce tace, davanti all’orrore del niente. L’uomo “nuovo”, come il Signore Gesù che all’alba saliva solitario sulle cime dei monti, aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante, dove sia possibile tendere l’orecchio e percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre. Nessuno fraintenda, però: l’uomo “vecchio”, che ha paura del silenzio, e l’uomo “nuovo” solitamente convivono, con proporzioni diverse, in ciascuno di noi.

Il Signore bussa alla porta (1)

«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20)

Se in principio c’era la Parola, è chiaro che da parte nostra, all’inizio della storia personale di salvezza ci deve essere il silenzio: il silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare.
Certo, alla Parola che si manifesta dovranno poi corrispondere le nostre parole di gratitudine, di adorazione, di supplica; ma prima c’è il silenzio.
Se, com’è avvenuto per Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, il secondo miracolo è quello di far parlare i muti, cioè di sciogliere la lingua dell’uomo terrestre ricurvo su se stesso nel canto delle meraviglie del Signore, il primo è quello di far ammutolire l’uomo ciarliero e disperso.
«La Parola zittì chiacchiere mie»: così Clemente Rebora, nobile spirito di poeta milanese dei nostri tempi, descrive con rude chiarezza gli inizi della sua conversione.

L’Eucaristia è la scuola del grazie

La celebrazione dell’eucaristia ci porta nel cuore stesso di Dio, che è Trinità d’amore, in quanto ci pone in rapporto con l’eterno Amante, il Padre, l’eterno Amato, il Figlio Gesù Cristo, venuto fra noi, e l’Amore che li unisce, lo Spirito Santo. L’azione di grazie è rivolta al Padre per tutti i suoi benefici, e si pone in piena continuità con la tradizione ebraica della benedizione rivolta a Colui che è il Santo, benedetto nei secoli: il Dio vivente. Rendere grazie a Dio significa riconoscere l’assoluto primato della Sua iniziativa d’amore, lodarLo per le meraviglie da Lui compiute nella creazione e nella redenzione, ed invocare i doni, che da Lui solo procedono e si compiranno interamente nella pienezza del Suo Regno. La Cena del Signore ci forma così a vivere tutta la nostra vita in spirito di ringraziamento, di adorazione e di offerta, aiutandoci a relazionare tutto a Dio come alla prima sorgente ed all’ultima patria ed aprendo il nostro cuore all’accoglienza del dono di grazia, che da Lui solo viene. Dove non c’è gratitudine il dono è perduto: dove si vive veramente il rendimento di grazie esso diventa pienamente fecondo. In un tempo come il nostro in cui il
benessere diffuso fa pensare che tutto ci sia dovuto e che ogni bene di cui godere sia scontato (e questo avviene diffusamente anche da noi…), imparare a ringraziare è fondamentale. Chi ringrazia, si riconosce amato. Ringraziare è bello, ringraziare è gioia: perciò chi va a Messa e la vive pienamente impara a essere più ricco di umanità e di amore, perché impara a dire grazie all’amore che gli viene dato anzitutto da Dio.
La santa Messa è la scuola del grazie, l’esercizio fecondo della gratitudine dell’amore…

Perché andare a Messa la domenica?

Fra le tante domande attorno al mistero eucaristico, ne scelgo una, che mi sembra importante per tutti: perché andare a Messa la Domenica? Implicita o esplicita, è la domanda di tanti: anzitutto di quelli che a Messa ci vanno (e speriamo sempre molti, grazie a Dio!), chi per motivazioni chiare e convinte, chi forse solo per abitudine e per rispetto delle tradizioni (e per questi capire meglio che cosa è la Messa non potrà che essere un aiuto prezioso!). La domanda è però anche di molti che a Messa non vanno o vanno solo di rado e che hanno spesso una profonda nostalgia di Dio: penso che anche loro andrebbero volentieri a Messa se solo scoprissero la bellezza del dono che in essa ci viene offerto. Questo dono è Gesù in persona, che nella Messa si offre a noi come il pastore buono e bello, che ci guida ai pascoli della vita, dove ci aspetta la bellezza senza tramonto. Chi vive veramente la Messa, grazie all’incontro con Cristo diventa anche lui un po’ alla volta più buono e più bello! Per la grande stima che porto nei vostri confronti, per il bene del nostro paese in cui viviamo, mi sembra importante parlare di questo luogo in cui si può incontrare l’amore che salva, che può trasformarci tutti in creature nuove, aiutandoci a costruire ponti d’amicizia e legami d’amore: la Messa. Di domenica in domenica essa è una grande scuola di vita, una sorgente straordinaria di luce e di bellezza, un incontro contagioso di amore. È in essa che sperimentiamo la verità della buona novella, che riscalda il cuore: “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama” (San Bernardo). È nell’appuntamento domenicale che ci scopriamo popolo di Dio, comunità unita da legami umani e spirituali forti e profondi, e possiamo imparare ad apprezzare la gioia dell’essere insieme. La Messa domenicale è veramente la festa della comunità.

Ecco perché festeggiamo la regalità della Madre di Dio (3)

Nella celebrazione della Beata Vergine Maria Regina si contempla colei che, assisa accanto al re dei secoli, splende come regina e intercede come madre.
La figura della regina madre resta in moltissime culture popolari come prototipo di solennità, signorilità, cordialità, benevolenza. La liturgia rimarca siffatta icona di Maria quale madre e regina. La liturgia legge il collegamento di Maria serva con il Signore Iddio come partecipazione alla regalità di Cristo: regalità che è servizio, perché il Signore ha portato all’umanità la salvezza, alla quale la madre di lui ha collaborato.
Il servizio di Gesù, figlio di Maria, è costato il passaggio sulla croce, accanto alla quale fu presente e partecipe la madre. La regalità di Cristo fu pagata a caro prezzo; la regalità configura Maria anche come regina addolorata.