San Matteo: vivere in maniera degna della chiamata

Che cosa ha lo sguardo di Gesù Cristo che cambia radicalmente il cuore, lo trasforma, lo guarisce!
Gesù attraversa le viuzze di Cafarnao e va deciso là dove lavora Levi, il pubblicano, l’esattore delle imposte per i romani, l’uomo odiato dai suoi stessi concittadini, il disprezzato, il traditore.
Si ferma, non ha fretta, e lo guarda. Con quegli occhi misericordiosi, come nessuno lo aveva guardato prima. E gli aprì il cuore, lo rese libero, lo guarì, lo riempì di speranze.
In quegli occhi Levi vide lo sguardo di Dio che vede ben oltre quel che vedono i nostri occhi.
Oltre le apparenze, i nostri peccati, le nostre sconfitte, la nostra indegnità. In Levi Gesù vede Matteo. Vede la sua storia di amore, di servizio, di donazione, di fedeltà, di felicità.
Anche oggi, ogni giorno, Gesù vuole fissare il suo sguardo su noi. “È l’attesa di Dio, che ci ama, ci cerca, ci accetta come siamo: con i nostri limiti, i nostri egoismi, la nostra incostanza; e tuttavia capaci di scoprire il suo amore infinito e di darci a Lui interamente”. Anche noi, che siamo seduti al nostro banco, cercando di essere felici alla nostra maniera, accumulando tempo e beni per noi stessi, incapaci di darci agli altri, stanchi di veder passare i giorni senza avere il coraggio di rischiare.
L’incontro di Gesù con Matteo ci interpella e ci chiede fiducia: se Gesù ha potuto trasformare un esattore in un servitore, un traditore in un amico intimo, può anche trasformare noi, peccatori, in figli di Dio, in suoi amici intimi. Perciò dobbiamo fare come Matteo: sentirci in pericolo, malati, bisognosi di quello sguardo che infonde speranza perché vede in ciascuno, peccatore, l’uomo sognato da Dio.
Entrare nel cuore di Matteo
Dobbiamo entrare nel cuore e nella mente di quest’uomo, immedesimandoci fino in fondo in lui, e cercare di capire i suoi sentimenti profondi. Come si sarà sentito lui – pubblicano e perciò odiato dalla gente comune e considerato un peccatore dai responsabili religiosi del tempo – raggiunto dalla chiamata di Gesù? Proprio a lui: la persona meno degna e raccomandabile, la più lontana e irraggiungibile… lui che aveva altro per la testa, che pensava di aver già deciso definitivamente come portare avanti la sua vita… Si sarà chiesto «perché proprio io?» L’esperienza l’ha aiutato a capire in prima persona, sulla propria pelle, le parole di Gesù risuonate proprio in casa sua: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati… Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». Il pubblicano è oggetto della cura e della misericordia di Dio, colui che Gli sta più a cuore di tutti, il Suo tesoro più prezioso, come la pecorella smarrita per il pastore.
Ripensare alla propria chiamata
È quello che siamo chiamati a fare anche noi di fronte all’esortazione di Paolo: vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto… Comportarci in maniera degna della chiamata che abbiamo ricevuto, significa partire dalle stesse domande che si è fatto Matteo:
· Chi sono io perché il Signore abbia chiamato proprio me? Che meriti avevo? Nessuno!
È un senso di smarrimento, stupore e gratitudine infinita nei confronti di Dio che ci deve guidare.
A tal riguardo, ci può venire in aiuto un altro passo di san Paolo: Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti… Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole… per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato… quello che è nulla… per ridurre al nulla le cose che sono (cfr. 1Cor 1,26-29).
Dio ci ha scelti e chiamati non già in base ai nostri meriti, ma solo ed esclusivamente per la Sua infinita misericordia, e per confondere il mondo, i “sapienti” e i “forti”.
Non un dovere ma una risposta
Allora l’umiltà, la dolcezza e la magnanimità, il sopportarci a vicenda nell’amore avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace non sono un dovere, ma una risposta alla chiamata del Signore, alla grazia che ci è stata data secondo la misura del dono di Cristo. È un bagno di umiltà quello che dobbiamo fare, e da cui deve nascere una gioiosa riconoscenza, così da edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

San Bernardo, abate e dottore della Chiesa

Nel 1090, nacque in Borgogna quello che sarebbe diventato San Bernardo, abate e Dottore della Chiesa. Amante della letteratura e delle lingue classiche, aveva sei fratelli e veniva da una famiglia cattolica.
Insieme a quattro fratelli e a uno zio, Bernardo lasciò la vita civile e si ritirò alla vita religiosa. Gli si sarebbero poi uniti il fratello minore, il padre e la sorella, in una storia certamente unica, piena dell’amore di Dio.
Il 20 agosto si celebra la memoria di questo santo, che porta a ricordare un uomo santo amante della
Santissima Vergine Maria e di suo Figlio Gesù Cristo.
Condividiamo cinque consigli di San Bernardo per giungere alla santità. 
I vostri doni vi servono per essere qualcosa di più che semplicemente famosi
San Bernardo è stato un uomo pieno di doni che lo facevano sicuramente spiccare, frutto della sua intelligenza, grazia e gentilezza. Era anche un uomo attraente, e avrebbe potuto lasciarsi trascinare dalla vanità e dall’egocentrismo, cosa che grazie alla sua vicinanza al Signore non è accaduta.
È bello che, meditando e imparando dalla sua testimonianza, possiamo comprendere che un cammino sicuro per la santità è quello di saper mettere i nostri doni al servizio degli altri. Bisogna fare dei nostri doni, delle nostre capacità, una sorta di gradini per arrivare al cielo e portare gli altri con noi.
L’apostolato inizia a casa, e potrebbe essere l’ambiente più difficile
È proprio vero che “nemo profeta in patria”. È lì che la missione diventa più complessa, ma è anche lì che è più urgente l’opera evangelizzatrice. L’esempio di San Bernardo ci porta a lottare per l’annuncio del Regno di Dio in ogni luogo, perché l’apostolato smette di essere l’azione specifica di un momento e di un certo spazio e inizia ad essere la vita stessa. Sappiamo come annunciare la Parola a casa nostra?
Conoscetevi e conoscete le vostre debolezze
Sapere chi sono e come sono è fondamentale per il perfezionamento spirituale e personale della mia vita. Sapere in cosa sono debole può rendermi forte, e riconoscere i miei problemi, vizi e peccati è un altro grande passo per camminare verso la santità della vita. San Bernardo ha compreso che nella preghiera e nella meditazione alla luce della Parola e della persona di Gesù si possono trovare i dettagli più piccoli e invisibili della nostra vita e porvi la forza di Dio, trasformarli in gradini di santità che ci avvicinano al Signore. Ci chiediamo come Dio può aiutarci nelle nostre debolezze?
Lo Sappiamo che offrendo a Dio le cose in cui siamo deboli possiamo essere santi in esse? 
“Non sei più santo perché non sei più devoto di Maria”
San Bernardo è stato un vero amante della Santissima Vergine Maria, al punto che oggi si dice che se si vuole essere mariano bisogna avvicinarsi prima agli scritti di San Bernardo sulla Vergine.
La sua vita spirituale si è vista così legata alla figura di Maria che si potrebbe dire che a essa è dovuta la santità di Bernardo. La devozione sincera e sana alla Madre del Signore è una guida ufficiale per unirsi completamente a Gesù. È attraverso di Lei che si può imparare ad essere davvero umile, orante, discepolo. Nella sua testimonianza troviamo la strada sicura per essere santi.

Confidate nell’amore di Dio
La fiducia dona pace, ed è questa stessa pace che permette che l’anima si elevi davvero in unione a Dio. Quando ci abbandoniamo alla volontà del Signore, tutto funziona meglio, perché Egli vuole sempre il meglio per noi. Confidare in Dio, come San Bernardo, è sapere che le nostre forze sono limitate e che Dio ci fa essere forti. Solo in Lui possiamo riuscirci, e quindi la fede e la fiducia nella Provvidenza diventano una strada sicura per percorrere la vita della santità.
Essere santi non è compiere miracoli, ma sapere che nei propri limiti Dio si mostra grande; che nelle proprie debolezze Dio si mostra forte e nei propri timori è provvidente.
Com’è la nostra fiducia nella Provvidenza di Dio? Fin dove arriva la nostra fede?
Vorrei infine invitarvi a pregare la Santissima Vergine Maria con questa breve preghiera, in cui esprimiamo l’amore verso la Madre di Dio e chiediamo la sua intercessione: « Ricordati, o piissima Vergine Maria, che non si è mai inteso al mondo che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, chiesto il tuo patrocinio e sia stato da te abbandonato.
Animato da tale confidenza, a te ricorro, o Madre, Vergine delle vergini, a te vengo, e, peccatore come sono, mi prostro ai tuoi piedi a domandare pietà. Non volere, o Madre del divin Verbo, disprezzare le mie preghiere, ma benigna ascoltale ed esaudiscile. Amen»

San Massimiliano Kolbe

San Massimiliano Kolbe, nato nel 1894 in Polonia, è una figura straordinaria di eroismo e santità cristiana. La sua vita è stata segnata dall’amore per Dio e per il prossimo, culminato in un atto di sacrificio che lo ha reso un eroe della fede. 
Fin da giovane, Massimiliano manifestò un profondo amore per la Vergine Maria e un grande desiderio di servire Dio. Divenuto frate francescano, durante gli studi di teologia a Roma fondò la Milizia dell’Immacolata, un movimento che si dedica a diffondere la devozione mariana e a combattere il male con l’amore.
Il profondo ardore missionario lo portò a fondare varie opere di evangelizzazione, in particolare attraverso l’editoria, sia in Europa che in Asia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Massimiliano fu imprigionato ad Auschwitz. 
Fu qui che, in seguito alla fuga di un prigioniero, le guardie del campo selezionarono casualmente dieci prigionieri da far morire per rappresaglia. Uno dei condannati, essendo un padre di famiglia, supplicò di essere risparmiato, e Massimiliano, con un atto di vero eroismo, si offrì di prendere il suo posto. Massimiliano fu così condannato a morire di fame in un bunker sotterraneo. Nonostante la fame e la sete, continuò a pregare e a confortare i suoi compagni di prigionia. La sua morte eroica (avvenuta nel 1941) è stata un esempio straordinario di amore e sacrificio, testimoniando il suo totale abbandono alla volontà di Dio e la sua dedizione ai fratelli. 
San Massimiliano Kolbe ha incarnato l’amore disinteressato e l’offerta di sé per gli altri.

Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein)

“Ci inchiniamo profondamente di fronte alla testimonianza della vita e della morte di Edith Stein, illustre figlia di Israele e allo stesso tempo figlia del Carmelo. Suor Teresa Benedetta della Croce, una personalità che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo, una sintesi ricca di ferite profonde che ancora sanguinano; nello stesso tempo la sintesi di una verità piena al di sopra dell’uomo, in un cuore che rimase così a lungo inquieto e inappagato, “fino a quando finalmente trovò pace in Dio”, queste parole furono pronunciate dal Papa Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Edith Stein a Colonia, il 1° maggio del 1987.  
“Ave Crux, Spes Unica”. E’ con lo sguardo fisso alle braccia aperte di Cristo sulla croce, unica speranza, che Edith Stein affronta il martirio nelle camere a gas di Auschwitz Birkenau nel caldo agosto 1942.
E’ il culmine di un lungo percorso interiore che l’ha portata dallo studio della filosofia all’impegno per la promozione umana, sociale e religioso della donna, alla vita contemplativa. Nata a Breslavia nella Slesia tedesca nel 1891, undicesima figlia di una coppia di ebrei molto religiosa, Edith si distingue da subito per l’intelligenza brillante che favorirà una visione razionalistica e il giovanile distacco dalla religione.
Interrompe gli studi solo durante la Prima Guerra Mondiale per soccorrere i soldati come infermiera della Croce Rossa. Sarà l’incontro con la Fenomenologia del filosofo Husserl, di cui diviene assistente all’Università di Friburgo approfondendo il tema dell’empatia e quello con il filosofo Max Scheler, insieme alla lettura degli esercizi di Sant’Ignazio e della vita di Santa Teresa d’Avila, a far scaturire la conversione al cristianesimo.

San Giovanni Maria Vianney: Patrono dei Parroci

“Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore”.
La vita di San Giovanni Maria Vianney è tutta racchiusa in questo suo pensiero. Noto come “il Curato d’Ars”, Giovanni Maria Vianney nasce l’8 maggio 1786 a Dardilly, vicino Lione. I genitori sono contadini e lo avviano sin da piccolo al lavoro nei campi, tanto che Giovanni arriva all’età di 17 anni ancora analfabeta. Grazie agli insegnamenti materni, però, conosce a memoria molte preghiere e vive un forte senso religioso. Donato interamente a Dio e ai suoi parrocchiani, muore il 4 agosto 1859, all’età di 73 anni.
Le sue spoglie riposano ad Ars, nel Santuario a lui dedicato, che ogni anno accoglie 450 mila pellegrini. Beatificato nel 1905 da Pio X, Giovanni Maria Vianney viene canonizzato nel 1925 da Pio XI che nel 1929 lo proclama “Patrono di tutti i parroci del mondo”. A Lui, alla sua intercessione affidiamo il nuovo Parroco di san Fiorano, Corno Giovine e Vecchio, don Gianmario Carenzi.

Santi Marta, Maria e Lazzaro

Il 26 gennaio 2021, Papa Francesco ordinò l’iscrizione dei Santi Marta, Maria e Lazzaro nel Calendario Romano Generale, in sostituzione della celebrazione della sola Santa Marta. Il 29 Luglio è la memoria di questa famiglia, tutti e tre molto amici di Gesù. Nel decreto del 2021 sull’unione della venerazione di Maria e Lazzaro con quella di Marta, la Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti ha affermato: “Nella casa di Betania, il Signore Gesù sperimentò lo spirito familiare e l’amicizia di Marta, Maria e Lazzaro, e per questo il Vangelo di Giovanni afferma che li amò. Marta gli offrì generosamente ospitalità, Maria ascoltò con attenzione le sue parole e Lazzaro uscì prontamente dal sepolcro al comando di colui che umiliava la morte”.

Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù. Il suo nome è: ospite, amico e fratello, insieme a quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami, il nome di ognuno.
A causa di Lazzaro sono giunte a noi due tra le parole più importanti del Vangelo: io sono la risurrezione e la vita. Non già: io sarò, in un lontano ultimo giorno, in un’altra vita, ma qui, adesso, io sono.
Notiamo la disposizione delle parole: prima viene la risurrezione e poi la vita.
Secondo logica dovrebbe essere il contrario. Invece no: io sono risurrezione delle vite spente, sono il risvegliarsi dell’umano, il rialzarsi della vita che si è arresa.
Vivere è l’infinita pazienza di risorgere, di uscire fuori dalle nostre grotte buie, lasciare che siano sciolte le chiusure e le serrature che ci bloccano, tolte le bende dagli occhi e da vecchie ferite, e partire di nuovo nel sole: scioglietelo e lasciatelo andare.
Verso cose che meritano di non morire, verso la Galilea del primo incontro.
Io invidio Lazzaro, e non perché ritorna in vita, ma perché è circondato di gente che gli vuol bene fino alle lacrime. Perché la sua risurrezione? Per le lacrime di Gesù, per il suo amore fino al pianto.
Anch’io risorgerò perché il mio nome è lo stesso: amato per sempre; perché il Signore non accetta di essere derubato dei suoi amati. Non la vita vince la morte, ma l’amore. Se Dio è amore, dire Dio e dire risurrezione sono la stessa cosa… Quante volte sono morto, mi ero arreso, era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né vita. E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so perché; una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole, un amico ha spezzato il silenzio, lacrime hanno bagnato le mie bende, e ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: un Dio innamorato dei suoi amici, che non lascerà in mano alla morte.

Marta e Maria sono, nei Vangeli, l’immagine e il simbolo di come deve essere il discepolo che alterna la meditazione e la preghiera all’operosità e al lavoro. Una scorretta interpretazione dei Vangeli ha, nel passato, contrapposto le due sorelle che, invece sono i due binari su cui corre il treno della fede.
Non esiste una meditazione che non sfoci nell’azione. È sterile un servizio che non attinga forza dalla preghiera. In Marta celebriamo l’attivismo, attenta ai bisogni dell’ospite, concreta nel preparargli una cena sicuramente gradita. Il benevolo rimprovero di Gesù non è certo indirizzato alla sua azione, il Maestro avrà molto apprezzato la cena!, ma alla preoccupazione, all’agitazione che hanno caratterizzato la buona iniziativa di Marta.
Siamo chiamati ad agire, certo, e a rendere concreta la nostra fede ma con uno sguardo continuamente rivolto al Signore: è lui l’origine del nostro servizio, lui la motivazione, lui il premio.
Chiediamo a Santa Marta di essere sempre molto concreti nel declinare la nostra fede in gesti quotidiani pieni di speranza.

San Giacomo, l’Apostolo che fa camminare il mondo

È detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo. Lui e suo fratello Giovanni sono figli di Zebedeo, pescatore in Betsaida, sul lago di Tiberiade. Chiamati da Gesù (che ha già con sé i fratelli Simone e Andrea) anch’essi lo seguono. Nasce poi il collegio apostolico.
Con Pietro saranno testimoni della Trasfigurazione, della risurrezione della figlia di Giairo e della notte al Getsemani. Conosciamo anche la loro madre Salome, tra le cui virtù non sovrabbonda il tatto.
Chiede infatti a Gesù posti speciali nel suo regno per i figli, che si dicono pronti a bere il calice che egli berrà. Così, ecco l’incidente: “Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono”. E Gesù spiega che il Figlio dell’uomo “è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.
E Giacomo berrà quel calice: è il primo apostolo martire, nella primavera dell’anno 42. “Il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”. Questo Erode è Agrippa I, a cui suo nonno Erode il Grande ha fatto uccidere il padre (e anche la nonna).
A Roma è poi compagno di baldorie del giovane Caligola, che nel 37 sale al trono e lo manda in Palestina come re. Un re detestato, perché straniero e corrotto, che cerca popolarità colpendo i cristiani.
L’ultima notizia del Nuovo Testamento su Giacomo il Maggiore è appunto questa sul suo martirio.
Dopo la decapitazione, secondo la Legenda Aurea, i suoi discepoli trafugarono il suo corpo e riuscirono a portarlo sulle coste della Galizia. Il sepolcro contenente le sue spoglie sarebbe stato scoperto nell’anno 830 dall’anacoreta Pelagio in seguito ad una visione luminosa. Il vescovo Teodomiro, avvisato di tale prodigio, giunse sul posto e scoprì i resti dell’Apostolo.
Dopo questo evento miracoloso il luogo venne denominato campus stellae (“campo della stella”) dal quale deriva l’attuale nome di Santiago de Compostela, il capoluogo della Galizia.
La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi nel Medioevo, tanto che il luogo prese il nome di Santiago e nel 1075 fu iniziata la costruzione della grandiosa basilica a lui dedicata, meta ogni anno di milioni di pellegrini provenienti da ogni parte d’Europa e del mondo.

Santa Brigida, vero modello di donna, sposa e madre

Santa Brigida è patrona d’Europa e, in una speciale comunione di santi, condivide il compito insieme a san Benedetto da Norcia, santa Caterina da Siena, i santi Cirillo e Metodio e Santa Teresa Benedetta della Croce. Il 23 luglio, è la sua festa. Fondatrice dell’Ordine del Santissimo Salvatore, patrona di Svezia e mamma di santa Caterina di Svezia. Fu papa san Giovanni Paolo II a concederle il titolo di compatrona del nostro continente nell’imminenza del grande giubileo, con un Motu proprio, il 1°ottobre del 1999. Il pontefice che vide con sguardo profetico perché illuminato dalla fede i mali che serpeggiavano nella terra che aveva diffuso nel mondo il bene più grande che l’umanità possa ricevere, Gesù Cristo e che ora lo stava rifiutando e respingendo da ogni ambito della vita, scegliendo, non sempre consapevolmente, una drammatica “apostasia silenziosa”.
Questa santa, mistica e fondatrice, è un robusto e luminoso esempio di vita cristiana nella piena obbedienza alla Chiesa e un modello di ispirazione per la donna, nella sua piena dignità, non subalterna all’uomo ma ordinata secondo i carismi che appartengono, in modo specifico e per il bene di tutti, all’uomo e alla donna.  La vita di Santa Brigida mostra il ruolo e la dignità della donna all’interno della Chiesa, evidenziata nel suo atteggiamento di rispetto e di piena fedeltà al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell’apostolo Pietro. In effetti, nella grande tradizione cristiana si riconosce alla donna una dignità propria, e – seguendo l’esempio di Maria, Regina degli Apostoli – un posto proprio nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della comunità.

San Benedetto da Norcia

Nel prologo della Regola che San Benedetto ha redatto per i suoi monaci si legge: «Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno» . È dunque lecito domandarci che cosa possiamo oggi imparare da San Benedetto, noi e l’Europa che lo riconosce come patrono, in un momento dove riemergono crisi, conflitti e divisioni. Innanzitutto, la Regola afferma che «Quando il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: “Chi è l’uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?”». Destinatari della domanda sono uomini e donne che cercano la vita in pienezza.  Oggi quanti cercano veramente la vita e per essa sono disposti ad impegnarsi, intraprendendo anche cammini difficili, che richiedono dedizione e perseveranza? L’invito di Benedetto ci spinge a riscoprire quello che abita in profondità il nostro cuore, a non mettere da parte i desideri più autentici che a volte siamo portati a credere irrealizzabili e lontani, soprattutto in momenti difficili come questo, con la guerra che è ritornata a ferire l’Europa.
Guardandoci attorno, spesso constatiamo che quello che rende l’umanità così delusa e a volte così violenta è la consapevolezza di un mondo e di una vita insignificanti. C’è una “crisi di senso”. Una vita consegnata alla noia o al consumismo ha in sé i germi della gelosia, dell’invidia e della rivolta. Ora domandiamoci: cos’è che rende questo mondo insignificante? Non sarà che noi lo costruiamo in funzione di finalità che non sono degne dell’uomo? Ricercando sempre più il denaro e l’agio, ci priviamo della gioia della condivisione; accettando tutti i compromessi purché le nostre ambizioni e la nostra sete di potere vengano soddisfatti, impediamo agli altri di crescere; soddisfacendo gli istinti più bassi, ci ripieghiamo su noi stessi, incapaci di conoscere la gioia del fratello la cui felicità si nutre della felicità dei propri fratelli.
San Benedetto ci sprona a ritrovare il vero significato di ogni costruzione umana: esiste una ragione ultima per vivere e questa ragione si chiama Dio che è amore.
Il secondo spunto che il Santo Patriarca può donare a noi e al nostro continente è il tema dell’ospitalità, rispetto al quale scrive nella Regola: «Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”». Il monaco entra in monastero per seguire Cristo; nell’ospite egli deve riconoscere Cristo stesso, cioè la persona per lui più preziosa. È un annuncio molto importante, mentre si respira nei nostri giorni una sempre maggiore diffidenza, una paura dell’altro, visto come una minaccia per la nostra prosperità e la nostra felicità.
Benedetto ci ricorda che l’altro non è solamente qualcuno al quale io devo dare, ma è soprattutto colui dal quale io posso ricevere. La vera  ospitalità si fonda sulla consapevolezza di uno scambio reciproco, nel quale io certamente do, ma soprattutto ricevo.
Infine l’ultimo aspetto che potremmo imparare dal patrono d’Europa per i nostri giorni è il senso di comunità. C’è nella Regola una espressione che è importante recuperare: “tutti insieme”. Occorre camminare insieme senza lasciare indietro nessuno; occorre individuare il “passo giusto” perché nessuno vada troppo avanti e qualcuno rimanga indietro. La comunità delineata da Benedetto non è una gara nella quale si vince se qualcuno arriva per primo, ma dove la vittoria c’è se si arriva “tutti insieme” alla meta. Anche questo oggi dobbiamo imparare nella nostra società europea: non si vince se c’è qualcuno che arriva prima, ma solamente se si cammina tutti insieme e insieme si raggiunge la meta, che è una convivenza civile veramente degna dell’uomo. San Benedetto ci dice che questa è la via. Ci aiuti e sostenga nell’ardua impresa l’intercessione potente del Santo di Norcia. Per noi e per l’Europa tutta.

Maria Goretti: una lezione attuale

Nel Discorso di Pio XII ai fedeli convenuti a Roma per la canonizzazione di santa Maria Goretti, del 24 giugno 1950, il Papa elencò tutte le virtù per le quali la Maria Goretti è stata riconosciuta santa. «Se è vero – affermava Pio XII – che nel martirio di Maria Goretti sfolgorò soprattutto la purezza, in essa e con essa trionfarono anche le altre virtù cristiane. Nella purezza era l’affermazione più elementare e significante del dominio perfetto dell’anima sulla materia; nell’eroismo supremo, che non s’improvvisa, era l’amore tenero e docile, obbediente e attivo verso i genitori; il sacrificio nel duro lavoro quotidiano; la povertà evangelicamente contenta e sostenuta dalla fiducia nella Provvidenza celeste; la religione tenacemente abbracciata e voluta conoscere ogni dì più, fatta tesoro di vita e alimentata dalla fiamma della preghiera; il desiderio ardente di Gesù Eucaristico, e infine, corona della carità, l’eroico perdono concesso all’uccisore: rustica ghirlanda, ma così cara a Dio, di fiori campestri, che adornò il bianco velo della sua prima Comunione, e poco dopo il suo martirio».
In occasione del centenario della morte di santa Maria Goretti, nel 2002, Giovanni Paolo II scrisse: «La mentalità disimpegnata, che pervade non poca parte della società e della cultura del nostro tempo, fatica talora a comprendere la bellezza e il valore della castità. Dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell’altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano. Non v’è forse in ciò una lezione di grande attualità? Di fronte a una cultura che sopravvaluta la fisicità nei rapporti tra uomo e donna, la Chiesa continua a difendere e a promuovere il valore della sessualità come fattore che investe ogni aspetto della persona e che deve quindi essere vissuto in un atteggiamento interiore di libertà e di reciproco rispetto, alla luce dell’originario disegno di Dio. In tale prospettiva, la persona si scopre destinataria di un dono e chiamata a farsi, a sua volta, dono per l’altro».
Oggi come allora la Chiesa propone la piccola martire come modello di riferimento per la virtù della purezza, soprattutto per i giovani. Però, nei nostri tempi, c’è molta meno disponibilità a cogliere questa dimensione. Oggi vediamo un aspetto non secondario della testimonianza fino alla morte di Maria Goretti: il senso della propria dignità, il senso della propria integrità.
Il senso del valore della propria coscienza davanti agli altri e a Dio. Questi aspetti vengono ora in maggiore evidenza in tempi nei quali la donna viene trattata come un oggetto di cui ci si può disfare senza troppi scrupoli, anche con estrema violenza.
Nella testimonianza di questo perdono, che fra l’altro condusse l’assassino sulla via della conversione, che rifulge maggiormente la santità di Maria Goretti, perché questa capacità di amare il proprio persecutore e di pregare per lui, l’ha resa davvero simile a Gesù, che sulla croce pregò per i suoi crocifissori, e a santo Stefano, primo martire, che implorò il perdono per coloro che lo stavano lapidando. Il perdono che in punto di morte Santa Maria Goretti diede al suo aguzzino e la conversione dell’assassino, Alessandro Serenelli, il quale visse l’ultima parte della sua vita ospite di un convento dopo aver scontato la condanna ed aver partecipato alla cerimonia di canonizzazione della sua vittima, sono ancora frutti di una estrema attualità. Sono anch’essi due ‘miracoli’: hanno una validità perenne. Bisogna interpretare la capacità di perdonare che viene dalla grazia di Dio che racconta di una apertura d’animo umana e spirituale davvero esemplare che spinge Maria Goretti a dire: voglio il mio assassino come me in Paradiso!.