Se il popolo d’Israele – e quel figlio di Israele tanto speciale che è Gesù di Nazaret – è segnato dall’itineranza, occorre riconoscere che la prospettiva del viaggio travalica i confini culturali della Palestina ed è radicata in molte altre culture e religioni antiche. Potremmo trovare una somiglianza e differenza tra Ulisse e Abramo: entrambi ingaggiati dal destino in un lungo viaggio, il primo impegnato in un’avventurosa navigazione per tornare a casa e riappropriarsi del suo regno, il secondo chiamato invece a lasciare la sua casa per seguire la promessa di una terra e una discendenza. Questi due itinerari simbolici fondano due visioni della storia: quella greca, ciclica, fondata sul mito del ritorno all’origine, e quella giudeo-cristiana, lineare e progressiva, fondata sulla promessa, sull’apertura a ciò che è nuovo, inedito, irraggiungibile. In modi diversi tutte le culture e religioni conoscono un’esperienza di pellegrinaggio rituale che assume i contorni della penitenza, della purificazione, del rinnovamento interiore e della festa.
Basti pensare allo Hajj nell’Islam, il pellegrinaggio alla Mecca, uno dei cinque pilastri della religione di Muhammad. O allo Yatra verso i santuari Hindù e soprattutto a Vanarasi (Benarès) per fare il bagno nel fiume Gange. Anche i fedeli Sikh almeno una volta nella vita vanno in pellegrinaggio al Tempio d’oro di Amristar, nel Punjab. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il pellegrinaggio è un’espressione religiosa popolare capace di tenere insieme molti elementi come la ricerca spirituale, il contatto con il sacro, la purificazione del corpo e dell’interiorità, il ritorno alle origini, l’appartenenza a un popolo, l’esperienza della provvidenza divina, il radicamento negli ideali e valori religiosi, l’acquisizione della salvezza.