Ho letto queste affermazioni che trascrivo: “Non c’è sentimento più rivoluzionario della vergogna. Ecco, in un contesto dove non esiste più nessun tipo di vergogna e di pudore, il mitomane prospera e cresce. Se si ristabilisse quel minimo vergognarsi e avere un po’ di pudore nel porsi di fronte agli altri, molto si migliorerebbe”.
Forse un pensierino sulla quasi scomparsa del pudore che pare aver colpito questa nostra epoca vale proprio la pena di farlo. Cerchiamo innanzitutto di capire di che cosa stiamo parlando.
La parola pudore deriva dal vocabolo latino pudor (dal verbo pudeo, cioè non avere coraggio e, in un significato più ampio, provare vergogna) che esprime sentimenti di riserbo ma anche di disagio nei confronti di parole o comportamenti.
Sicuramente esso ha a che fare primariamente con la sessualità, in quanto si pone come risorsa morale che protegge e salvaguarda la sfera più intima dell’individuo, ma è collegato anche alla definizione della propria personalità, in quanto, richiamando i sentimenti di vergogna, di riservatezza e di rispetto, custodisce l’essere di ogni individuo, impedendo che il corpo venga ridotto a oggetto e che la persona sia violata nella sua intimità e riservatezza.
Il pudore serve a conservare il possesso della propria intimità, difendendola dalla possibile intrusione dell’altro, attribuendogli dunque un valore e un compito soprattutto relazionali, come se ci si trovasse dinanzi a una sorta di frontiera buona tra noi e gli altri.
Nella nostra società, in cui lo sguardo dell’altro, nelle varie accezioni, è portato a intrufolarsi ovunque, trovando dall’altra parte altrettanta disponibilità all’esibizione, la riscoperta della intimità come luogo di libertà merita di essere considerata una frontiera dove rappresentare l’attualità delle esperienze relazionali.
Difficile dire quando il pudore ha cominciato a farsi virtù rara. Sta di fatto che ci troviamo a vivere un’era di vetrinizzazione sociale che consiste in una tendenza generalizzata a voler mettere in mostra, a spettacolarizzare se stessi, la propria vita e tutto ciò che ruota attorno a essa, con lo scopo di attirare l’attenzione della gente, come se la propria esistenza assumesse valore solo quando è sotto gli occhi di tutti. Una continua corsa a chi mostra di più, che obbedisce a una logica prettamente mercantile, tutto o quasi è stato sottratto alla sfera del pudore (si è giunti a esibire anche momenti profondamente intimi, come la nascita o la morte). Il corpo stesso, oltre che venire ostentato, è stato sottoposto a un vero e proprio processo di imballaggio, confezionamento e presentazione che di solito subiscono i prodotti da offrire al pubblico, per renderlo attraente come una qualsiasi merce e garantirsi così i riflettori puntati su di sé. Questo meccanismo ha aperto la strada a tutta una serie di comportamenti al limite del patologico (dagli acquisti compulsivi alle varie manipolazioni del copro unicamente per rispondere a certi canoni estetici) e, soprattutto, ha messo l’identità personale al servizio, quasi, di quella sociale, annullando in tal modo la distanza tra noi e gli altri, che fino a quel punto era stata salvaguardata dal pudore.
Ma il pudore, tuttavia, non è scomparso. Un po’ malconcio, ma ha resistito.