VII Congresso Eucaristico Diocesano

Siamo entrati nell’ultima fase di preparazione al VII Congresso Eucaristico Diocesano.
Per la buona riuscita della Celebrazione del 30 settembre alle ore 16.00, in piazza Duomo, Lodi, ecco alcune indicazioni.

  • Entro il 16 settembre ad ogni parrocchia è cordialmente richiesto di indicare il numero dei partecipanti. Per poterci organizzare (magari con un pullman qualora il numero fosse elevato) chi fosse interessato dia adesione a don Giuseppe entro i primi di settembre.
  • Sono invitati i ragazzi e le ragazze della Prima Comunione (possibilmente indossando la tunica bianca) e i Cresimati accompagnati dai loro catechisti che occuperanno un settore riservato.
  • Al termine della celebrazione si terrà il Mandato dei catechisti e degli educatori. Ad essi sarà riservato un settore.

Alla prova dei fatti

La nostra speranza, Gesù, è fondata su fatti, non su chimere.
È un fatto la prova d’amore che tu ci hai offerto diventando un uomo come noi e accettando i rischi connessi con questa scelta coraggiosa. È un fatto il dono della tua vita sacrificata fino in fondo per la salvezza dell’umanità, quando hai accettato di essere inchiodato a una croce e di versare il tuo sangue per suggellare un’alleanza eterna. È un fatto la tua risurrezione, che sorprende i discepoli e le donne e sconcerta perché inaspettata, tanto da sconvolgere coloro che ricevono l’annuncio della Pasqua.
E sono fatti tutti i gesti di servizio e di generosità, di altruismo e di condivisione, di giustizia e di perdono che costellano la storia della nostra comunità cristiana.
Storia in cui non mancano le ombre ma anche sorgenti luminose che continuano a irradiare la nostra vita individuale e collettiva.

Dalla negazione del limite a una vita inautentica

L’uomo è uno splendido attore. Il dramma che recita è vivere secondo quello che gli altri si aspettano da lui e non secondo ciò che è in grado di compiere realmente la sua storia, ovvero la verità.
Il problema è che l’altro attende da noi sempre qualcosa di diverso da ciò che siamo; questo comporta inevitabilmente dare e manifestare sempre quello che non abbiamo e che, alla fine, non siamo.
La questione sarà sempre apparire agli altri perfetti, non macchiati da limiti o fragilità, ovvero vivere attraverso quelle performance che essi s’aspettano da noi e che ci rendono ben accetti, ben voluti. Amati.
Ma non si può vivere una vita così; non si può resistere in un continuo sforzo di mostrarsi adatti, performanti, perfetti, per rassicurare gli altri al fine di far loro piacere.
Il dramma per noi cristiani è il desiderio d’essere performanti anche dinanzi a Dio.
Abbiamo fatto del cristianesimo la religione del “tendere alla perfezionismo morale” – confondendolo con la santità – come se fosse l’unica condizione per ottenere l’amore di Dio e i suoi doni. Ma l’unico dono che Dio potrà concedermi non sarà altro che se stesso, ovvero: Amore, perdono e misericordia.
E tutto questo potrà donarmelo solo quando mi riconoscerò necessitante di amore, peccatore e misero.
La salvezza per noi giungerà non quando avremo sconfitto le nostre miserie, ma quando cominceremo a vivere nella verità di noi stessi, ad accettarci cioè con le nostre fragilità.
Noi siamo le nostre imperfezioni, le nostre ferite, i nostri peccati. Noi siamo altro, anche se magari lo desideriamo, anche se ci nascondiamo dietro a delle maschere e recitiamo copioni che non ci competono.
Il Vangelo è una scuola di realismo. Gesù è venuto a toglierci le maschere di teatranti, perché siamo finalmente liberi di essere noi stessi, a costo di apparire inadatti e folli agli occhi del mondo.

Occorre restituire alle nostre ferite il diritto di cittadinanza!
Il rapporto con noi stessi e la nostra vita quotidiana (sociale, familiare, relazionale) diverranno paradisiaci” quando riusciremo ad accoglierci ed amarci non malgrado, ma attraverso tutte le nostre ferite e le nostre debolezze.
Una comunità – sia essa civile, familiare, religiosa – è un paradiso non se tutti sono perfetti e non ci sono tensioni, bensì quando ciascuno può vivere la libertà di abbassare la maschera perché si sente accettato
e amato così com’è; quando i limiti, peccati, ferite e tradimenti non sono più occasioni di divisione e maledizioni, ma luoghi dove potersi amare e perdonare.

Riconciliarci con il limite

Dobbiamo recuperare la realtà del limite e riconciliarci con essa.
Noi esistiamo solo in quanto limitati. Siamo nati e moriremo, per cui siamo limitati nel tempo.
Abbiamo un corpo i cui contorni definiscono il nostro confine col mondo circostante, e questo ci dice che siamo limitati nello spazio. Vorremmo essere capaci di amare di più, relazionarci in modo differente, ma ogni giorno facciamo la dura esperienza di “essere fatti così” (ciascuno ha la sua storia, la sua struttura psicologica, il suo carattere, le sue malattie interiori …): siamo limitati nell’amore.
Per non parlare del limite dell’altro, che in quanto altro da noi non ci permette di essere quello che vorremmo, per cui lo percepiamo come limitante. L’alterità quando fa paura, assume il nome di nemico. E il nemico va sempre combattuto e possibilmente distrutto.
Etimologicamente, eliminare vuol dire cacciare (e- privativo) dalla soglia (limen – liminis): buttare fuori casa, dalla propria storia, l’altro che non ci permette di essere ciò che vorremmo, realizzando il nostro essere illimitati.
L’esperienza del limite impostoci dall’altro, per cui percepiamo il tu come realtà offensiva alla nostra libertà, al nostro avere ragione, alle nostre idee, al nostro successo, al nostro essere “i primi”, se non gli unici. Noi intendiamo il limite in maniera perlopiù negativa: esso rappresenta per noi costrizione, impedimento, soffocamento. Il limite e tutto ciò che ha il sapore di limitante suona come coercizione (costrizione) e quindi come totalmente negativo: richiama dipendenza, inferiorità, mancanza, quindi qualcosa da cui liberarsi al più presto.
Oggi tutto deve essere off-limits, dalla ricerca scientifica allo sport, passando per ogni aspetto del quotidiano: i contratti sono annullabili, le relazioni di lavoro effimere e sostituibili, la parola data e la promessa fatta sono irrilevanti; è superato anche il limite della vergogna, per cui il reo non ha più bisogno di pentirsi o di scusarsi.

Siamo germogli di luce nel mondo

L’Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo è l’icona del nostro futuro, anticipazione di un comune destino: annuncia che l’anima è santa, ma che il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno.
I dogmi che riguardano Maria, ben più che un privilegio esclusivo, sono indicazioni esistenziali valide per ogni uomo e ogni donna. Lo indica benissimo la lettura dell’Apocalisse: vidi una donna vestita di sole, che stava per partorire, e un drago.
Il segno della donna nel cielo evoca santa Maria, ma anche l’intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi, anche me, piccolo cuore ancora vestito d’ombre, ma affamato di sole.
Contiene la nostra comune vocazione: assorbire luce, farsene custodi (vestita di sole), essere nella vita datori di vita (stava per partorire): vestiti di sole, portatori di vita, capaci di lottare contro il male (il drago rosso). Indossare la luce, trasmettere vita, non cedere al grande male.
La festa dell’Assunta ci chiama ad aver fede nell’esito buono, positivo della storia: la terra è incinta di vita e non finirà fra le spire della violenza; il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti della violenza di qualsiasi drago.
Il Vangelo presenta l’unica pagina in cui sono protagoniste due donne, senza nessun’altra presenza, che non sia quella del mistero di Dio pulsante nel grembo.
Nel Vangelo profetizzano per prime le madri.
«Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo». Prima parola di Elisabetta, che mantiene e prolunga il giuramento irrevocabile di Dio: Dio li benedisse (Genesi 1,28), e lo estende da Maria a ogni donna, a ogni creatura. La prima parola, la prima germinazione di pensiero, l’inizio di ogni dialogo fecondo è quando sai dire all’altro: che tu sia benedetto.
Poterlo pensare e poi proclamare a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi porta un mistero, a chi porta un abbraccio: «Tu sei benedetto», Dio mi benedice con la tua presenza, possa benedirti con la mia presenza.
«L’anima mia magnifica il Signore».
Magnificare significa fare grande. Ma come può la piccola creatura fare grande il suo Creatore? Tu fai grande Dio nella misura in cui gli dai tempo e cuore. Tu fai piccolo Dio nella misura in cui Lui diminuisce nella tua vita.
Santa Maria ci aiuta a camminare occupati dall’avvenire di cielo che è in noi come un germoglio di luce. Ad abitare la terra come lei, benedicendo le creature e facendo grande Dio.

Gesù: una vita buona, bella e beata (2)

E Gesù ebbe anche una vita beata, felice, anche se certo non di una felicità mondana. Perché la vita di Gesù è stata una vita ricolma di “senso”: infatti, solo chi conosce una ragione per cui vale la pena dare la vita conosce anche una ragione per cui vale la pena vivere. Gesù questa ragione l’aveva. Più volte ha affermato di voler dare la vita per i fratelli, gli amici, gli altri: questo dava senso alla sua vita, rendendola una missione in piena obbedienza amorosa al Padre.

Così, nella pienezza di senso che viene dall’amore, anche la croce poteva essere accolta con serenità.
Non Pilato è stato un uomo felice, pur con tutto il suo potere; non Erode è stato un uomo felice, con tutta
la sua voracità… Gesù invece, pur salendo in croce, pur patendo una morte ignominiosa, lo ha fatto nella libertà e per amore. Sì, davvero esistenza beata, quella di Gesù: vita impregnata della felicità di chi conosce il senso della vita e degli eventi, di chi trasale di gioia per l’esperienza quotidiana della presenza amorosa di Dio e dell’amore che è possibile vivere con gli altri uomini…
Vita buona, bella e beata, dunque vita esemplare per noi cristiani perché vita umanissima, liberamente e amorosamente assunta da colui che, essendo Dio, si è fatto uomo in un’esistenza reale e quotidiana come la nostra. Ancora oggi molti cristiani si negano la comprensione di questa verità leggendo la vita di Gesù a partire dalla croce: ma non è la croce che ha reso grande Gesù, è Gesù che ha dato significato alla croce!
La vita buona, bella e beata di Gesù, la vita vissuta da Gesù, è il modello cui deve tendere la vita cristiana, la vita di ogni discepolo del Signore. Il tempo estivo potrebbe essere occasione preziosa per meditare su questo dato insopprimibile e liberante della rivelazione cristiana.

Gesù, una vita buona, bella e beata (1)

Prendere sul serio la fede cristiana, che è fede nell’incarnazione, significa non dimenticare mai la vita umana di Gesù che, nella mente dei cristiani, “necessita di essere liberata dai cliché generalmente devozionali che la presentano in modo riduttivo, trasmettendone una comprensione più approssimativa che autentica”.
Certamente la vita di Gesù, come la conosciamo a partire dai Vangeli, è stata una vita buona, bella e beata, ma va confessato che nella tradizione cristiana se ne è colta soprattutto la “bontà”, mentre non si è quasi mai meditato sulla bellezza e sulla felicità di questa esistenza. L’esito della croce, di fatto, ha assorbito quasi tutta l’attenzione e ha fatto ritenere inconciliabili con una visione di bellezza e felicità l’impegno
radicale, le prove, la fatica, le sofferenze, il supplizio della croce. In realtà, anche se gli evangelisti non hanno lasciato una biografia di Gesù, né tantomeno un ritratto psicologico, ci hanno descritto alcuni tratti della sua vita e alcune impressioni da lui suscitate su quanti lo accostarono, che sono più che sufficienti per mostrare la qualità della sua esistenza.
Sì, una vita buona perché segnata dalla logica dell’amore, e quindi capace di mostrare Gesù mite e umile di cuore, misericordioso verso tutti, pronto a incontrare nell’amore il prossimo, gli altri, gli ultimi.
“Gesù passò facendo il bene”, sintetizza Pietro, mentre il quarto Vangelo così testimonia al compimento della vita di Gesù: “avendo amato i suoi, li amò fino all’estremo”. La bontà della sua vita era talmente visibile che fu chiamato “maestro buono”. Di questa qualità, comunque, i cristiani sono sempre stati profondamente consapevoli ed essa ha nutrito nei secoli la loro meditazione.
Ma la vita di Gesù non è stata solo buona, è stata anche “bella”: una vita umanamente bella.
È stata la vita di un uomo povero, certo, ma sempre una vita dignitosa, mai toccata dalla miseria; vita di un uomo abitato dal desiderio costante di testimoniare Dio come Padre, ma mai scaduta a livello di militanza febbrile; una vita impegnata, sì, ma in cui c’era la possibilità di cogliere la bellezza della natura, degli uomini, degli eventi quotidiani. Gesù non ha vissuto isolato, ha sempre cercato e attuato una profonda comunione: conduceva una vita in comune con fratelli e sorelle che lo seguivano, e l’esperienza affettiva che viveva con loro era così intensa da giungere a chiamarli “amici”; con alcuni di loro il rapporto era ancora più profondo, come testimonia quello personalissimo con il discepolo amato. Gesù aveva amici veri, cari al suo cuore, come Marta, Maria e Lazzaro, persone amate presso cui sostare, riposarsi e ristorarsi, vivendo l’avventura di chi conosce lo scambio dell’amore fraterno. Gesù aveva il tempo di fermarsi per pensare, per contemplare la natura, il ritmo delle stagioni, i mestieri del suo tempo. Nelle sue parole si discerne una sapienza umana profonda e convincente, sapienza assunta anche dalla molteplice e variegata saggezza umana. Come non cogliere la sua vita bella nell’eco delle sue osservazioni sul rosso del cielo di sera, sul fico che intenerisce le gemme all’inizio dell’estate, sugli uccelli dell’aria nutriti dal Padre, sui gigli dei campi vestiti meglio di Salomone, sull’abile sapienza delle donne che impastano il lievito e degli uomini che attendono che il seme germogli… Se si leggono le parabole, personalissime creazioni di Gesù, si coglie in lui un contemplativo, un uomo che ha affinato capacità poetiche, che ha imparato a meditare su quanto lo circondava, a tal punto da cogliere sinfonicamente la propria storia assieme alle altre creature. Sì, Gesù insegnava ai discepoli, predicava alle folle, si chinava sui malati e liberava gli indemoniati, ma mai la sua vita contraddisse il segno della bellezza.

Quello che abbiamo visto

Non possiamo né vogliamo creare illusioni pericolose. In effetti, Signore, noi non abbiamo visto te, né il tuo Figlio. La nostra non è un’esperienza fisica.
Le nostre mani non hanno toccato il Verbo della vita, i nostri occhi non si sono imbattuti nel suo volto di carne. Eppure anche noi abbiamo visto, ma sempre e solo segni. Segni della tua presenza inequivocabile. Segni poveri, che esigono fede. Segni piccoli, che domandano occhi buoni per essere riconosciuti. Segni fragili, che ci pongono continuamente un interrogativo: siamo sicuri di non sbagliarci? Nonostante tutto
noi abbiamo visto e quello che ha colpito il nostro sguardo non lo possiamo tacere. Abbiamo visto fiorire la gioia proprio dove sembrava impossibile: in mezzo alla penuria, nel profondo della sofferenza. Abbiamo visto nascere la pace e il perdono proprio negli squarci procurati dall’odio e dalla cattiveria, dalla guerra e dalla vendetta. Abbiamo visto il Vangelo diventare realtà.

Quello che abbiamo udito

All’inizio c’è sempre la Parola, ma non una parola qualsiasi. La tua Parola, infatti, Signore, è capace di cambiare la vita. È una Parola feconda, come l’acqua che imbeve la terra e le permette di portare frutto. È una Parola che rischiara gli anfratti più oscuri della nostra esistenza. È una Parola che reca consolazione e guarigione: pacifica il cuore e fa rimarginare le antiche ferite, che ancora sanguinano. All’inizio c’è sempre
la tua Parola e questa Parola ha un volto e un nome: è Gesù, il tuo Figlio, la Parola eterna fatta carne, il tuo amore che si è manifestato, la tua tenerezza resa visibile. Ecco quello che possiamo trasmettere: quello che abbiamo udito non solo con le orecchie, ma nel profondo del cuore, la gioia e la speranza destate nella nostra esistenza, la luce nuova che abita la nostra vita in mezzo a qualsiasi tempesta.

La ricchezza del limite

Trasformare le ferite in perle

La perla è splendida e preziosa. Nasce dal dolore. Nasce quando un’ostrica viene ferita. Quando un corpo estraneo – un’impurità, un granello di sabbia – penetra al suo interno e la inabita, la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui lo ricopre per proteggere il proprio corpo indifeso.
Alla fine si sarà formata una bella perla, lucente e pregiata. Se non viene ferita, l’ostrica non potrà mai produrre perle perché la perla è una ferita cicatrizzata.
Quante ferite ci portiamo dentro, quante sostanze impure c’inabitano?
Limiti, debolezze, peccati, incapacità, inadeguatezze, fragilità psico-fisiche … E quante ferite nei nostri rapporti interpersonali. La questione fondamentale per noi sarà sempre: cosa ne facciamo?
Come le viviamo? La sola via d’uscita è avvolgere le nostre ferite con quella sostanza cicatrizzante che è l’amore: unica possibilità di crescere e di vedere le proprie impurità diventare perle.
L’alternativa è quella di coltivare risentimenti verso gli altri per le loro debolezze, e tormentare noi stessi con continui e devastanti sensi di colpa per ciò che non dovremmo essere e per ciò che non dovremmo provare. L’idea che spesso ci portiamo dentro è che dovremmo essere in un altro modo; che, per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, non dovremmo avere dentro di noi quelle impurità indecenti.
Vorremmo essere semplici “ostriche vuote”, senza corpi estranei di vario genere, dei “puri” insomma.
Ma questo è impossibile. È fondamentale giungere a comprendere l’importanza – in noi e fuori di noi, nelle nostre relazioni – della presenza dei limiti, delle ferite, delle zone d’ombra.
Capire, alla luce del messaggio evangelico, che tutto ciò che del nostro e altrui mondo interiore è segnato dall’ombra e dal limite, è l’unica nostra ricchezza, e che proprio lì è possibile fare esperienza della nostra salvezza. Insomma, che non vi è nulla dentro di noi che meriti di essere gettato via.
Se cominciamo a ragionare in questo modo, vuol dire che s’è compiuta in noi la vera conversione, la metànoia evangelica. La salvezza, la santità, sarà finalmente renderci conto della nostra verità, ovvero che
siamo feriti, limitati, fragili, ma al contempo oggetto dell’amore “folle” di un Dio che – proprio perché siamo fatti così – viene a visitarci e ad inabitarci. Ama quella parte di te che non vorresti avere.
Comincia ad avvolgerla con l’amore e alla fine constaterai di avere in te una perla preziosa, perché nella ferita riconosciuta, avvolta dall’amore, sperimenterai il tesoro che ti porti dentro.
Con insistenza il Vangelo ci esorta a “mettere nel mezzo” il nostro limite e la nostra fragilità. Mettere nel mezzo le nostre zone d’ombra vuol dire riconoscere da una parte la loro esistenza, e dall’altra che esse, dinanzi alla resurrezione di Cristo, non sono l’ultima parola sulla nostra umanità.
Dobbiamo deciderci se optare per la forza o per la debolezza. La nostra inadeguatezza, la nostra debolezza, è una forza più grande di ogni altra, poiché ha la forza stessa di Dio: “Quando sono debole, è allora che sono forte”. (2Cor 12,10). Questa verità dovrebbe tornare al centro del nostro vivere cristiano.
Al centro dell’assemblea (della comunità, della nostra famiglia, della Chiesa …), al centro del nostro vivere da cristiani non campeggiano la forza, il farcela da sé, l’osservanza ossessiva dei precetti santi, l’essere moralmente irreprensibili … ma vi è solo la nostra debolezza.