Via Vai: le domande del cammino (c)

TAPPA 5 COSA VEDO?
Passo dopo passo, non dimentichiamoci di attivare tutti i sensi per assaporare fino in fondo l’esperienza del cammino e i luoghi che il nostro sentiero attraversa: la natura incontaminata, i campi coltivati, le strade animate di una città, il cielo che cambia colore, il mondo sotto un tombino, le zone degradate nei quartieri. Probabilmente i nostri occhi saranno i più sovraccaricati di stimoli, ma se lasciamo le cuffie nello zaino, anche le orecchie possono allenarsi ad un ascolto autentico. L’olfatto potrà essere raggiunto da profumi di prelibatezze culinarie, anche sconosciute, così come da odori poco gradevoli a ricordarci di un creato da salvaguardare.
Ultimo ma non meno importante, entriamo in contatto perché il mondo diventi sempre più casa, quel giardino affidatoci da custodire e coltivare.


TAPPA 6 QUANTO MANCA?
E quando ciò che sperimentiamo è troppo? Quando ci sentiamo sopraffatti e stanchi per il cammino?! Nasce spontanea una domanda: quanto manca? È la domanda dei meno atletici quando si va in gita in montagna oppure dei più piccoli quando ci si mette in viaggio, magari sul pullman. Potrebbe essere impazienza di arrivare alla meta perché le forze sono finite o perché non si vede l’ora di vivere l’esperienza. A volte possiamo sentirla come una domanda fastidiosa, ma lungo un cammino a piedi è sicuramente preziosa: è occasione per fare i conti con i propri limiti, per riprendere in mano la cartina e accertarsi di non essersi perdersi, per comprendere come affrontiamo la fatica, per riscoprire il valore del tempo e dell’attesa. Forse anche il popolo di Israele avrà rivolto spesso questa domanda a Mosè mentre attraversavano il deserto, la terra era stata promessa, ma il cammino si apriva camminando.

Pietro e Paolo: voci diverse per dire lo stesso amore

Non c’è un unico modo per essere santi, la Chiesa è fatta di molti riverberi che nascono dalla sola vera domanda: “Chi dite che io sia?

Il 29 giugno la Liturgia ci fa festeggiare i Santi Apostoli Pietro e Paolo. Umanamente erano persone con caratteri molto diversi tra di loro e qualche volta per questo si sono create anche delle tensioni. La Parola di Dio ci racconta anche queste cose per togliere da noi quella finta credenza che i santi sono tutti sorrisi e abbracci, quando invece sono uomini come noi che hanno lottato anche con se stessi per cercare di amare nel migliore dei modi nonostante i loro caratteri non sempre impeccabili. Il vangelo che narra l’episodio avvenuto a Cesarea di Filippo ci dice qual è il passaggio che segna il cambiamento vero nella nostra vita. Gesù sta interrogando i discepoli su ciò che pensa la gente su di Lui. Non è un sondaggio, è una strategia. Vuole portare i suoi discepoli a un rapporto personale con Lui senza passare attraverso i “sentito dire” degli altri. Perché anche senza accorgercene tutti rischiamo di essere più discepoli di quello che dice la gente che di quello che vogliamo davvero noi. Qui il problema non è solo dire chi è Cristo, ma è dire chi è Cristo per me. E per rispondere a questa domanda ciascuno deve guardare il proprio cuore e non i vicini di casa. Troppe scelte nella vita le facciamo lasciandoci condizionare dal chiacchiericcio degli altri, quando invece dobbiamo imparare a farle ascoltando noi stessi. È lì che Dio parla: “né la carne, né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. La cosa straordinaria però dei santi sta nel fatto che se la domanda è la medesima, la risposta invece è personale.
Cioè ognuno risponde a questa domanda di Cristo mettendo in gioco se stesso, trovando in se stesso l’alfabeto per dire la medesima cosa di Pietro. È così che si spiega il fatto che nella Chiesa e nella storia non c’è un unico modo di essere santi. È per questo che le modalità diverse di rispondere creano ricchezza, arricchimento e non monotonia e uniformità.
Ecco perché festeggiamo Pietro e Paolo insieme, perché la loro diversità dice però la medesima risposta. Tanti alfabeti per dire: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.

Per troppo tempo una certa vulgata ha voluto vedere in Pietro e Paolo gli Apostoli degli opposti, una sorta di diversità tenuta insieme dall’evento cristiano, un miracolo di convivenza ecclesiale più immaginato che realizzato. La verità è che non siamo particolarmente aiutati nemmeno dai racconti degli Atti degli Apostoli e dalle Lettere che registrano solo tre episodi in cui troviamo queste due colonne della Chiesa effettivamente insieme. Il loro accostamento è più frutto della sensibilità dei credenti in tempi successivi che delle loro semplici biografie. Credo però che sia giusto dire che Pietro e Paolo non si debbano mai considerare l’uno contro l’altro, né semplicemente l’uno accanto all’altro, ma bensì bisogna imparare a considerarli l’uno difronte l’altro. È la postura della comunione. Essa non nasce semplicemente dall’avere dei valori condivisi o degli obiettivi a cui tendere. Nella comunione la meta è sempre visibile nel volto del prossimo, del fratello, della sorella. Un cristiano legge il mondo a partire dal volto di chi ha di fronte a sé. 
Ecco perché se in maniera evocativa vogliamo mettere Pietro e Paolo vicini, dovremmo trovare il coraggio di metterli l’uno difronte al volto dell’altro. La comunione è la capacità di guardarsi negli occhi e di credere con forza che solo in quello sguardo si riesce a capire la strada. La sinodalità, in questo senso, nasce esattamente da questa consapevolezza.
Non è trovare semplicemente argomenti condivisi ma educarsi a guardare la realtà sentendo l’esigenza del volto, l’urgenza dell’incontro, il desiderio del cuore. Quando pensiamo a Pietro e Paolo pensiamo quindi a una festa che ci ricorda l’ardente desiderio di comunione che rende la Chiesa ciò che è, e ciò che deve sempre diventare.

Via Vai: le domande del cammino (b)

TAPPA 3 COSA PORTO?
La meta e l’itinerario scelti condizionano l’equipaggiamento necessario: preparare il bagaglio chiede cura ed attenzione perché occorre fare delle scelte. È importante ponderare bene che cosa serve perché il peso è da portare tutto sulle proprie spalle, passo dopo passo: la parola d’ordine di questa tappa è essenzialità! Ed essere essenziali nel cammino, come nella vita, è un’arte da affinare, un allenamento per coraggiosi perché si tratta di togliere, di lavorare per sottrazione.
Fare lo zaino è metafora della vita che ti costringe a discernere, per scegliere ciò che merita davvero il tuo spazio e la tua fatica/energie. Il Vangelo di Marco ci invita a prendere un bastone, calzare sandali e non portare due tuniche. Se il bagaglio indica l’uomo, allora chi siamo noi?
Dimmi cosa porti e ti dirò chi sei! Cosa è fondamentale alla mia vita sempre in cammino?


TAPPA 4 CON CHI CAMMINO?
Alziamo lo sguardo e guardiamoci attorno per riconoscere e cercare le guide e i compagni del nostro cammino. Potremmo anche decidere di muoverci in solitaria nella nostra ricerca di noi stessi, di conoscenza del mondo, di incontro con gli altri e con Dio, ma ciò non significa essere soli. La guida e la compagnia possono essere concretamente accanto a noi, o anche e seguire il nostro cammino, da casa. Nuovi compagni si possono conoscere strada facendo, le porte di nuove case e di nuove famiglie si possono aprire per noi, le tavole di altri possono diventare le nostre.
E potrebbe essere come per i discepoli di Emmaus, che l’Infinito si faccia compagno di viaggio al nostro fianco.

Via Vai: le domande del cammino (a)

TAPPA 1 COSA CERCO?
Bussola alla mano, il cammino inizia senza alcun passo fisico, ma con un moto interiore, un desiderio che ci anima da dentro a cercare qualcosa che abbia senso nella nostra vita, che risponda alle domande che ci abitano. L’ago della bussola si muove nella ricerca del nostro nord, della motivazione più profonda che si fa chiamata a mettersi in cammino. La domanda-guida è l’eco di quel “Che cercate?” che Gesù fa ai primi discepoli nel Vangelo di Giovanni, le prime parole che si sentono rivolgere e che danno vita al loro cammino. Nulla era chiaro, ma qualcosa li aveva mossi dentro. Questa è la tappa per scoprire cosa muove ciascuno di noi, cosa ci mette in movimento e ci fa desiderare di partire. Attenzione a non pensare di aver risposto una volta per sempre, lungo il cammino ritorneremo spesso su questa domanda di senso perché, passo dopo passo, l’orientamento è costantemente da ritrovare.

TAPPA 2 DOVE VADO?
Mossi da un desiderio e decisi a camminare, tocca ora scegliere la meta e decidere la direzione per poterla raggiungere. Fondamentale è non avere fretta e dedicare tutto il tempo necessario alla preparazione dell’itinerario, allo studio del percorso: è il momento di inventare la strada, nella consapevolezza che occorre rimanere attenti e creativi a ciò che si incontrerà per via. Questo è il tempo di appassionarsi al cammino che ci aspetta, ai luoghi che attraverseremo e nei quali potremmo decidere di fermarci, agli incontri che potremmo fare e che desideriamo far accadere.
Gesù aveva ben chiara la sua direzione e il suo percorso verso Gerusalemme, libero di vivere ogni incontro e aperto all’imprevisto.

Estate… tempo per lo Spirito!

“Venite in disparte e riposatevi un po’ “, disse un giorno Gesù ai suoi discepoli. È la parola che ripete oggi, perché abbiamo bisogno di un po’ di vacanza. Tutti abbiamo bisogno di un periodo per disporre del nostro tempo e delle nostre scelte; abbiamo bisogno di un po’ di vacanza per riordinare la nostra vita e verificare quali sono i nostri veri interessi. La vacanza è un tempo utile per recuperare i valori evangelici del silenzio, della riflessione, della preghiera e della contemplazione.
Valori necessari alla nostra ‘umanità’: nel silenzio riusciamo a percepire la voce di Dio e le voci più significative della storia umana e della nostra storia personale; nella riflessione possiamo vincere le tentazioni mondane, la nostra superficialità e ritrovare il nostro ‘io’; nella preghiera incontriamo il Signore, fonte e meta della nostra vita e da lui riceviamo forza e stimolo per il cammino quotidiano che si snoda tra giorni di luce e giorni di buio, tra sofferenze e gioie; nella contemplazione sperimentiamo l’infinita bellezza di Dio e gustiamo la vera gioia, quella della sua presenza in noi.

Vacanza è tempo per il Signore e per noi: tante volte ci si lamenta perché in questa nostra vita frenetica non si riesce più a fermarsi per pregare e dedicare momenti al Signore.  Le vacanze possono essere l’occasione per ravvivare l’amicizia con Dio. Proprio ora, in quanto più liberi dovremmo dare più spazio a Dio perché riempia della sua presenza anche i momenti passati e li illumini.
Il tempo del riposo è allora occasione speciale per incontrare Dio, per lodare, per ringraziare; è rendersi conto della presenza di Dio tra noi, presenza costante ma che ci sfugge perché pensiamo ad altro.
Il tempo estivo può aiutarci a recuperare il senso della nostra vita e l’importanza delle relazioni.
Vacanza è tempo libero: non obbligato da impegni e responsabilità ma non tempo vuoto.
Il tempo libero è il tempo che dedico a ciò che mi dà gioia.
Vacanza è tempo per le persone care: quante volte ci si intravede appena per un fugace pasto e sembra che la famiglia serva solo per rispondere ai problemi di sopravvivenza.
La vacanza può e deve essere tempo per la famiglia, per regalarsi del tempo e condividere momenti che fanno diventare l’altro importante per me.
Vacanza è tempo per l’amicizia: scuola, lavoro ci portano a non aver tempo di andare a trovare persone che hanno condiviso una stagione di vita con noi e poi la storia ci ha portato lontane.
La vacanza può essere occasione per ritrovarsi e rinnovare l’amicizia che non si è interrotta ma si è fermata.

Vacanza è tempo per la mente: Non solo il corpo ha bisogno di attenzioni ma anche la nostra mente per non ridursi ad essere persone che si lasciano condizionare da chi ha qualche strumento culturale in più e ci può abbindolare per i suoi scopi. Il tempo libero può essere occasione della lettura di un buon libro. Non accontentiamoci delle proposte che promettono solo disimpegno ma cogliamo l’occasione di questo bel tempo estivo per fare il pieno di esperienze grandi che fanno bene e danno gioia a tutto noi stessi. In questa estate, la vacanza sia ritrovare Dio e farci prossimi a tanti nostri fratelli con l’affetto e la solidarietà

Le dinamiche del viaggio

Il cammino inizia non quando si pare, ma quando si decide di farlo, con il sorgere delle intenzioni, delle motivazioni e del desiderio. Fondamentale è la preparazione. Ogni volta che si parte per il cammino
occorre investire del tempo sulla preparazione dello zaino perché, facendolo, si prende atto di una realtà spesso dimenticata nella vita quotidiana. Ciò che ci arricchisce è spesso anche ciò che ci appesantisce.
La vita cristiana chiede di ricalibrare continuamente in modo sapiente il rapporto dinamico tra possesso e libertà, affinché non venga a mancare quello che realmente serve, ma anche con l’attenzione a non farsi
appesantire da ciò che è inutile. Il preparare lo zaino rappresenta perciò una vera e propria arte, del resto l’arte di camminare è togliere, togliere peso ai pensieri e liberarci dalla zavorra che ci devi alla vita di tutti
i giorni. E così andare più liberi. Camminare è lavorare per sottrazione. È l’arte di scegliere, di selezionare tra i mille oggetti, quei pochi che saranno fondamentali. Il pellegrino lascia a casa il superfluo per mettere nel suo zaino, solo lo stato necessario e così impara a dare il giusto valore alle cose.
Molti durante il cammino lo alleggeriranno ulteriormente, donando o rispedendo indietro ciò che di troppo. La strada porta a tendere all’indispensabile che alla fine si riduce a poco. Un cammino di lunga durata
richiede di operare in fretta le scelte che si impongono e in questo forse consiste in profondità la natura del cammino, lenta spoliazione per raggiungere gradualmente l’essenziale, che è interiore e indicibile.
Altra dinamica è quella della necessità di esporsi, perché sulla strada sei esposto, tutti ti possono incontrare, sei esposto alle intemperie, al sole, alla pioggia. Sei esposto all’altro: il cammino è l’esperienza dell’altro a bruciapelo. Chi ha fatto almeno un cammino a piedi, quelle cose le può capire molto facilmente, così come chi lo vivrà questa estate.

E poi arriviamo al cammino. Camminare è la nostra educazione e la nostra esperienza. Perché l’immobilità è la fine dell’una e dell’altra. L’incedere non è forse l’espressione più alta della novità della natura umana? La figura dritta, signora di sé stessa, che si porta da sola, calma e sicura, codesta figura rimane un privilegio riservato all’uomo. Camminare eretti significa essere uomini. Sollevarci su due piedi è la nostra prima impresa, lì vi inizia il nostro cammino nel mondo. E più crescerà in noi il gusto e la voglia di andare a piedi, più le nostre gambe ci sosterranno, saranno le nostre fidate e complici compagne di viaggio, permettendoci di rispondere alla domanda fatidica di ogni ritorno e che Baudelaire, in una struggente poesia dedicata al viaggio, ai viaggiatori dice così: vogliamo viaggiare senza vapore e senza velo e alla fine dite che cosa avete visto camminare? E l’affermazione più diretta ed esplicita della nostra irriducibile condizione di essere umani in un mondo sovrastato dalla tecnica.

La mancanza di attività fisica predispone l’uomo a diverse patologie, il movimento fisico rappresenta una medicina per il corpo ancora prima che un aiuto per l’anima. In diverse epoche scuole, molti illustri pensatori hanno riconosciuto la potente potenzialità del cammino e hanno sviluppato una filosofia del camminare. È stato scritto sul cammino che “la marcia è un momento ideale per esercitare il pensiero, non dimentichiamo le tranquille passeggiate di Socrate, le cui lezioni applicavano spesso la deambulazione in compagnia dei discepoli, il cui ragionamento si sviluppava a ritmo rilassato dei passi. La pedagogia è anche pedestre, la filosofia è peripatetica, un mondo a misura del corpo dell’uomo è un mondo in cui l’esultanza del pensare si esplica nella trasparenza del tempo e dei passi”. Camminare ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee, diceva Rousseau. E aggiunge, quando sto fermo riesco, a malapena a pensare. Bisogna che il corpo sia in movimento perché entro nel movimento anche con il mio spirito, diceva Kierkegaard che scrive a Gesù e gli dice è camminando che ha avuto i pensieri più fecondi e non conosce pensieri così grevi che la marcia non possa dissolvere. Un altro autore, rileggendo l’esperienza del cammino del contesto culturale contemporaneo, parla addirittura del cammino come un gesto sovversivo in quanto coglie della natura odierna la tendenza a fare di tutto perché le persone siano sedute il più possibile su una sedia.

San Luigi Gonzaga, protettore dei giovani

Il discernimento di Luigi, ci mostra come fin dalla prima adolescenza sia stato in grado di ascoltare la voce dello Spirito e di lasciarsene guidare. Una intensa vita di preghiera lo rese sempre più unito a Dio: il discernimento e l’ascolto dello Spirito non lo hanno portato solo a una scelta puntuale per quanto importante, ma sono divenuti in lui uno stile di vita, per “cercare e trovare” la volontà di Dio ogni giorno e sempre meglio.
Luigi Gonzaga aveva offerto se stesso a Dio con integrità di cuore, e nel pieno della sua giovinezza non risparmiò fatiche, seppe rischiare e curando i malati perse la vita. Il suo esempio e la sua
intercessione aiutino le giovani generazioni a concepire la vita come servizio e gustare la verità della Parola del Signore che afferma: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere».

Via Vai: antropologia del cammino

Il cammino e il pellegrinaggio anzitutto hanno il vantaggio di essere un’esperienza. Ora noi molto spesso, anche nei nostri percorsi proponiamo delle teorie, non delle esperienze. La teoria è una cosa buona quando è capace di interpretare un’esperienza: mi piace che il sapere faccia vivere, che sia capace di coltivare.
Noi dobbiamo coltivare un’intelligenza che non sia un’astrazione teorica, ma sia la capacità di dimorare meglio nell’esistenza. In questo senso, il cammino ha un vantaggio estremo che assume la concretezza della vita e assume, anche quando diventa pellegrinaggio, la concretezza di un’esperienza, di un metodo
di ricerca: il cammino, il pellegrinaggio è quella forma di ricerca che usa come metodo l’esperienza.
L’atteggiamento disincantato, e scettico e anche un po’ annoiato. Fatto tipico della ricerca meramente intellettuale è agli antipodi dello stupore dei pellegrini, atteggiamento che rivela un’apertura reale della persona ad accorgersi di ciò che accade. L’esperienza del cammino è così concreta e così importante nella vita dell’umanità, perché il salto evolutivo del genere umano diventato capace di elaborare logica e sentimento coincise con il raggiungimento della stazione eretta e della capacità di camminare con due gambe.
L’ominide era in se stesso, guardava la terra, l’homo sapiens guardava avanti a sé e sfruttava il cielo.
Perché l’esperienza è il metodo più coperto di ricerca e dunque il cammino e il pellegrinaggio sono un metodo certamente corretto di ricerca. L’esperienza è un metodo corretto di ricerca perché non esclude nulla di ciò che siamo, solo alla ricerca, tramite esperienza consente di rispettare l’unità della persona.
Devo cercare tutto intero, non solo intellettualmente. C’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nell’idea che si possa giungere alla verità solo attraverso un percorso individuale e mentale.
Sarebbe corretta la ricerca intellettuale forse se fossimo sfere pulsanti di energia che volano nell’aria.
Siamo invece il mistero che siamo spiriti incarnati. Siamo persone. Questo richiede di partire anzitutto dal corpo e non possiamo non citare la dinamica dei sensi esteriori come promettente per la spiritualità di oggi.

Il tema del cammino è legato anche al tema del ripensare il tempo e quindi soprattutto al tema della lentezza. Oggi si parla tanto dell’ecologia nello spazio, ma forse è più urgente è l’ecologia del tempo che ci permette di uscire da quell’idea della fruizione vorace del tempo. Tornare a un tempo che sia umano, lento, capace di vivere l’istante. Noi viviamo nell’epoca del fast e del click. Il cammino porta un’altra esperienza del tempo: ad esempio qualcuno va quasi settimanalmente a Roma per delle riunioni, facendo 600 km in aereo in 45 minuti. E poi se si fa il cammino di Santiago ci si accorge che si fanno 5 km all’ora ed è un’esperienza di grande purificazione. C’è un rapporto molto vero tra la lentezza e il ricordo: la lentezza permette i processi di sedimentazione. Quando camminiamo, se camminiamo più veloci del nostro ritmo naturale non riusciamo a pensare, ognuno deve trovare proprio il suo ritmo. La velocità è legata quasi sempre all’oblio. Pensiamo anche allo spazio: cosa vuol dire per il pellegrino vivere uno spazio?
La riappropriazione dello spazio nel cammino avviene in modo paradossale, non attraverso il prenderne possesso, l’abitare è un’altra dinamica di stabilità nello spazio. Il cammino, invece, lascia la sicurezza dello spazio abituale che rischia di diventare una tana o un nido. La casa conferisce sicurezza, ma può anche in qualche modo limitare, pure inconsciamente e involontariamente, la nostra libertà. Per questo il pellegrino sceglie di abitare nello spazio, non attraverso la modalità della sedentarietà, ma secondo la più audace logica della mobilità. Ciò che lo muove non è anzitutto il prurito di sperimentare nuovi spazi, ma il desiderio di instaurare un rapporto nuovo, più libero e più umano con lo spazio. Per questo il pellegrino non cambia semplicemente luogo, ma più radicalmente cambia prospettiva, mediante la quale fa esperienza dei luoghi. C’è un’unica meta, ma ci sono molte vie. C’è un fascio di strade che va in una direzione, in una direttrice principale. La meta è unica, ma le strade possono essere molte.
E poi pensiamo alla dinamica dell’interiorità: a volte la tentazione del cammino è quella di fuggire.
Il cammino autentico, il pellegrinaggio prevede anche un ritorno.

L’impazienza non è evangelica (3)

D’altronde viviamo in un contesto in cui tutto deve essere a portata di mano. Il nostri smartphone ci consentono un accesso immediato a informazioni di ogni tipo, favoriscono acquisti di ogni genere, forniscono film a piacimento. Si è seccati quando il nostro telefono fatica ad avere un segnale, ci si sente ansiosi quando dobbiamo aspettare che i risultati della ricerca si carichino sullo schermo, ci irritiamo quando Google Maps mette troppo tempo a reindirizzare il nostro viaggio.
In una parola: la pazienza non solo non è più una virtù ma è considerata uno spreco di tempo, screditata. Eppure senza la pazienza non si è in grado di fare un passo lungo, di governare i nostri sentimenti, di attendere il momento giusto, di avere relazioni buone e durature. La pazienza aiuta a vivere bene, senza fretta, senza ansia, senza illusioni, senza causare danni a noi e agli altri. Garantisce la capacità di attendere, di aspettare, di non perdere la speranza, di perseverare con fiducia.

L’impazienza non è evangelica (2)

È doveroso interrogarsi se sia possibile soprattutto per i più giovani aver fiducia nel futuro. Sembra infatti che risulti molto difficile impegnarsi in una scelta precisa e coerente per “qualcosa” che può essere colta solo con la fatica, con l’impegno, con la fiducia, con i tempi lunghi. Per molti giovani – ma vale un po’ per tutti – appare troppo difficile guardare avanti e collocare le scelte personali in una prospettiva temporale a lungo periodo. Occorre infatti esercitare la pazienza, che viene però considerata una perdita di tempo, un’anticaglia. Sembra che oggi non sia possibile permetterci la pazienza, la virtù più incompresa e inattuale. Anche perché l’opinione diffusa confonde la pazienza con l’inerzia, con un compromesso al ribasso o, peggio, con una sconfitta, una resa passiva ai fatti che accadono. Mentre l’impazienza, magari dimostrata con parole dure e con gesti di collera, viene intesa come una risposta pronta e risoluta, un segno di forza, di determinazione del carattere.