Ottobre: mese missionario

Il mese di ottobre, nella Chiesa italiana, è particolarmente dedicato alla preparazione e alla celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale che ricorre sempre nella penultima domenica del mese.
Ogni anno questo appuntamento vuole alimentare la fraternità universale della Chiesa, ossia la comunione con tutte le Comunità Cristiane sparse nel mondo, oltre all’impegno di solidarietà con le Chiese di più recente formazione, con quelle che vivono nei paesi più poveri e con quelle che soffrono persecuzione.
Inoltre, dal punto di vista pastorale, il “mese missionario” diventa l’occasione per aiutare la nostra comunità cristiana e i tutti i credenti ad alimentare la propria “missione” nella Chiesa e nel mondo.
Il tema che è proposto per l’ottobre missionario di quest’anno viene a completare un percorso triennale di formazione missionaria. Per comprendere meglio il senso e il valore del tema proposto è bene ricordare la sequenza:

“Battezzati e inviati”: riscoprire la vocazione missionaria che è di tutti i battezzati (2019);
“Tessitori di Fraternità”: vivere il progetto di Gesù come discepoli che amano come Lui ha amato (2020); “Testimoni e Profeti”: annunciare il Regno di Dio, che verrà e che è già germogliato in mezzo a noi (2021).

Perché l’ottobre Mariano (1)

Per fare chiarezza, mi sembra opportuno richiamare quanto insegna San Giovanni Paolo II nella Rosarium Virginis Mariae, vedendo nel Rosario una “sintassi del Regno” : l’ enunciazione del mistero trinitario, cristologico e storico-salvifico a cui è stata associata per divina provvidenza Maria; l’ ascolto della Parola di Dio nella consapevolezza ch’ essa è data, donata per l’ oggi della Chiesa e del mondo e “per me”; il silenzio come nutrimento dell’ ascolto e della meditazione dell’ evento contemplato; la recita del Padre Nostro che, mentre innalza l’ orante verso il Padre di Cristo e il Padre di tutti nella comunione dello Spirito, anche quando tale recitazione è personale, o è compiuta in solitudine, è resa esperienza ecclesiale; la ripetizione delle dieci Ave Maria, che pone l’ orante “sull’ onda dell’ incanto di Dio: è giubilo, stupore, riconoscimento del più grande miracolo della storia”, recitazione che esprime la fede cristologica, fa ripetere il santo e salvifico nome del Redentore, declina l’ affidamento nella vita e nell’ ora della nostra morte, del discepolo di Gesù, alla materna intercessione di sua Madre; la dossologia trinitaria del Gloria è la meta della contemplazione credente, anticipazione della contemplazione escatologica che porta e pregustare come per gli Apostoli sul Tabor, la bellezza dello stare per sempre con Dio; la possibile recitazione della giaculatoria finale o la preferibile orazione a conclusione di ciascun mistero, avente lo scopo di ottenere i frutti specifici della meditazione del mistero enunciato; lo strumento  della Corona, che mentre risulta utile per conteggiare il succedersi delle salutazioni evangeliche, simboleggia plasticamente come la stessa Corona converga verso il Crocifisso, in quanto in  Cristo è incentrata ogni preghiera cristiana e, per usare la bella espressione del beato Bartolo Longo, essa può essere considerata come una “catena dolce che ci rannoda a Dio”, simbolo non ultimo del vincolo di comunione e di fraternità che lega tutti al Figlio di Dio e di Maria, vera e amabile mater viventium.
Forse saremo nella condizione non solo di “recuperare” il significato e il valore del Rosario, ma l’importanza della stessa preghiera e quindi sapere “insegnare” e fare “amare” il Rosario.

Perché l’ottobre Mariano (1)

La devozione del “mese di Ottobre” in onore della Beata Vergine Maria del Rosario è da attribuirsi al frate domenicano spagnolo p. Giuseppe Moran (+ 1884) che si fece zelante promotore presso i vescovi spagnoli di istituire nelle chiese cattedrali e nelle parrocchie tale devozione perché si affermasse il Rosario come “mezzo” di evangelizzazione per meditare gli episodi principali del Vangelo che richiamano le verità della nostra fede cristiana. Dopo la Spagna, tale devozione si diffuse anche in Francia e in Italia, tanto che Leone XIII la raccomandò nel 1883 alla Chiesa universale.
La volontà di estendere la celebrazione della preghiera del Rosario ad un mese intero nasce soprattutto dalla grande affermazione che la stessa ebbe dopo la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) ottenuta, secondo San Pio V, per l’ intercessione della Madonna invocata con il Rosario. Secondo la tradizione il Papa, diede l’ ordine di suonare le campane in segno di vittoria, prima ancora che l’esito della battaglia giungesse a Roma.

Ci sono cristiani che vedono nel Rosario una preghiera “per vecchi, ripetitiva e noiosa” e quindi da mettere da parte. E ci sono i “ferventi e veri devoti” che, rimproverano alla Chiesa di essere “poco devota” al Rosario e quindi per rilanciare il ruolo della Vergine Maria nella vita della Chiesa propongono nuove devozioni.
Bisogna conoscere e venerare la Madre di Dio, attraverso la Sacra Scrittura e le devozioni che ad essa, direttamente si richiamano. Così insegna anche il Vaticano II e il Magistero della Chiesa.

Felice chi ha la strada nel cuore

(Salmo 84)

Beato chi trova in Te la sua forza
e decide nel suo cuore il santo viaggio

Vorrei iniziare con una citazione latina che dice: «Vivere non è necessario, ma se vuoi vivere è necessario viaggiare, navigare». (Plutarco) Il viaggio, parola evocativa e di apertura, di slancio e di futuro, si declina perfettamente in questo periodo storico come esperienza e speranza.
Diventa, per la nostra comunità parrocchiale, il filo conduttore per il nostro anno pastorale:
desideriamo partire per costruire dalle macerie provocate dalla Pandemia.
Sono due i viaggi che caratterizzano i racconti all’origine della nostra cultura: il viaggio di Ulisse nella cultura ellenistica e quello di Abramo nella cultura ebraica. Per Ulisse il viaggio vero non è l’andata, ma il ritorno a casa; Abramo, invece, parte per non ritornare. Il simbolo del viaggio di Ulisse potrebbe essere il cerchio che è finito, completo, perfetto, logico; dalla parte di Abramo invece non il cerchio, ma il percorso di una freccia e dalla parte della freccia, che è quasi un simbolo della cultura ebraica, si incontrano molte partenze: quella di Abramo, quella del popolo nell’esodo, fino alla croce con le sue braccia che partono, si allungano e non sai dove arrivano.
Il cerchio e la croce, la logica contro il paradosso. Ulisse e Abramo: sono i due modi di viaggiare. Un viaggio è verso la memoria, all’indietro, un altro è verso il futuro, verso il nuovo che entusiasma ma anche un po’ spaventa per la sua incertezza. Comunque passato e futuro, memoria e speranza da tenere insieme per percorrere bene il viaggio di questo anno pastorale.
Noi tutti siamo discendenti di questi nomadi antichi, una genealogia di pellegrini e viandanti perché il viaggio, ieri come oggi, risponde ad una cosa sostanziale: alla speranza di un mondo migliore. Anche se oggi il viaggio è diventato soprattutto ludico, un vasto fenomeno di persone che si muovono per turismo, resta una delle esperienze chiave della vita individuale e collettiva perché è un’esperienza di speranza. L’esistenza stessa è una realtà in mutazione e quindi un viaggio, la chiesa è una realtà in mutazione e la vita è fedele a se stessa non quando difende ciò che ha raggiunto, ma quando muta. Così la chiesa è fedele quando muta.
Aristotele diceva: “La vita è nel movimento”. Il flusso della vita come le grandi acque, erode le sue stesse sponde, cambia corso, crea isole, si acquieta in qualche ansa e poi riprende il corso: immobile è il cadavere, senza movimento è il non-vivo.
Partiremo sapendo di dover percorre strade mai finora esplorate, vivere di tutte le attese e i sentimenti, di incognite e sorprese; a volte ci smarriremo, altre volte ci ritroveremo, ma non saremo una comunità statica, ferma e accartocciata nelle proprie sicurezze. «Errare», verbo biblico per eccellenza, custodisce dentro di sé al contempo l’errore e il viaggiare: porteremo sempre nel nostro zaino un errore che ci farà errare, ci rimetterà in cammino.

Giornata mondiale del migrante e del rifugiato

Il messaggio di papa Francesco per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato comprende un forte appello a promuovere una società più inclusiva. Per sostenere il tema “Verso un noi sempre più grande”, papa Francesco parte dall’orizzonte biblico del racconto della creazione (Gn 1,26-28) per arrivare alla rivelazione della nuova Gerusalemme (Ap 21,3), passando per la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17,20-26).
Nel ricorrere a questi testi biblici, papa Francesco ci porta a constatare che la storia della salvezza vede un noi all’inizio
e un noi alla fine, e al centro il mistero di Cristo, morto e risorto, “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). Per indicare un chiaro orizzonte per il comune cammino dell’umanità in questo mondo, il messaggio per la 107a GMMR sottolinea sei sotto temi:

1. Un noi grande come l’intera umanità;

2. Un’unica Chiesa, un’unica casa, un’unica famiglia,

3. Una Chiesa che esce all’incontro,

4. Imparare a vivere insieme,

5. Formare un noi che ha cura della casa comune e

6. Sognare come un’unica umanità.


I sei sotto temi su elencati, in verità, sono una proposta pedagogico-pastorale che deve essere approfondita e abbracciata per costruire un futuro “a colori”, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali. Nel percorso proposto, tutte le persone sono invitate a costruire ponti che favoriscono la cultura dell’incontro e a crescere nella consapevolezza dell’intima connessione che esiste tra gli esseri umani. In questa prospettiva, le migrazioni vengono presentate come occasioni privilegiate per superare le paure e arricchirsi dalla diversità del dono di ogni persona e, allo stesso modo, le frontiere vengono presentate come luoghi privilegiati di incontro, in cui può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande.

Un noi al centro del mistero di Cristo  

Si parla di un noi all’inizio (Gn 1,26-28), un noi alla fine (Ap 21,3) e al centro il mistero di Cristo morto e risorto “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). L’intenzione di Gesù non si limita al gruppo dei discepoli, ma contempla un noi molto più grande, cioè immenso come l’intera umanità “Prego non solo per questi, ma per tutti” . L’unità per la quale Gesù prega va oltre le relazioni di un gruppo ristretto, di un gruppo di buoni vicini, o di un gruppo omogeneo. Gesù prega per l’unità delle relazioni che rimangono nell’amore, nonostante le tensioni e i conflitti. L’amore è la via dell’unità verso un noi sempre più umano, perché si esprime nella pluriformità. L’amore, infatti, esige un’apertura progressiva, una grande capacità di accogliere gli altri e il coraggio di rischiare in un’avventura infinita che converge tutte le periferie verso il pieno senso della reciproca appartenenza. Attraverso l’amore, l’accettazione, il rispetto per le differenze e l’inclusione, le comunità cristiane rivelano al mondo il significato del progetto di Gesù. In Cristo c’è comunione nella diversità, perché in Lui tutti formano un unico corpo. In Dio, la comunione nella diversità, oltre ad essere un elemento costitutivo dell’identità Trinitaria, è un progetto salvifico verso un noi grande quanto l’umanità redenta. La persona umana cresce, matura si santifica mentre si relaziona, esce da se stessa per vivere un noi con Dio, con gli altri e con tutte le creature, assumendo, nella propria esistenza, quel dinamismo relazionale che Dio ha inciso nella sua vita. Nessuno si salva da solo, e questo ci invita a maturare la spiritualità della solidarietà globale verso un noi sempre più grande, più fraterno e solidale.

Un noi alla fine

Nel suo messaggio per la 107ª GMMR, papa Francesco ci ricorda l’ideale della nuova Gerusalemme in cui tutti i popoli alla fine si troveranno uniti come un grande noi, in pace e concordia per celebrare la bontà di Dio e le meraviglie del creato. Il testo biblico proposto, Ap 21,3, è parte delle visioni di un nuovo mondo, preso dal libro dell’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia. Le visioni di una nuova creazione sono già presenti nelle profezie (Is 11,5-9; 62,11, 65,17; Am 9,13-15; Za 8,3-5; 2 Pt 3,13), dunque, Giovanni vede il pieno compimento di queste profezie e la piena realizzazione dell’alleanza tra Dio e l’umanità redenta da Cristo. La Gerusalemme celeste viene introdotta con delle immagini molto familiari ai lettori della Sacra Scrittura: questa è un nuovo mondo, una nuova creazione; è la sposa fedele, pronta per il suo sposo, pronta a firmare un’alleanza eterna; ed è la tenda, la dimora di Dio con l’umanità.
La nuova Gerusalemme sarà libera dalle dominazioni, della sofferenza, del dolore e della violenza.
Dio pianterà la sua tenda in modo definitivo in mezzo al suo popolo: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio” (Ap 21,3).
Il nuovo cielo e la nuova terra della nuova Gerusalemme sono pronti per accogliere tutti i popoli e non un popolo esclusivo. La tenda di Dio è aperta ad accogliere un noi sempre più grande, un noi che abbraccia tutti i popoli, per cui nessun pellegrino, nessun migrante, nessun rifugiato sarà lasciato fuori. Con questa immagine il libro delle rivelazioni cerca di animare i suoi lettori nella speranza, nella certezza che Cristo risorto ha sconfitto il male e distrutto tutti i muri che ci dividevano. Anche se nel mondo proviamo dolore e sofferenza, questi non hanno l’ultima parola. Alla fine, la potenza di Dio trionferà e formeremo definitivamente un solo corpo, una comunità di fratelli, un noi grande destinato ad includere tutta la famiglia umana.

Un noi all’inizio (2)

Magistralmente il narratore biblico educa i suoi ascoltatori-lettori a comprendere il significato profondo dell’esistenza e della dignità dell’essere umano, sottolineando il valore della reciprocità “aiuto che corrisponde”, alla parità “è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa” e alterità con cui può interagire “faccia a faccia”. Al centro del primo noi c’è, dunque, la prima coppia umana o la famiglia, composta da esseri diversi e complementari, un noi chiamato a diventare sempre più grande e fecondo, un noi maschio e femmina, che abbraccia tutta l’umanità, che accoglie e integra la diversità. Dio ha creato l’uomo e la donna per superare l’io individualista e avviare il noi comunione, solidarietà e condivisione. L’essere umano cresce, matura e si santifica nella misura in cui si relaziona, esce da se stesso per vivere un noi con Dio, con gli altri e con tutto il creato, assumendo nella propria vita quel dinamismo relazionale che Dio ha inciso nel creato. La spiritualità della solidarietà globale va verso un noi sempre più grande, fraterno, solidale e sinodale

Un noi all’inizio (1)

L’essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio e occupa l’apice della creazione, il sesto giorno. In questo racconto tutto è positivo, il mondo creato da Dio è perfetto e fertile; tutto è buono in esso, non c’è posto per il male e il dolore. L’esercizio del potere umano non conosce la morte o lo spargimento di sangue, poiché l’alimentazione sia degli uomini che degli animali segue una dieta vegetariana, che rappresenta l’armonia, la pace e la tranquillità tra l’umano e il creato. In tutto il creato, soltanto l’essere umano riceve una particolare ed esclusiva eredità, quella di essere immagine e somiglianza di Dio, cioè dotato di intelligenza, volontà e potenza, che gli consente di entrare attivamente in relazione interpersonale con Dio e con gli altri esseri. È interessante osservare che, secondo il racconto biblico, tutti gli animali e le piante furono creati secondo la loro specie; mentre l’essere umano è creato secondo l’immagine di Dio, non ci sono specie nel genere umano, quindi, non c’è neppure una gerarchia di dignità, genere, etnia, classe sociale, lingua, colore, credo o nazionalità. Fin dall’inizio l’essere umano ha la vocazione a diventare un noi sempre più grande: “Fruttificate e moltiplicatevi, riempite la terra”; “Questa volta è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne!”, ha espresso l’essere umano quando si è trovato faccia a faccia con l’aiuto che gli corrisponde in tutta la creazione. Il riconoscimento dell’altro come simile, nel secondo racconto della creazione, è una via essenziale per raggiungere il senso della vita e l’antidoto alla solitudine, perché “non è bene che l’essere umano sia solo”.

Il Battesimo

Il Battesimo è un rito molto importante per un cristiano, sia per chi riceve il sacramento, sia per gli stessi genitori. E’ un rito religioso che segna la vita di un individuo, guidandone la salvezza spirituale, sin dalla tenera età. Per molti papà e mamme, al di là del rito che venga scelto per contrarre matrimonio, sia esso religioso o civile, la celebrazione del battesimo racchiude una valenza molto evocativa per la nuova vita cristiana del loro bambino.
Il battesimo racchiude in sé un dono prezioso custodito dalla Chiesa. Esso non rappresenta un diritto, ma qualcosa di importante che apre agli uomini la possibilità di entrare a far parte del regno dei Cieli.
La decisione, quindi, dei genitori di far battezzare il proprio figlio, rappresenta una domanda rivolta alla Chiesa, che viene simbolicamente indicata nella persona del sacerdote, che è il responsabile della comunità parrocchiale.
La Chiesa non può che accogliere con gioia una simile richiesta, sebbene abbia al contempo anche la responsabilità morale e cristiana, di valutarne la profonda motivazione che risiede nei genitori del battezzando. In seguito al rito battesimale, la Chiesa può a tutti gli effetti considerare il bambino come un catecumeno, il quale, da quel momento in poi, può godere del diritto di essere ritenuto parte della comunità ecclesiale, fruendo in tal modo dei doni di grazia, ricevendo il Corpo di Cristo.