L’uomo è uno splendido attore. Il dramma che recita è vivere secondo quello che gli altri si aspettano da lui e non secondo ciò che è in grado di compiere realmente la sua storia, ovvero la verità.
Il problema è che l’altro attende da noi sempre qualcosa di diverso da ciò che siamo; questo comporta inevitabilmente dare e manifestare sempre quello che non abbiamo e che, alla fine, non siamo.
La questione sarà sempre apparire agli altri perfetti, non macchiati da limiti o fragilità, ovvero vivere attraverso quelle performance che essi s’aspettano da noi e che ci rendono ben accetti, ben voluti. Amati.
Ma non si può vivere una vita così; non si può resistere in un continuo sforzo di mostrarsi adatti, performanti, perfetti, per rassicurare gli altri al fine di far loro piacere.
Il dramma per noi cristiani è il desiderio d’essere performanti anche dinanzi a Dio.
Abbiamo fatto del cristianesimo la religione del “tendere alla perfezionismo morale” – confondendolo con la santità – come se fosse l’unica condizione per ottenere l’amore di Dio e i suoi doni. Ma l’unico dono che Dio potrà concedermi non sarà altro che se stesso, ovvero: Amore, perdono e misericordia.
E tutto questo potrà donarmelo solo quando mi riconoscerò necessitante di amore, peccatore e misero.
La salvezza per noi giungerà non quando avremo sconfitto le nostre miserie, ma quando cominceremo a vivere nella verità di noi stessi, ad accettarci cioè con le nostre fragilità.
Noi siamo le nostre imperfezioni, le nostre ferite, i nostri peccati. Noi siamo altro, anche se magari lo desideriamo, anche se ci nascondiamo dietro a delle maschere e recitiamo copioni che non ci competono.
Il Vangelo è una scuola di realismo. Gesù è venuto a toglierci le maschere di teatranti, perché siamo finalmente liberi di essere noi stessi, a costo di apparire inadatti e folli agli occhi del mondo.
Occorre restituire alle nostre ferite il diritto di cittadinanza!
Il rapporto con noi stessi e la nostra vita quotidiana (sociale, familiare, relazionale) diverranno paradisiaci” quando riusciremo ad accoglierci ed amarci non malgrado, ma attraverso tutte le nostre ferite e le nostre debolezze.
Una comunità – sia essa civile, familiare, religiosa – è un paradiso non se tutti sono perfetti e non ci sono tensioni, bensì quando ciascuno può vivere la libertà di abbassare la maschera perché si sente accettato
e amato così com’è; quando i limiti, peccati, ferite e tradimenti non sono più occasioni di divisione e maledizioni, ma luoghi dove potersi amare e perdonare.