Uno spiraglio sulla realtà della Risurrezione

La trasfigurazione è dunque l’annuncio della vita divina che Gesù possiede e che ogni cristiano riceve da Lui nella potenza dello Spirito Santo.
La spiritualità cristiana, partendo da questo brano, ha compreso la vita del credente come un processo di lenta trasformazione in Cristo, Cristo glorioso che si compirà nella risurrezione finale. Un modo di leggere questo brano di vangelo è dunque di vedervi un annuncio della risurrezione e della gloria che ci circonderà. Gesù trasfigurato e Gesù risorto sono le immagini di come saremo anche noi nella risurrezione finale.

Ma è possibile distinguere queste due immagini, scoprire che se Gesù trasfigurato annuncia Gesù risorto, parla però anche di una condizione diversa, di una gloria che precede la risurrezione finale, che fa già parte di questo mondo in cammino verso la risurrezione. Questa immagine ci interessa in modo particolare, perché non parla solo del nostro futuro, ma anche del nostro presente.
Infatti il brano della trasfigurazione, così ricco di simboli che rimandano all’AT, non parla soltanto del futuro, della vita dopo la risurrezione finale, ma
anche del presente, del nostro oggi, della nostra vita di figli di Dio nella comunità della nuova alleanza, la Chiesa. La trasfigurazione è una visione nel senso più vero del termine. I discepoli non subiscono una allucinazione, non si tratta di una costruzione simbolica della loro fantasia, né di un annuncio profetico di una condizione futura. Essi “vedono” ciò che già prima c’era, ma non erano capaci di vedere.
Gesù si mostra loro per quello che è e li rende così capaci di vedere l’invisibile. Un invisibile che lo riguarda e ci riguarda al tempo stesso.

Monte della trasfigurazione

È la domenica della Trasfigurazione perché è questo racconto, nella diversa redazione di Matteo, Marco e Luca, a caratterizzarla. In Marco esso occupa chiaramente un posto centrale e, proprio per questo, significativo.
La chiave la troviamo nella parte finale della scena, quando dalla nube esce una voce: è l’interpretazione che Dio dà a tutto l’avvenimento. Ciò che è accaduto sul monte è un’esperienza spirituale straordinaria offerta a tre discepoli: essi hanno potuto comprendere la vera identità del maestro e la meta del suo cammino. Tuttavia il suo destino ultimo non sarebbe stato il sepolcro, ma la pienezza della vita.

Qual è la buona notizia? (2)

La “buona notizia”, che in questi termini non sarebbe tale, lo è veramente: ma non perché si tratti di una legge morale, bensì perché è la presenza di Dio che ci viene incontro. La “buona notizia” è proprio la possibilità che Gesù ha portato all’uomo di “essere felice”. Il vangelo è l’annuncio di una felicità “possibile”. Dio ci ha creati perché fossimo felici, come lui, e fa di tutto per fare di noi delle persone felici. E questo, forse, l’avevamo capito, nel senso che ciascuno di noi sa perfettamente di voler essere felice, al di là di qualsiasi obiettivo particolare. È la radice della nostra persona: vogliamo, cerchiamo la felicità, è questo l’oggetto del nostro desiderio. Ma se questo obiettivo lo desideriamo proprio tutti, è segno che Dio l’ha inculcato nel nostro cuore, che Dio ha messo nel nostro animo questa ricerca di felicità, che ha messo in noi il suo “marchio”, ci ha fatti per sé. E proprio perché siamo fatti per lui, anche senza volerlo, anche senza saperlo, aneliamo a lui, tendiamo con tutte le forze a lui, cioè tendiamo alla felicità. Il problema nasce dalle strade da seguire: tutti d’accordo nel volere la felicità, ma poi ognuno va per una propria strada sul metodo da seguire per raggiungere la felicità. Così su questo punto si presentano tante proposte differenti, fondate ad esempio su proposte pubblicitarie talvolta banali, ma che comunque avvolgono la nostra esistenza sotto forma di prodotti, di situazioni, di realtà, di persone che in vari modi promettono la felicità. Qui si riassume il problema della nostra vita: siamo d’accordo che tutti vogliamo essere felici, ma come possiamo esserlo? La “buona notizia” di Gesù Cristo sta proprio nel garantirci che questo obiettivo è possibile, che non è un’illusione, a differenza di alcuni che nel corso della storia dell’umanità hanno sostenuto che la felicità non esiste e non può esistere, oppure è un desiderio di qualcosa che non c’è ancora o che non c’è più e che, di fatto, è irraggiungibile. Gesù invece è venuto non solo a garantirci che la felicità è possibile, ma a indicarcene la strada: lui stesso. In genere, non si adopera molto nel nostro linguaggio cristiano la parola “felicità”, forse perché sembra laica, profana. Essa invece merita di essere rivalutata, perché con questa parola noi intendiamo veramente la piena realizzazione della nostra vita. E Gesù Cristo è la nostra felicità: la “buona notizia” è questa, è la presenza di Gesù che dice di essere Dio garantendo per noi la possibilità di essere felici. È possibile, ci viene data, la felicità.

Qual è la buona notizia? (1)

Se dovessimo riassumere in poche frasi, o magari in una sola, il vangelo di Gesù, qual è questa buona notizia o, in altri termini, come si riassume la nostra fede cristiana? Se dovessimo spiegare in poche parole facili ad un non cristiano qual è l’elemento essenziale della nostra fede, perché crediamo nel vangelo, sapremmo dare una risposta convincente, sapremmo chiarirlo anche a noi stessi? Temo che facilmente, come essenziale, molti proporrebbero degli imperativi morali come “amare il prossimo ed amare Dio”. Credo che sia il difetto di fondo: abbiamo un’impostazione moralistica. Sembra che l’essenziale della buona notizia stia nell’imperativo del fare, ed anche nell’imperativo dell’amare, ma sempre un imperativo, sempre un discorso di azione dell’uomo: non è una buona notizia. Molte volte noi abbiamo fatto del vangelo una serie di precetti, di norme, di regole, di imperativi, come se Gesù fosse venuto a presentarci una legge perfetta, che dobbiamo impegnarci seriamente a compiere, che ci comanda di volerci bene, di non giudicare, e così via: una legge difficile, molto difficile da osservare. In questi termini, non potremmo parlare di “buona notizia”! Purtroppo, le parole che usiamo, che sarebbero quelle giuste, della “buona notizia”, vengono da noi rivestite di una struttura che genera sconcerto.

Siamo tutti fratelli? Vivere la fratellanza oggi (2)

Ci viene ricordato nel corso della messa, quando veniamo chiamati fratelli e sorelle. Lo affermiamo quando preghiamo il Padre nostro e riconosciamo che Dio è, appunto, Padre nostro, non mio o tuo. Poi la messa finisce, oppure usciamo dall’aula di catechesi, e il rischio è che queste parole diventino astratte. Perché anche questo non è un automatismo. Un conto è dire che è importante amare i propri fratelli, un conto è dare corpo alle parole, viverle, incarnarle: sulle strade della vita entrano in gioco la nostra libertà e la nostra volontà. E quando al fratello diamo un volto, la vita si complica: perché nostro fratello è il vicino, il figlio, l’amico che ci siamo scelti… ma anche il collega scorretto, il vicino dispettoso, il parrocchiano puntiglioso e, allargando l’orizzonte, il profugo che sbarca «e ruba lavoro ai nostri», il carcerato che soffre «ma in fondo gli sta bene, con quello che ha fatto», il povero che chiede l’elemosina «ma hai visto che ha un telefono più bello del mio?», la conoscente che non ci risparmia una critica dopo l’altra, «e allora la ripago con la stessa misura». La fratellanza è entusiasmante e faticosa allo stesso tempo: l’altro è colui che ci sfida a uscire da noi stessi, ci fa prendere il volo, ma è anche colui che ci disturba, ci provoca, ci turba. Più è diverso da noi, più ci spaventa: mina le nostre sicurezze, le nostre certezze. Con l’altro entriamo spesso in conflitto, fa parte della nostra umanità. Ma fa parte della nostra umanità anche lo slancio d’amore verso l’altro! Possiamo andare incontro all’altro, custodirlo, fare nostra la tensione che porta a desiderare per l’altro, chiunque esso sia, una vita degna; possiamo riconoscere in ognuno un figlio amato e perdonato, come lo è ognuno di noi. Non si tratta di obbedire ad una regola, né di considerarlo solo come proprio dovere, ma di assumerlo come uno stile di vita: si tratta del modo in cui il nostro sguardo si posa sull’altro. Perché amare i fratelli non è un compito da assolvere, è l’essenza del cristiano. Amare il prossimo e amare Dio non sono due strade diverse: amiamo Dio nel nostro prossimo, nel nostro fratello. Questa è la strada. Altrimenti Dio non lo incontriamo, non lo conosciamo, non lo frequentiamo. Non lo amiamo.

Siamo tutti fratelli? Vivere la fratellanza oggi (1)

“Ma dai, è tuo fratello!” diciamo quando invitiamo due fratelli a perdonarsi, ad andare oltre l’offesa o il torto subìto. Con questa esclamazione richiamiamo il punto d’origine del loro legame: l’amore dei genitori che li ha generati, rendendoli figli e quindi fratelli. E ci pare scontato, doveroso, che il riconoscersi in un amore originario, unito all’aver condiviso tempo, abitudini, spazi, esperienze, possa generare, a cascata, un legame di amore e perdono capace di resistere tutta la vita. Eppure tutti conosciamo
famiglie nelle quali si sono consumate fratture insanabili: fratelli e sorelle che non si parlano più, che si sono giurati vendetta, che a volte sono persino arrivati ad odiarsi. È una delle paure più grandi dei genitori, che talvolta cercano di prevenire eventuali liti predisponendo testamenti o facendo raccomandazioni: «prometteteci che vi vorrete sempre bene». Sappiamo però per esperienza che non sempre questi desideri si avverano. Non è sufficiente condividere l’origine. È necessario che, a partire dal quel punto originario, si generi un legame nuovo, una nuova alleanza nella quale ha spazio l’individualità di ognuno: i figli devono riconoscersi fratelli. Non è scontato, non è un automatismo: è una scelta che chiama in causa la libertà e la volontà di ognuno. Vale lo stesso per la fraternità che come cristiani siamo invitati ad incarnare: siamo figli amati dello stesso Padre, fratelli in Gesù; ci riconosciamo nella storia di un popolo, condividiamo la Parola e la mensa, ci è data la missione di abitare il mondo costruendo legami fraterni. Eppure, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo ammetterlo: «siamo tutti fratelli» rischia di rimanere una frase bellissima ma vuota. La pronunciamo e ci pare di sentirci meglio, l’abbiamo imparata a catechesi, dove magari abbiamo anche disegnato un girotondo di omini colorati che si tengono per mano.

Prima domenica di Quaresima

Quaresima! Ci siamo. Siamo nuovamente davanti a un dono. Quale? Beh… semplice direi: ancora una volta Dio si fa per noi strada luminosa da scegliere per vivere in pienezza. Dio ci raggiunge e ci spinge amorevolmente a ritornare verso di lui… e a farlo con tutto il cuore. Dio si offre a noi nel tempo, come vita da scegliere in ogni istante. Lui, Parola che fa vivere, ci raggiunge, vive in noi, nel nostro cuore, sulle nostre labbra e può farci vivere. Ecco cos’è la Quaresima. Un tempo in cui concentrarci più del solito per capire se questo dono lo accettiamo o meno. Un tempo in cui disarmarci più del solito per lasciarci stupire dalla presenza trasformante di Dio. Un tempo offertoci per smetterla di perdere occasioni preziose nell’incontro con lui. E allora buon cammino a tutti noi che, passo dopo passo, vogliamo arrivare alle soglie di quel sepolcro non spaventati e disorientati dagli eventi, ma pronti a lasciarci stupire da Dio e dalle sue inedite logiche di dono e di redenzione.
Questa prima domenica ci porta nel deserto, ma quello che mi piacerebbe emergesse non è tanto ciò che accade: le tentazioni, il tentatore, la risposta di Gesù… Vorrei che prima di ogni cosa potesse emergere una certezza: nel deserto Gesù è spinto dallo Spirito. È guidato da lui. E se è vero che il diavolo tenta è ancora più vero che lo Spirito non abbandona: lui guida e resta. Il deserto è il luogo in cui la vita è messa a dura prova. E quando il deserto è interiore la situazione non cambia. Eppure anche in questi deserti, per noi, come per Gesù lo Spirito non ci lascia, resta con noi e ci guida. È nel deserto che più facilmente la Parola che parla può essere ascoltata. E allora, in questa Quaresima, lasciamoci condurre dallo Spirito, perché ogni deserto in noi possa fiorire.

Quaresima…

Il tempo di Quaresima che ci apprestiamo a vivere non è come tutti gli altri. Veniamo da mesi di ferite, fatiche, solitudini, da una sorta di lungo tempo nel deserto che ha lasciato ciascuno di noi e la nostra comunità piena di cicatrici che occorrerà molto perché siano risanate completamente. Ma è proprio in queste occasioni che la liturgia, Parola ed Eucaristia, ci viene in soccorso, aiutandoci a reinterpretare ciò che abbiamo vissuto, e che alcuni di noi stanno ancora vivendo, come un’occasione. Dal rito delle Ceneri, che ci ricorda la nostra fragilità, alle tentazioni nel deserto, che aprono le domeniche quaresimali ricordandoci che Gesù ha accolto su di sé l’intera fatica del cammino umano, fino al Triduo santo e alla notte di risurrezione, questo tempo forte dell’anno è una vera e propria catechesi sull’umano alla luce del divino.

Le celebrazioni e la preghiera personale e comunitaria saranno un piccolo aiuto per tradurre l’ascolto della Parola nella nostra vita. L’orizzonte verso il quale ci muoviamo è quello della Speranza  in cui il Dio che ha sofferto con noi e per noi non smette di essere anche colui che ci consola nelle nostre fatiche.

Piccolo esercizio spirituale: nel deserto per pregare.

Il primo esercizio con cui possiamo introdurci in questa Quaresima è cercare uno spazio e un tempo ben precisi, nella nostra casa, per pregare. I giorni del lockdown ci hanno spinti, spesso, a usare i nostri spazi per una convivenza forzata, per un “deserto” obbligato. Oggi possiamo trasformare il luogo della fatica e della prova in spazio di occasione. Una volta definiti questo tempo della nostra giornata e questo spazio, ritiriamoci per una preghiera.

All’ingresso della Chiesa potrai trovare dei sussidi che possono aiutarti per questo momento quotidiano, personale o familiare di incontro con il Signore.

QUANTI DESERTI, SIGNORE, LA VITA CI FA ATTRAVERSARE…
SOLITUDINI E INCOMPRENSIONI, SOFFERENZE FISICHE E MORALI,
PAURE E DELUSIONI…
EPPURE IL DESERTO NON È MORTE:
È SPAZIO CHE TU ABITI CON LA TUA PAROLA;
È TEMPO CHE TU RIEMPI CON LA TUA PRESENZA.
E ALLORA, SIGNORE, GUIDACI!

NEI TANTI DESERTI IL TUO SPIRITO CI GUIDI, CI ACCOMPAGNI,
SOSTENGA I NOSTRI PASSI, PERCHÉ TUTTO FIORISCA IN NOI,
PERCHÉ LA VITA SBOCCI,
PERCHÉ LA NUOVA CREAZIONE GERMOGLI,
REGALANDOCI SCINTILLE DI GIOIA
CON CUI RENDERE PIÙ BELLO IL MONDO. AMEN.