XXII del Tempo Ordinario

Nel Vangelo di questa domenica, il Signore ci invita ad occupare un posto di umiltà, a riconoscere il nostro limite e a non montarci la testa. Mettersi all’ultimo posto non vuol dire stare in fondo alla chiesa o dietro una colonna per non farsi vedere, l’ultimo posto non è quello di una sala, ma è nel servizio della realtà; significa accettare di stare al proprio posto senza voler comparire, senza pretendere riconoscimenti o ringraziamenti. È l’atteggiamento di Gesù stesso, mite e umile di cuore. Noi dobbiamo imparare da Lui, perché è il nostro modello. Vogliamo impegnarci a crescere nella mitezza e nell’umiltà. Il saggio Siracide ha contrapposto uomini orgogliosi e superbi a coloro che invece sono umili e miti. “Molti purtroppo – dice – sono gli orgogliosi e i superbi, quelli che si credono importanti e pretendono onori, vogliono riconoscimenti dagli uomini, ma il Signore rivela i suoi segreti ai miti”. Il Signore entra in amicizia e si confida con le persone umili. Non apprezza però le false umiltà di chi per finta dice: “Non valgo, non sono degno, non me lo merito” – senza pensarlo – bensì coloro che sono veramente umili e pensano di valere poco e non si mettono sul piedistallo e non cercano onori. Mettersi all’ultimo posto vuol dire lavorare intensamente nella nostra vita con impegno cristiano senza la pretesa di un riconoscimento, senza la prepotenza di chi si crede importante, giusto, buono. Qual è il posto primo in un banchetto? E qual è il posto ultimo? È solo un’immagine, perché il problema non è a tavola: il problema è nella vita. La ricerca del primo posto è l’ambizione, l’orgoglio, la voglia di primeggiare, il desiderio della supremazia sugli altri, la brama di arrivare a una posizione di prestigio, per essere di più dell’altro. L’immagine del banchetto e del primo posto serve per provocare la reazione dei suoi discepoli, per mostrare quel desiderio di primeggiare come negativo. “Voglio un vestito più bello delle altre persone, voglio una casa più grande, voglio un’automobile più prestigiosa, voglio un posto più importante, voglio uno stipendio più alto, voglio fare carriera, voglio essere il primo” … questo è un pensiero dominante in tanti aspetti diversi e ognuno di noi riconosce che cerca quello che gli piace e vuole raggiungerlo. Anche l’ultimo posto spesso è cercato semplicemente per via del proprio carattere, perché c’è qualcuno che ama mettersi in mostra e c’è qualcun altro che vuole rimanere nascosto: sono due atteggiamenti caratteriali sbagliati. Ognuno fa quel che vuole, quel che gli piace e cerca di raggiungere la propria realizzazione facendo quel che gli fa comodo: o mostrandosi oppure nascondendosi per non essere notato. Sono due eccessi. L’umiltà di cui parla il Signore non è nascondersi, non è cedere, non è inattività … l’umile è colui che fa bene il suo dovere, senza pretese, senza mettersi in mostra, senza volere il riconoscimento degli altri. L’autore della Lettera agli Ebrei presenta un confronto fra due atteggiamenti religiosi: il contrasto è posto fra l’antica alleanza e la nuova alleanza, fra il monte Sinai, con la rivelazione di Dio fra tuoni e lampi e l’esperienza cristiana molto semplice.
I destinatari di questa lettera erano ebrei divenuti cristiani i quali però rimpiangevano la gloria del tempio di Gerusalemme, che era una costruzione immensa, bellissima, piena di ricchezza, sfarzo, suoni, profumi, vesti meravigliose … sembrava che quello fosse un culto degno di Dio.
Nella tradizione cristiana invece si erano ridotti, almeno all’inizio, ad una cena in una casa qualsiasi, con un po’ di pane e un po’ di vino … tutto lì? Sì, tutto lì! Tutto è in quel po’ di pane e di vino che è il segno del Cristo morto e risorto: tutto è lì nella semplicità che è grandiosa.