Prendere sul serio la fede cristiana, che è fede nell’incarnazione, significa non dimenticare mai la vita umana di Gesù che, nella mente dei cristiani, “necessita di essere liberata dai cliché generalmente devozionali che la presentano in modo riduttivo, trasmettendone una comprensione più approssimativa che autentica”.
Certamente la vita di Gesù, come la conosciamo a partire dai Vangeli, è stata una vita buona, bella e beata, ma va confessato che nella tradizione cristiana se ne è colta soprattutto la “bontà”, mentre non si è quasi mai meditato sulla bellezza e sulla felicità di questa esistenza. L’esito della croce, di fatto, ha assorbito quasi tutta l’attenzione e ha fatto ritenere inconciliabili con una visione di bellezza e felicità l’impegno
radicale, le prove, la fatica, le sofferenze, il supplizio della croce. In realtà, anche se gli evangelisti non hanno lasciato una biografia di Gesù, né tantomeno un ritratto psicologico, ci hanno descritto alcuni tratti della sua vita e alcune impressioni da lui suscitate su quanti lo accostarono, che sono più che sufficienti per mostrare la qualità della sua esistenza.
Sì, una vita buona perché segnata dalla logica dell’amore, e quindi capace di mostrare Gesù mite e umile di cuore, misericordioso verso tutti, pronto a incontrare nell’amore il prossimo, gli altri, gli ultimi.
“Gesù passò facendo il bene”, sintetizza Pietro, mentre il quarto Vangelo così testimonia al compimento della vita di Gesù: “avendo amato i suoi, li amò fino all’estremo”. La bontà della sua vita era talmente visibile che fu chiamato “maestro buono”. Di questa qualità, comunque, i cristiani sono sempre stati profondamente consapevoli ed essa ha nutrito nei secoli la loro meditazione.
Ma la vita di Gesù non è stata solo buona, è stata anche “bella”: una vita umanamente bella.
È stata la vita di un uomo povero, certo, ma sempre una vita dignitosa, mai toccata dalla miseria; vita di un uomo abitato dal desiderio costante di testimoniare Dio come Padre, ma mai scaduta a livello di militanza febbrile; una vita impegnata, sì, ma in cui c’era la possibilità di cogliere la bellezza della natura, degli uomini, degli eventi quotidiani. Gesù non ha vissuto isolato, ha sempre cercato e attuato una profonda comunione: conduceva una vita in comune con fratelli e sorelle che lo seguivano, e l’esperienza affettiva che viveva con loro era così intensa da giungere a chiamarli “amici”; con alcuni di loro il rapporto era ancora più profondo, come testimonia quello personalissimo con il discepolo amato. Gesù aveva amici veri, cari al suo cuore, come Marta, Maria e Lazzaro, persone amate presso cui sostare, riposarsi e ristorarsi, vivendo l’avventura di chi conosce lo scambio dell’amore fraterno. Gesù aveva il tempo di fermarsi per pensare, per contemplare la natura, il ritmo delle stagioni, i mestieri del suo tempo. Nelle sue parole si discerne una sapienza umana profonda e convincente, sapienza assunta anche dalla molteplice e variegata saggezza umana. Come non cogliere la sua vita bella nell’eco delle sue osservazioni sul rosso del cielo di sera, sul fico che intenerisce le gemme all’inizio dell’estate, sugli uccelli dell’aria nutriti dal Padre, sui gigli dei campi vestiti meglio di Salomone, sull’abile sapienza delle donne che impastano il lievito e degli uomini che attendono che il seme germogli… Se si leggono le parabole, personalissime creazioni di Gesù, si coglie in lui un contemplativo, un uomo che ha affinato capacità poetiche, che ha imparato a meditare su quanto lo circondava, a tal punto da cogliere sinfonicamente la propria storia assieme alle altre creature. Sì, Gesù insegnava ai discepoli, predicava alle folle, si chinava sui malati e liberava gli indemoniati, ma mai la sua vita contraddisse il segno della bellezza.