Creazione tra gemito e attesa

La creazione geme e soffre le doglie del parto (Rm 8,22)
Questa immagine biblica raffigura la Terra come una Madre, che geme come durante il parto. I tempi in cui viviamo dimostrano che non ci rapportiamo alla Terra come a un dono del nostro Creatore, ma piuttosto come a una risorsa da utilizzare. San Francesco d’Assisi lo aveva capito quando nel suo Cantico delle Creature si riferiva alla Terra come a nostra sorella e nostra madre. Come può Madre Terra prendersi cura di noi se non siamo noi a prenderci cura di lei? La Creazione geme a causa del nostro egoismo e delle azioni insostenibili che la danneggiano. Insieme a nostra Sorella, Madre Terra, creature di ogni tipo, compresi gli esseri umani, gridano a causa delle conseguenze delle nostre azioni distruttive che causano la crisi climatica, la perdita di biodiversità e la sofferenza umana, nonché la sofferenza del Creato.
Eppure c’è speranza e aspettativa per un futuro migliore. Sperare nel contesto biblico non significa restare fermi e silenziosi, ma piuttosto gemere, gridare e lottare attivamente per una nuova vita in mezzo alle difficoltà. Proprio come durante il parto, attraversiamo un periodo di dolore intenso ma sta nascendo una nuova vita.
La Creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8,19)
Il Creato e tutti noi siamo chiamati ad adorare il Creatore, lavorando insieme per un futuro di speranza e azione attiva. Solo quando collaboriamo con il Creato possono nascere le primizie della speranza.
La teologia paolina ci ricorda che sia la Creazione che l’umanità sono concepite fin dall’inizio in Cristo e, pertanto, sono affidate l’una all’altra. Il Creato è in punta di piedi in attesa della manifestazione dei figli di Dio! I figli di Dio sono coloro che tendono le mani verso il Creatore, riconoscendosi umili creature, per lodare e rispettare Dio, e allo stesso tempo per amare, rispettare, prendersi cura e imparare dal dono di Dio della Creazione. Il Creato non è dato all’umanità perché venga usato e abusato, piuttosto, l’umanità è creata per essere parte della Creazione. Più che una casa comune, il Creato è anche una famiglia cosmica che ci chiama ad agire in modo responsabile. È così che i figli di Dio hanno una vocazione intrinseca e un ruolo importante da svolgere nella manifestazione del Regno di giustizia.
Le primizie della speranza (Rm 8,23-25)
La speranza è uno strumento che ci consente di superare la legge naturale del decadimento.
La speranza ci è data da Dio come protezione e guardia contro la futilità.
Solo attraverso la speranza possiamo realizzare in pienezza il dono della libertà. Libertà di agire non solo per raggiungere divertimento e prosperità, ma per raggiungere la fase in cui siamo liberi e responsabili.
La libertà e la responsabilità ci consentono di rendere il mondo un posto migliore.
Agiamo per un futuro migliore perché sappiamo che Cristo ha vinto la morte causata dai nostri peccati.
C’è molto dolore sulla Terra a causa delle nostre mancanze. I nostri peccati strutturali ed ecologici infliggono dolore alla Terra e a tutte le creature, compresi noi stessi. Sappiamo di aver causato molti danni al Creato e al mondo in cui viviamo a causa della nostra negligenza, a causa dell’ignoranza, ma anche, in molti casi, a causa del nostro incessante desiderio di soddisfare sogni egoistici irrealistici.
C’è una frase comunemente attribuita a Sant’Agostino che dice: “La speranza ha due belle figlie; i loro nomi sono Rabbia e Coraggio. Rabbia per come stanno le cose e coraggio di vedere che non rimangano come sono”. Mentre assistiamo alle grida e alle sofferenze della Terra e di tutte le creature, lasciamo che la santa rabbia ci spinga verso il coraggio di essere fiduciosi e attivi per la giustizia. Crediamo che l’incarnazione del Figlio di Dio offra una guida che ci consenta di affrontare questo mondo inquietante.
Dio è con noi nel tentativo di rispondere alle sfide del mondo in cui viviamo.
Esistono diverse forme di speranza. La speranza, però, non è solo ottimismo. Non è un’illusione utopica. Non è che sta aspettando un miracolo magico. La speranza è fiducia che la nostra azione abbia un senso, anche se i risultati di questa azione non si vedono immediatamente. La speranza non agisce da sola.
In precedenza, nella sua lettera ai Romani, l’Apostolo Paolo spiega lo stretto rapporto della speranza come processo di crescita: “la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”. La pazienza e la perseveranza sono strettamente associate alla speranza.
Queste sono qualità che portano alla speranza.
Sappiamo quanto sia urgente un’azione coraggiosa per contenere la crisi climatica ed ecologica, e sappiamo anche che la conversione ecologica è un processo lento poiché gli esseri umani sono ostinati a cambiare le loro menti, i loro cuori e il loro modo di vivere. A volte non sappiamo come dovrebbero essere le nostre azioni. Mentre viaggiamo nella vita, ogni giorno riceviamo nuove idee e ispirazioni per trovare un migliore equilibrio tra l’urgenza e i ritmi lenti del cambiamento duraturo. Potremmo non comprendere appieno tutto ciò che sta accadendo, potremmo non comprendere le vie di Dio, ma siamo chiamati a fidarci e a seguire con azioni concrete e durature, sull’esempio di Cristo Redentore di tutto il Cosmo.

Puoi essere Erode, ma la tua coscienza sarà sempre attratta dalla verità

La vicenda di Giovanni Battista è una vicenda che costantemente si ripete nella storia. Chi dice ad alta voce una verità scomoda per il sistema, sistematicamente viene fatto fuori. Ancora oggi ci sono regimi che fanno sparire giornalisti, missionari, medici, politici che usano il metodo del Battista. Per non parlare poi di quella subdola forma di eliminazione che è la gogna mediatica, cioè il gettare fango addosso affinché la persona
in questione sia screditata dall’opinione pubblica. Verrebbe da dirci pacatamente che forse sarebbe decisamente meglio farsi i fatti propri. Ma questa forma di discrezione prende il nome di omertà ed è la politica preferita dalla mafia. Nessuno di noi vorrebbe avere la testa tagliata, e credo che nemmeno Giovanni Battista ne fosse entusiasta. Ma ci sono momenti in cui dobbiamo decidere se vivere da complici o morire da onesti. Arriva il giorno in cui non possiamo rimanere in silenzio, ma dobbiamo gridare con tutto noi stessi ciò che sappiamo essere vero e giusto. Dobbiamo ricordarci che non si può piacere a tutti ma che inevitabilmente quando si dice qualcosa di vero si suscita l’odio di chi vive contro quella verità. E si aggiunga anche la persecuzione che viene da quelli che dovrebbero essere dalla nostra parte ma che magari sono accecati dall’invidia e per questo diventano anch’essi un’ulteriore mortificazione. La via del Battista è una via dove molte volte si sperimenta la solitudine. Ma Dio non ci lascia mai veramente soli. Possa allora darci la forza di non avere troppa paura.

Nel racconto del martirio di Giovanni Battista leggiamo l’atteggiamento strano che Erode ha nei suoi confronti: “Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”. Un uomo come Erode sente fascino nei confronti di un uomo come Giovanni.
Tutta la buona notizia nel Vangelo sembra quindi concentrarsi su questo dettaglio apparentemente secondario: puoi essere Erode ma non puoi restare indifferente alla Verità e a chi la dice. Ciò sta a significare che nonostante le scelte sbagliate, i vissuti contradditori, e la convinzione di essere più furbi degli altri, rimaniamo comunque sensibili a ciò che è oggettivamente vero. Sappiamo che alla fine questo non salverà la vita di Giovanni, ma ci dice che nessuno può dirsi immune al lavorio della propria coscienza.
Possiamo agire contro di essa o a favore, certamente però non possiamo dire di non averne una.
E proprio per questo Erode è infinitamente responsabile di quello che fa, e con lui ognuno di noi.
Non possiamo continuare a dare la colpa a tutti i condizionamenti di cui è fatta la nostra vita, ma ognuno
di noi deve ammettere che ha una coscienza e che al di là di tutto essa ci dice qualcosa.
Dobbiamo decidere però cosa farne di ciò che ci dice.

San Rocco: un santo misterioso ma molto amato

A causa della scarsità di biografi e notizie certe gran parte della vita e del pensiero di San Rocco sono avvolti nel Mistero. Di certo si sa che nacque in una agiata famiglia francese e, vista l’età dei suoi genitori, la sua nascita fu considerata come una grazia ricevuta. Egli crebbe con una forte vocazione religiosa; spinto anche dalla famiglia; ma intorno ai vent’anni perse entrambi i genitori, a seguito di ciò, diede ai poveri tutto il suo patrimonio e s’incamminò verso Roma in pellegrinaggio.
Egli partì dalla città natia e si diresse verso l’Italia (il percorso che seguì non è ben chiaro ed è soggetto a numerose interpretazioni) dove era scoppiata la grande epidemia di peste degli anni 1367/1368.
Invece di evitare i centri colpiti Rocco prestò soccorso e aiuto alla gente, si sentiva idoneo ad affrontare il grave pericolo di un lungo viaggio e dedicarsi alla sua vera vocazione: la carità, senza alcun limite di tempo e spazio, proprio come San Francesco D’Assisi. Raggiunse Roma in un periodo tra 1367 e 1368.
Rimase nella città eterna per tre anni curando i malati, tra cui un cardinale che lo presentò al pontefice.
Ripartito da Roma Rocco iniziò un lungo cammino in cui prestò sempre soccorso ad ammalati abbandonati dai famigliari fino a raggiungere Piacenza dove egli stesso fu colpito dalla peste e non volendo mettere in pericolo altre persone, si trascinò fino a una grotta o una capanna lungo il fiume Trebbia. Con il passare del tempo, la fame e la sete sembrano diventare la causa della sua prossima fine.
Le antiche agiografie, a questo punto, narrano che un cane durante la degenza di Rocco appestato, provvide quotidianamente a portargli come alimento un pezzo di pane sottratto alla mensa del suo padrone e signore del luogo che potrebbe essere identificato in Gottardo Pallastrelli che, seguito il cane per i tortuosi sentieri della selva, giunse nella capanna di Rocco. Soccorso e curato dal nobile signore, Rocco guari e riprese il suo cammino. Giunse in una regione funestata dalla guerra desiderando solo di ritornare in patria.
Senz’altro chiedere che una tranquilla ospitalità si diresse verso un grosso centro abitato.
Sfortunatamente il suo aspetto (barba lunga e incolta, avvolto in poveri e polverosi abiti, con il viso trasfigurato dalla sofferenza della peste) allarmò le guardie locali che scambiatolo per una spia (e preoccupati dalla sua riluttanza a rivelare le sue generalità) lo arrestarono e lo portarono davanti al governatore (che in alcune tradizioni era un suo zio) il quale lo fece gettare in prigione dove il santo fu ben presto dimenticato.
San Rocco non si lamentò della prigionia limitandosi a pregare e mortificare il suo corpo con preghiere, digiuni e flagellazioni. Il suo comportamento attirò l’attenzione di un sacerdote che iniziò a sospettare di aver a che fare con un santo e cercò di salvarlo; inutilmente. La morte del Santo avvenne nella notte tra il 15 e il 16 agosto, tra gli anni 1376 e 1379. L’annuncio della sua morte lasciò un intenso dolore, che invase l’intera popolazione unito allo sgomento per aver fatto morire un innocente in carcere.
Tale commozione esplose quando a fianco della sua salma venne ritrovata una tavoletta, sulla quale erano incisi il nome di Rocco e le seguenti parole: «Chiunque mi invocherà contro la peste sarà liberato da questo flagello».
L’apertura del processo di canonizzazione di san Rocco si farebbe risalire a papa Gregorio XI, ma non esistono documenti in merito. L’ipotesi più celebre, inserita nell’antica Vita sancti Rochi del Diedo, è che la canonizzazione sia avvenuta durante il concilio di Costanza del  1414 quando, secondo la tradizione, la cittadina fu colpita dalla pestilenza e mentre i padri conciliari stavano discutendo se convenisse lasciare la città, un giovane cardinale propose in assemblea come unica soluzione il ricorso a un uomo di Dio, san Rocco. La proposta fu accolta e dopo aver portato in processione per la città l’immagine del santo, la città fu in breve tempo liberata dal morbo.
Fu quella, quindi, una canonizzazione avvenuta per acclamazione di popolo e ufficialmente riconosciuta dal concilio anche senza un processo canonico completo.

L’Assunta: primizia dell’umanità glorificata

In piena estate e al culmine di quel movimento che si definisce “esodo” di ferragosto verso il refrigerio delle vacanze al mare, ai monti, ai laghi, alle isole lontane… la Chiesa celebra la più grande e antica festa mariana: l’Assunzione o “Dormizione” – come dicono i cristiani d’Oriente – della Beata Vergine Maria.
Attraverso la liturgia viene così offerta la possibilità di ascendere alle più alte vette dello spirito per respirare l’aria purissima della vita soprannaturale e contemplare la bellezza spirituale che è la santità.
L’aspirazione al riposo, alla serena distensione e alla pura gioia non potrebbe trovare altrove un così pieno appagamento.
Ma per tantissima gente questa festa è soltanto “ferie di agosto”, riveste un carattere unicamente profano e si consuma nella banalità, spesso anche in uno stress consumistico e logorante, come e più che nei giorni di lavoro. La solennità dell’Assunta, per chi voglia riflettere, è un forte richiamo al vero riposo e alla vera felicità a cui siamo chiamati. Il clima della liturgia è tutto pervaso di stupore e di gioia pasquale.
Maria è infatti la primizia dell’umanità nuova e glorificata, la creatura già totalmente riscattata dalla morte e trasferita in anima e corpo nel regno della Vita immortale. Ciò che il Signore Gesù Cristo ha operato con la sua incarnazione, morte – risurrezione, in Maria sua Madre ha già avuto il suo pieno effetto; partecipe della gloria del Figlio Risorto, Maria costituisce per noi un segno di sicura speranza.
Veramente questa solennità mariana ci fa sollevare lo sguardo verso il Cielo. Non un cielo atmosferico più o meno terso, non un cielo astratto, di idee, e nemmeno un cielo poetico e immaginario, ma il cielo della “vera realtà” che è Dio stesso con tutti i suoi angeli e l’immensa comunione dei santi di cui Maria è la più fulgida luce. Contempliamo, dunque, la nostra eterna dimora, il nostro destino di figli di Dio.
Maria non è emigrata, ma rimpatriata, e noi esuli in questo mondo e pellegrini sui sentieri del tempo, aneliamo a raggiungere la patria dove il nostro cuore sente di avere le primizie della sua gioia. Se abbiamo fede, il nostro vivere quotidiano diventa una continua e dolce esperienza di questo trans-ire, andare oltre. Non è un morire che ci annienta, ma un lasciare ciò che è limitato per entrare in ciò che è infinito; è diventare da terrestri, celesti. E questo avviene perché il Cristo risorto ha trasferito nella sfera divina la nostra natura umana e tutta la realtà cosmica cui siamo intimamente legati. Mentre sembra che tutto si logori, si consumi e sparisca, in realtà tutto si trasfigura e passa dalla caducità al regno dell’incorruttibilità. Nascono così «i cieli nuovi e la terra nuova» in cui non vi sarà più né pianto, né lamento, perché non vi sarà più la morte. La vittoria sulla morte è stata riportata dal Cristo in forza dell’amore che lo ha spinto a morire per noi. Solo l’Amore fa entrare nel regno della Vita. Maria vi è entrata dietro il Figlio, con un impeto incontenibile e dopo di Lei la via è rimasta aperta davanti a tutti gli uomini.
Non sono però i ragionamenti a farci capire queste cose; è la fede, la fede semplice e schietta, che ci pone umilmente in ginocchio e che ci mette in silenzio di adorazione davanti al mistero che ci trascende.
Chi crede vive già nella dimensione del trascendente, perciò non si lascia afferrare dalla vana nostalgia del tempo che passa. No, perché il tempo non fugge all’indietro; la nostra esistenza non è una fuga e una caduta nel passato, ma un dinamismo proteso in avanti. La vita umana scorre come un fiume verso l’oceano divino, verso la sua pienezza. Perciò sentiamo che il nostro morire è un nascere altrove.
Davanti al triste spettacolo di tanta falsa gioia e, contemporaneamente, di tanto angosciato dolore che dilaga nel mondo, il cristiano di oggi – se è tale di nome e di fatto – diventa lui pure un segno di speranza
e di consolazione. Egli infatti è l’uomo che con il suo stile di vita seriamente impegnato nel temporale ma proteso all’eterno, annuncia la Risurrezione. È segno di speranza e di consolazione anche perché, tutti raccogliendo nel suo cuore, in uno slancio di umana empatia e di amore oblativo, tutti affida al cuore di Colei che è la “fulgida porta del Cielo” perché è la Madre della Misericordia, la fonte attraverso la quale è scaturita la nostra Vita e la nostra Gioia: Cristo Gesù.

ASSUNZIONE DI MARIA: festa che evangelizza lo sguardo

C’è così tanta luce nella festa dell’Assunzione di Maria al cielo, che si fa fatica a tenere gli occhi aperti. È la fatica che si prova davanti al Mistero che non riusciamo mai ad addomesticare fino in fondo nella formula giusta, nella teologia più capiente. Per quanto ci sforziamo di dare voce e corpo ai dogmi cristiani (e tra di essi anche quelli che si riferiscono specificamente a Maria), l’unica cosa che rimane è riuscire ad intravedere qualcosa di quel Mistero in una immensa luce. Ecco perché potremmo dire che la festa dell’Assunzione di Maria al cielo è una di quelle feste che evangelizzano lo sguardo. È verso l’alto che dobbiamo guardare. «Siamo nati e non moriremo mai più», scrisse quella straordinaria donna di nome Chiara Corbella che ci ha lasciato una bellissima testimonianza di donna, di moglie, di madre. Perché la morte è solo quella direzione di cielo che prendiamo con una rincorsa un po’ misteriosa e un po’ carica di paura. Maria che varca il cielo ci ricorda che quello è il nostro destino, cioè quella è la nostra destinazione. Ed è per questo che Maria è per ciascuno di noi “segno sicuro di speranza”, perché guardando Lei capiamo un po’ che fine faremo anche noi.

Il segno distintivo che siamo fatti per il cielo lo si vede dalla gioia che proviamo e che portiamo. Un cristiano o è un portatore di gioia o non è cristiano. Ma non la gioia dei sorrisi, ma la gioia di sapersi amati definitivamente. È la gioia di chi riesce a vedere che Dio rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili. Dà conoscenza agli umili e confonde le idee ai superbi. Provvede a chi si riconosce povero e lascia a bocca asciutta coloro che pensano di bastare a se stessi. La festa di oggi quindi, come una seconda Pasqua tutta mariana, accende una luce di speranza sul nostro destino.
Questa luce però non è solo una luce che ci parla del dopo, ma è una luce che ci parla del qui ed ora. Infatti è proprio pensando a Maria che tutta la nostra vita di adesso assume una profondità nuova. Ha ragione quindi Dante a dire di Maria: «Sei di speranza fontana vivace».

Un ultimo aspetto riguarda lo “scandalo del corpo”. Fintanto che penseremo alla fede e alla vita spirituale come qualcosa che tocca solo la nostra anima, un nostro principio spirituale, interiore, non ci discosteremo di molto dalle altre esperienze religiose. Ma la fede cristiana è fede nel “corpo del Risorto”, è fede nella risurrezione della carne. Il fatto che Maria sia in cielo non solo con la sua anima, ma con il suo corpo, ci interroga profondamente sulla nostra fede nella risurrezione.
Il cristianesimo poggia o cade proprio su questo: sullo scandalo del nostro corpo che non è, «la tomba dell’anima», ma bensì «tempio dello Spirito Santo», anch’esso, quindi, in attesa di redenzione. Potremmo quindi aggiungere che oggi è la festa della riconciliazione con il nostro corpo.

Unità pastorale delle parrocchie di San Fiorano, Santo Stefano, Corno Giovine e Cornovecchio

Lo scorso maggio la Fondazione Cariplo ha emanato un bando diretto alle parrocchie con oratorio che volessero mettersi in rete per realizzare progetti rivolti ai ragazzi dagli 11 ai 26 anni. Anche le nostre comunità hanno preso “la palla al balzo” e hanno iniziato a elaborare un progetto per provare ad aderire al bando che prevedeva, per la rete di parrocchie, la possibilità di finanziare progetti per i ragazzi fino a 60.000 € a fondo perduto in 36 mesi, con una partecipazione di spesa a carico delle parrocchie del 10% della parte finanziata. Il titolo del bando è “Porte Aperte” e l’obiettivo che si pone la Fondazione Cariplo nel mettere a disposizione questa ingente dote finanziaria è quello di combattere il fenomeno della dispersione giovanile attraverso l’apertura sempre più continua e fruibile dello spazio oratorio. La prima parte del lavoro è stato capire quali fossero le finalità del bando e se le nostre comunità fossero in grado di organizzare e gestire le attività previste. È stato necessario creare una rete a partire dalle comunità parrocchiali dell’unità pastorale con i loro oratori, aggiungendo poi i rispettivi Comuni, l’Istituto Comprensivo Aldo Moro di Maleo e le diverse associazioni operanti sul territorio. Una volta letto il testo del bando e comprese le finalità è iniziata una lunga parte di stesura di un progetto di circa 20 pagine A4 in cui vengono dettagliati tutti gli obiettivi che intendiamo raggiungere in questi tre anni, le fasce di età e i vari progetti che verranno messi in campo con tutte le risorse umane necessarie per realizzarli. L’ultimo step, una volta steso il progetto è stato quello di mettere tutte le attività in un bilancio preventivo di spesa che mostrasse come i 60.000 euro richiesti alla Fondazione Cariplo venissero spesi nei 3 anni. Grazie alla competenza di persone preparate e volonterose che si sono date da fare il nostro progetto è stato accolto tra i 50 che hanno ricevuto un finanziamento ed è stato finanziato per intero. Ora disponiamo di questa bella cifra che dovremo iniziare a valutare di spendere mettendo in campo i progetti che sono stati pensati. “Mettiamoci in gioco!” è il titolo del progetto presentato dalle nostre parrocchie, che si pone come finalità di coinvolgere le agenzie educative territoriali a fianco delle famiglie, al fine di intervenire nella fase di crescita dei preadolescenti, degli adolescenti e dei giovani, nel contesto sociale di appartenenza, per il conseguimento dell’identità personale, per l’acquisizione delle abilità necessarie alla soddisfazione delle relazioni quotidiane e per la prevenzione delle varie forme di disagio. L’obiettivo è produrre un cambiamento culturale della comunità in termini di inclusione, cooperazione, solidarietà, mettendo in campo processi di incoraggiamento, definizione e condivisione di obiettivi.
Le azioni previste dovranno avere una ricaduta a lungo termine, creando un circuito virtuoso di trasmissione continua e reciproca di competenze, tra giovani e adulti attraverso la leggerezza e la gratuità dello stare e fare insieme per aumentare il proprio benessere personale e quello della comunità, che torna così a prendersi cura di se stessa.
Il titolo del progetto “Mettiamoci in gioco!” non vuole solo essere una metafora, ma deve concretizzarsi attraverso l’aspetto ludico come un puzzle che deve essere completato incastrando tra di loro tutti i pezzi, ognuno fondamentale per lo sviluppo del progetto, per la sua tenuta e per la sua continuità nel tempo. Il gioco deve essere il filo conduttore di tutto il percorso in quanto strumento che avvicina tutte le generazioni in uno scambio reciproco di competenze ed emozioni, stimolando l’immaginazione e la creatività, promuovendo la socializzazione, riducendo lo stress e l’ansia e aiutando a connetterci con noi stessi.
Attività previste:

  • proposte di formazione continua degli adulti per implementare le competenze genitoriali ed educative e percorsi formativi per gli adolescenti e per i giovani in qualità di animatori, per acquisire modalità socio-comunicative e tecniche di animazione e di GIOCO che potranno essere spendibili anche in futuro nei confronti dei pari, dei minori e degli adulti con cui dovranno confrontarsi durante il progetto;
  • implementazione delle attività ad oggi presenti negli oratori per incrementare il protagonismo giovanile e per costruire legami collaborativi con gli adulti attraverso il gioco; nuove proposte, che creino un ponte con il territorio e la comunità come dopo scuola, corsi di alfabetizzazione, laboratori culturali, ricreativi e multimediali ed eventi sportivi; momenti di aggregazione e di discussione nei quali saranno presenti temi legati ala fede e alla attualità, all’ambiente e alla solidarietà;
  • si punterà in particolare sui preadolescenti e adolescenti che frequentano attualmente gli ultimi anni della scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado (scuole presenti nella rete), per accompagnarli in un percorso partecipativo e coinvolgente che permetta loro di proseguire l’esperienza presso gli oratori anche in futuro, con ruoli diversi come animatori o referenti dei vari progetti;
  • per la fascia 18-25 anni proporremo la creazione di un gruppo di universitari e non che possa crescere e confrontarsi in un cammino che li porti ad affacciarsi al mondo dell’adultità con responsabilità mantenendo sullo sfondo il tema della solidarietà attraverso attività come la clownterapia e iniziative ludiche rivolte alle persone più fragili e bisognose di sostegno e compagnia.

L’occasione di poter attivare questi progetti e molto importante perché speriamo vivamente che la possibilità di coinvolgere più persone nella vita attiva dell’oratorio diventi un’occasione propizia per incontrare persone e per l’evangelizzazione di coloro che sempre più spesso a fatica si affacciano alle nostre realtà.

I parroci della comunità pastorale

S. Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein)

Edith Stein, filosofa e scrittrice, nel 1933 entrò nel Carmelo di Colonia, dove prese il nome di Teresa Benedetta della Croce. Nel 1938 emise i voti perpetui, ma alla fine dello stesso anno dovette espatriare nel Carmelo di Echt, in Olanda, nel tentativo di sfuggire al furore nazista.
Ma qui venne arrestata il 2 agosto 1942, assieme alla sorella Rosa, oblata, che l’aveva raggiunta in Olanda, e deportata a Westerbork  e poi nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove, il 9 agosto, trovò la morte con la sorella nella camera a gas. Così portò a compimento il suo vivo desiderio di essere un olocausto per il suo popolo. In un messaggio inviato alla Madre Priora del Carmelo di Echt da Westerbork, Teresa Benedetta della Croce scriveva: “ Si può acquistare una scientia crucis (Scienza della croce era il titolo del suo ultimo scritto e anche il suo itinerario spirituale) solo se si comincia a soffrire veramente del peso della croce. Ne ho avuto l’intima convinzione fin dal primo istante e dal profondo del cuore ho detto: Ave crux, spes unica ”.
Proclamata beata nel 1987, è stata canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998. Nel 1999 è stata dichiarata, con santa Brigida di Svezia e santa Caterina da Siena, compatrona d’Europa.

Questa donna ebrea, questa filosofa che stava cercando la verità col suo pensiero, col suo studio e la ricerca, ha potuto raggiungere la fede cristiana dove in essa ha trovato tutta la verità che gli mancava.
Ha potuto iniziare questo cammino verso la vera fede quando è stata libera; libera dai pensieri degli altri, dalla religione che ha preso dalla sua famiglia, dalle idee sulla donna e sull’uomo; libera di tutto.
Anzi, un vero cammino verso la fede cristiana si fa nella libertà. Per questo, possiamo rilevare dal processo teologico-spirituale di Edith Stein cinque tappe che si incontrano insieme:

  • La relazione tra Libertà e Verità: Il Signore ci dice nel Vangelo di Giovanni: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). La libertà di Edith era una libertà cosciente, una libertà in ricerca, che gli ha condotta a trovare la Verità.
  • La relazione tra Verità e Amore: Edith dice: “non accettare come amore nulla che manchi di verità. E non accettare come verità nulla che manchi di amore”. Non si può vivere nessun modo di amore nella menzogna. L’amore è sempre vissuta nella verità, nella luce.
  • La relazione tra Amore e Dolore: Colui che ama accetta di vivere tutto con l’altro. Colui che ama Cristo accetta i dolori di questa vita con speranza. Non c’è una vita senza dolori, ma si può vivere sempre nella maledizione della vita o nell’accettazione della realtà in cui stiamo vivendo. Da lì, Edith ha accettato i dolori della sua vita, come il fatto di lasciare la sua mamma e la sua famiglia, di essere portata al campo di concentramento di Auschwitz, tutto per amore di Cristo.
  • La relazione tra Dolore e Croce: Ogni dolore è un’opportunità di portare la Croce seguendo Cristo. Non si può accettare qualsiasi dolore senza il concetto della croce e della salvezza. Così per Edith, il dolore era una via che gli condurre alla Croce.
  • La relazione tra Croce e Fede: Edith impara che la croce e la fede sono inseparabili. Ella ha imparato la fede cristiana nella scuola della croce. La Croce per lei era il fondamento della sua unione a Cristo. E per il suo amore alla Croce, e perché la Croce per lei è stata la benedizione di tutta la sua vita, ha collegato il suo nome ad Essa nella vita carmelitana: “Teresa Benedetta della Croce”.

Con queste cinque tappe del pensiero teologico-spirituale di Edith, possiamo affermare che colui che cerca la libertà, cerca la vera fede.
Papa Francesco, durante l’udienza generale del 7 agosto 2019, parlando di Edith Stein ci raccomanda dicendo: “Invito tutti a guardare alle sue scelte coraggiose, espresse in un’autentica conversione a Cristo, come pure nel dono della sua vita contro ogni forma di intolleranza e di perversione ideologica”.

Trasfigurazione del Signore

Il Vangelo della Trasfigurazione è l’estremo tentativo di raccontare un’esperienza ineffabile che in realtà non ha parole abbastanza capienti per poter dire davvero cosa sia successo in quel giorno sul monte Tabor. Se dovessimo anche noi usare un’immagine, dovremmo dire che i discepoli sperimentano un bagno di luce indelebile che li segna in maniera decisiva nel cuore. Sono quei rari, anzi rarissimi momenti in cui Gesù fa un passo in avanti e si mostra per ciò che è davvero senza nessun’altra mediazione. Lo fa di rado perché vuole sempre lasciare spazio alla nostra libertà. La nostra vita non è mai solo luce, perché davanti alla luce non avremmo molta scelta. Diceva un buon teologo che Gesù ci dà abbastanza luce da capire cosa fare e abbastanza buio da poter scegliere anche il contrario.

La festa della Trasfigurazione del Signore è solo fortissima luce che Gesù dona ai suoi discepoli prima che essi entrino nel buio del Getsemani. Ma la cosa interessante è la loro reazione: “All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore”. La loro reazione non è di beatitudine, ma di spaesamento. Sono davanti a un mistero più grande dei loro ragionamenti. “Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: “Alzatevi e non temete”.
È bello pensare che Gesù è l’unico modo che noi abbiamo per poter entrare nel mistero senza rimanerne schiacciati. Il Padre manda suo Figlio Gesù per darci un’esperienza (“toccatili”) e indicarci la strada da percorrere (“alzatevi”).
In questo senso per un cristiano non c’è altro di essenziale se non Gesù solo: “Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo”. E se ci sono altre cose che ci aiutano, ci sono d’aiuto solo perché ci avvicinano di più a Gesù e non sono in sostituzione a lui.

“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”.
Gesù mostra chi è veramente in un contesto speciale che è quello dell’amicizia. La vera amicizia è poter essere sé stessi davanti all’altro, senza bisogno di maschere, senza bisogno di sminuire la luce per paura dell’invidia, e senza aver paura di mostrare la propria debolezza. Gesù infatti ancora una volta davanti a questi amici si mostrerà in tutta la sua fragilità nell’orto degli ulivi. Gli amici sono il luogo perfetto per essere autentici. Gesù lo fa per primo e indica a ognuno di noi la medesima strada. Il vero miracolo non è semplicemente brillare, ma avere degli amici che possono accoglierci con le nostre luci e le nostre ombre. Gesù aveva amici così, e anche se non saranno sempre all’altezza di quell’amicizia (a volte si addormentano, altre volte tradiscono), Gesù non smette di scommettere su di loro. E proprio loro potranno raccogliere il grande segreto di Dio: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
Ascoltatelo». Siamo molto spesso discepoli dei nostri soli ragionamenti, mentre basterebbe imparare ad ascoltare Gesù per trovarci fuori dalle nostre strettoie e labirinti mentali. Diamo molto credito alla paura ma Gesù ha il potere di dissipare tutti i fantasmi e riportarci a ciò che davvero conta.

San Giovanni Maria Vianney, il Patrono dei Parroci che fu cacciato dal Seminario

Noto come Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney nacque l’8 maggio 1786 a Dardilly, Lione, in Francia. Di famiglia contadina e privo della prima formazione, riuscì, nell’agosto 1815, ad essere ordinato sacerdote. Per farlo sacerdote, ci volle tutta la tenacia dell’abbé Charles Balley, parroco di Ecully, presso Lione: lo avviò al seminario e lo riaccolse quando venne sospeso dagli studi.
Si dedicò all’evangelizzazione, attraverso l’esempio della sua bontà e carità.
Ma fu sempre tormentato dal pensiero di non essere degno del suo compito.
Trascorreva le giornate dedicandosi a celebrare la Messa e a confessare, senza risparmiarsi.
Morì nel 1859. Papa Pio XI lo proclamerà santo nel 1925 e indicato come modello e patrono dei parroci.
In questo giorno invito tutti a recitare una preghiera per tutti i Parroci e tutti i Sacerdoti.

Il Santo Curato d’Ars manifestò sempre un’altissima considerazione del dono ricevuto. Affermava: “Oh! Che cosa grande è il Sacerdozio! Nel servizio pastorale, tanto semplice quanto straordinariamente fecondo, questo anonimo parroco di uno sperduto villaggio del sud della Francia riuscì talmente ad immedesimarsi col proprio ministero, da divenire, anche in maniera visibilmente ed universalmente riconoscibile, alter Christus, immagine del Buon Pastore, che, a differenza del mercenario, dà la vita per le proprie pecore.
La sua esistenza fu una catechesi vivente, che acquistava un’efficacia particolarissima quando la gente lo vedeva celebrare la Messa, sostare in adorazione davanti al tabernacolo o trascorrere molte ore nel confessionale. Centro di tutta la sua vita era l’Eucaristia, che celebrava ed adorava con devozione e rispetto.
I metodi pastorali di san Giovanni Maria Vianney potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali. Se è vero che mutano i tempi e molti carismi sono tipici della persona, quindi irripetibili, c’è però uno stile di vita e un anelito di fondo che tutti siamo chiamati a coltivare. A ben vedere, ciò che ha reso santo il Curato d’Ars è stata la sua umile fedeltà alla missione a cui Iddio lo aveva chiamato; è stato il suo costante abbandono, colmo di fiducia, nelle mani della Provvidenza divina. Egli riuscì a toccare il cuore della gente non in forza delle proprie doti umane, né facendo leva esclusivamente su un pur lodevole impegno della volontà; conquistò le anime, anche le più refrattarie, comunicando loro ciò che intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo. Fu “innamorato” di Cristo.
Lungi dal ridurre la figura di san Giovanni Maria Vianney a un esempio, sia pure ammirevole, della spiritualità devozionale ottocentesca, è necessario al contrario cogliere la forza profetica che contrassegna la sua personalità umana e sacerdotale di altissima attualità.
Le sfide della società odierna non sono meno impegnative, anzi forse, si sono fatte più complesse.
Se allora c’era la “dittatura del razionalismo”, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di “dittatura del relativismo”. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l’uomo “mendicante di significato e compimento” va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi.

Cos’è l’Indulgenza: storia e significato del Perdono di Assisi

Le fonti narrano che una notte dell’anno 1216, san Francesco è immerso nella preghiera presso la Porziuncola, quando improvvisamente dilaga nella chiesina una vivissima luce ed egli vede sopra l’altare il Cristo e la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli.
Essi gli chiedono allora che cosa desideri per la salvezza delle anime. La risposta di Francesco è immediata: “Ti prego che tutti coloro che, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, ottengano ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe”.
“Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande – gli dice il Signore -, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”. Francesco si presenta subito al pontefice Onorio III che lo ascolta con attenzione e dà la sua approvazione. Alla domanda: “Francesco, per quanti anni vuoi questa indulgenza?”, il santo risponde: “Padre Santo, non domando anni, ma anime”. E felice, il 2 agosto 1216, insieme ai Vescovi dell’Umbria, annuncia al popolo convenuto alla Porziuncola: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”.
Dal Codice di Diritto Canonico, cann. 992-4: L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi. L’indulgenza è parziale o plenaria secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati. Ogni fedele può lucrare per se stesso o applicare ai defunti a modo di suffragio indulgenze sia parziali sia plenarie.
Dal Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1472-3: Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio.
Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensì come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, così che non sussista più alcuna pena.
Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato.
Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo” [Cfr. Ef 4,24].

Quello che ha reso nota in tutto il mondo la Porziuncola è soprattutto il singolarissimo privilegio della Indulgenza, che va sotto il nome di “Perdono d’Assisi” o – appunto –Indulgenza della Porziuncola. La festa del Perdono inizia la mattina del 1 agosto e si conclude alla sera del 2 agosto, giorni nei quali l’Indulgenza della Porziuncola, qui concessa per tutti i giorni dell’anno, si estende alle chiese parrocchiali e francescane di tutto il mondo. L’aspetto religioso più importante del “Perdono d’Assisi” – e di ogni Indulgenza – è la grande utilità spirituale per i fedeli, stimolati, per goderne i benefici, alla confessione e alla comunione eucaristica. L’evento del Perdono della Porziuncola resta una manifestazione della misericordia infinita di Dio e un segno della passione apostolica di Francesco d’Assisi.
Vengono di seguito descritte le condizioni necessarie per lucrare l’Indulgenza della Porziuncola e le corrispondenti disposizioni con cui il fedele dovrà chiederla al Padre delle misericordie:

  • Ricevere l’assoluzione per i propri peccati nella Confessione sacramentale, celebrata nel periodo che include gli otto giorni precedenti e successivi la festa, per tornare in grazia di Dio;
  • Partecipazione alla Messa e alla Comunione eucaristica nello stesso arco di tempo indicato per la Confessione;
  • Visita alla chiesa … dove si rinnova la professione di fede, mediante la recita del CREDO, per riaffermare la propria identità cristiana, e si recita il PADRE NOSTRO, per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo; Una preghiera secondo le intenzioni del Papa, per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice. Normalmente si recita un Padre, un’Ave e un Gloria.