Anniversario dei 1700 anni del Primo Concilio Ecumenico

Quest’anno ricorre l’anniversario dei 1700 anni del primo Concilio ecumenico dei cristiani che si tenne a Nicea, vicino Costantinopoli, nel 325 d.C.; questa commemorazione offre un’opportunità unica per riflettere e celebrare la nostra comune fede di cristiani, quale fu espressa nel Credo formulato durante quel Concilio, una fede ancora oggi viva e feconda. La Settimana di preghiera del 2025 ci invita ad attingere a questa eredità condivisa e ad entrare più profondamente nella fede che ci unisce come cristiani.
Il Concilio di Nicea
Convocato dall’imperatore Costantino, il Concilio di Nicea fu celebrato – secondo la tradizione – da 318 Padri, per lo più provenienti dall’oriente. La Chiesa, che stava emergendo proprio allora dalla clandestinità e dalla persecuzione, cominciava a sperimentare quanto fosse difficile condividere la medesima fede nei diversi contesti culturali e politici dell’epoca. Accordarsi sul testo del Credo significò definire i fondamenti essenziali comuni su cui costruire comunità locali che si riconoscessero come chiese sorelle, ciascuna nel rispetto delle diversità delle altre.
Nei decenni precedenti erano sorte divergenze tra i cristiani, talvolta degenerate in gravi conflitti e dispute riguardanti svariate questioni quali: la natura di Cristo in relazione al Padre; l’accordo su un’unica data per celebrare la Pasqua e il suo rapporto con la Pasqua ebraica; l’opposizione a opinioni teologiche considerate eretiche; la riammissione dei credenti che avevano abiurato la fede durante le persecuzioni perpetrate negli anni precedenti.
Il testo del Credo approvato utilizzava la prima persona plurale: “Noi crediamo…”, formula che sottolineava un’appartenenza comune. Il Credo era costituito da tre parti, dedicate ciascuna ad una delle tre Persone della Trinità, cui seguiva una conclusione in cui venivano condannate le affermazioni considerate eretiche. Il testo di questo Credo fu rivisto e ampliato durante il Concilio di Costantinopoli del 381 d.C., in cui furono eliminate le condanne. Si raggiunse così quella formulazione della professione di fede che le chiese cristiane oggi riconoscono come “Credo niceno-costantinopolitano”, spesso indicato semplicemente come “Credo niceno”.
Dal 325 al 2025
Nonostante il Concilio di Nicea abbia stabilito il modo in cui calcolare la data della Pasqua, successive divergenze di interpretazione hanno fatto sì che spesso oriente e occidente abbiano individuato diverse date per la celebrazione pasquale. Nell’attesa che la data della celebrazione pasquale torni nuovamente a coincidere ogni anno, in questo anniversario del 2025 – per una felice coincidenza – questa solennità sarà celebrata nella stessa data sia dalle chiese di oriente che da quelle di occidente. Il significato degli eventi salvifici che tutti i cristiani celebreranno la domenica di Pasqua, 20 aprile 2025, non è mutato con il passare di questi diciassette secoli.
La Settimana di preghiera per l’unità rappresenta la possibilità per i cristiani di analizzare e ravvivare questa eredità e di riappropriarsene in modi consoni alla cultura contemporanea, nelle sue varie articolazioni, oggi ancor più complesse rispetto a quelle del mondo cristiano ai tempi del Concilio di Nicea. Vivere insieme la fede apostolica non significa riaprire le controversie teologiche di allora, protrattesi nei secoli, quanto piuttosto rileggere, in atteggiamento di preghiera, i fondamenti scritturistici e le esperienze ecclesiali che hanno condotto alla celebrazione del Concilio e ne hanno motivato le decisioni.

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

“Credi tu questo?”: significa credere nella persona di Cristo e nel suo Spirito sia nella storia e nella vita personale di ognuno di noi, sia come chiese cristiane. In questo presente tempo in cui lo scetticismo verso i principi e le verità evangeliche sembra farla da padrone, i cristiani sono chiamati a credere e soprattutto vivere la fede in Gesù credendo alla sua Parola, credendo a ciò che può sembrare impossibile, perché il nostro Dio è l’Iddio dell’impossibile.
La risurrezione è un vero e proprio ritorno alla vita, è un miracolo di Dio che si accetta per fede, estraneo al pensiero del nostro tempo ma è un miracolo e un dono. E la risurrezione di Cristo è garanzia della risurrezione dei credenti e della realtà della comunione dei Santi, aprendo nuove prospettive sul piano personale e comunitario, sul piano escatologico e sul piano esistenziale ed ecclesiale.

“Credi tu questo?”: anche nel cammino ecumenico si tratta di credere in Cristo nostra speranza, che nella sua Carne ha abbattuto il muro della divisione e ha fatto di due popoli una cosa sola. Si tratta quindi di immergere in lui e nel suo Spirito il nostro cammino che porta i segni delle fragilità e degli interrogativi del presente. Crediamo che l’ecumenismo non sia soltanto un lavoro diplomatico, incontro al vertice o l’intesa pratica in uno spirito di collaborazione per le diverse iniziative, ma sia innanzitutto incontro personale con Cristo, guardarlo negli occhi e credere in lui e nella sua forza trasformante. Alle volte siamo presi dalla tentazione di accomodarci sui risultati raggiunti o dalla delusione per il fatto che dopo i documenti congiunti di particolare rilievo sul piano storico e teologico non si sia già arrivati all’unità auspicata.
Pensiamo a Paolo VI e Athenagoras che già 60 anni fa, il 7 dicembre 1965, auspicavano di celebrare mangiando dall’unico pane e bevendo dall’unico calice. Credi tu questo?”. Dunque, si tratta di credere nella risurrezione anche per quanto riguarda il cammino ecumenico. Sì, credere nella persona di Cristo.
È lui che ha trasformato ogni immobilismo, ogni rigidità ogni tentazione, ogni difficoltà in luce, ogni morte in vita. Anche per il cammino ecumenico.

“Credi tu questo?”: significa credere nello Spirito di Cristo che ci guida alla verità tutta intera.
Noi cristiani delle diverse chiese crediamo che lo stesso Spirito che ha contraddistinto i primi cristiani a Nicea ci raduna insieme e ci sta facendo fare insieme un cammino di fraternità e di profonda accoglienza.
Il Concilio di Nicea che ricordiamo nell’anniversario dei 1700 anni della sua convocazione, è di profonda attualità anche oggi, perché ci offre l’immagine di un Dio che in se stesso è comunione, è dialogo, è amore: la Trinità come modello di unità nella diversità, proclamando il Figlio come consustanziale al Padre si mette in evidenza non solo che il Figlio è Dio come è Dio il Padre, Dio vero da Dio vero, ma come l’amore costituisca lo specifico della Trinità, dove ogni Persona ha la sua specifica identità nella piena unità e nella totale donazione alle altre. Il Concilio di Nicea ci mostra la Trinità come modello dell’unica Chiesa di Cristo e ci ricorda che il cammino ecumenico si alimenta nell’amore reciproco che costituisce l’essere di Dio.
Ancora oggi ci viene chiesto: credi tu questo? E ancora oggi possiamo dire che crediamo fermamente in Cristo e nell’azione del suo Spirito, e crediamo che la comunione possa costituire il centro della ecclesiologia cristiana e la meta del cammino ecumenico: tutti uno in Cristo, risurrezione e vita.
Che il Signore ci aiuti a proseguire in questo cammino!

La strada ecumenica

Il tema scelto quest’anno per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, è “Ama il Signore Dio tuo… e ama il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10, 27).

Gesù ha pregato che i suoi discepoli fossero tutti una cosa sola: per questo motivo non possiamo, come comunità cristiana, perdere la speranza o smettere di pregare e operare per l’unità. Siamo uniti, in Cristo, dal nostro comune amore per Dio e dalla consapevolezza di essere amati da Dio. Quando preghiamo, adoriamo e serviamo Dio insieme, ci riconosciamo reciprocamente nella medesima esperienza di fede, e tradurre tale consapevolezza in relazioni vitali tra noi e tutte le chiese, rimane una sfida aperta. La reciproca mancanza di conoscenza tra le chiese e il mutuo sospetto indeboliscono l’impegno nell’intraprendere la strada ecumenica. Alcuni possono temere che l’ecumenismo porti ad una perdita di identità confessionale e impedisca la “crescita” della loro chiesa, ma tale rivalità tra le chiese è contraria alla preghiera di Gesù.
Come il sacerdote e il levita nel brano evangelico, noi cristiani spesso non cogliamo l’opportunità di entrare in relazione con i nostri fratelli e le nostre sorelle a motivo di questo timore.
Durante questa Settimana di preghiera per l’unità, chiediamo al Signore di venire in nostro aiuto, di curare le nostre ferite e permetterci, così, di percorrere la via dell’ecumenismo con fiducia e speranza.

La centralità dell’amore nella vita cristiana

Il tema scelto quest’anno per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, è “Ama il Signore Dio tuo… e ama il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10, 27).

L’amore è il DNA della fede cristiana. Dio è Amore e “l’amore di Cristo ci ha riuniti in una cosa sola”.
Troviamo la nostra comune identità nell’esperienza dell’amore di Dio e manifestiamo questa identità al mondo nella misura in cui ci amiamo gli uni gli altri. Nel brano scelto per la Settimana di preghiera 2024 (Lc 10, 25-37), Gesù ribadisce l’insegnamento ebraico tradizionale contenuto nel Libro del Deuteronomio 6, 5: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”,
e nel Libro del Levitico 19,18b “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Il dottore della Legge nel brano evangelico scelto per la Settimana chiede subito a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?”. Si trattava di una questione – quella relativa all’estensione dell’obbligo biblico di amare – assai dibattuta tra i dottori della Legge. Tradizionalmente si credeva che si estendesse agli Israeliti e agli stranieri residenti, ma, nel tempo, a motivo dell’impatto delle invasioni da parte di potenze straniere, il comandamento venne inteso come non applicabile agli stranieri delle forze occupanti e successivamente, mentre l’Ebraismo stesso si andava frammentando, lo si considerava, talvolta, applicabile unicamente alla propria particolare fazione. La domanda posta a Gesù dal dottore della Legge è dunque provocatoria, ed Egli vi risponde con una parabola che illustra come l’amore si estenda ben oltre i limiti immaginati dal dottore della Legge.
Noi cristiani siamo chiamati ad agire come Cristo, ad amare come il Buon Samaritano, mostrando misericordia e compassione verso chi è nel bisogno, a prescindere dalla sua identità religiosa, etnica o sociale.
La forza che spinge a soccorrere e aiutare chi è nel bisogno non deve risiedere nel fatto di condividere la medesima identità, ma nel fatto di considerarlo “prossimo”. Questa visione dell’amore del prossimo che Gesù ci sprona a seguire è tuttavia messa a dura prova nel mondo di oggi. Ma è soltanto imparando ad amarci reciprocamente, nonostante le differenze, che noi cristiani possiamo farci prossimo per gli altri.

Imparate a fare il bene

Nella pericope biblica scelta quale tema per la Settimana di preghiera per l’unità, il profeta Isaia ci mostra come curare questi mali. Imparare a fare il bene richiede la decisione di impegnarsi in un esame di coscienza.
La Settimana di preghiera è il momento più adatto perché i cristiani riconoscano che le divisioni tra le chiese e le confessioni non sono poi tanto diverse dalle divisioni all’interno della più ampia famiglia umana. Pregare insieme per l’unità dei cristiani ci permette di riflettere su ciò che ci unisce e di impegnarci a combattere l’oppressione e la divisione della famiglia umana.
Il profeta Michea sottolinea che Dio ci ha detto ciò che è bene e che cosa vuole da noi: “Praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio”.
Agire con giustizia significa avere rispetto per tutte le persone.
La giustizia richiede un trattamento veramente equo per superare le condizioni sfavorevoli, sviluppatesi nella storia, a motivo della “razza”, del genere, della religione e del livello socio-economico. Vivere con umiltà davanti a Dio richiede pentimento, ammenda e infine riconciliazione. Dio si aspetta da noi che, uniti, condividiamo la responsabilità per l’uguaglianza tra tutti i suoi figli e le sue figlie. L’unità dei cristiani dovrebbe essere segno e pegno dell’unità riconciliata dell’intera creazione. Al contrario, la divisione tra cristiani indebolisce la forza di quel segno, e finisce per acuire la divisione piuttosto che portare guarigione alle ferite e alla vulnerabilità del mondo che è, invece, la missione della Chiesa.

Isaia, ai suoi tempi, sfidò il popolo di Dio a imparare a fare il bene insieme; a cercare insieme la giustizia, ad aiutare insieme gli oppressi, a proteggere gli orfani e difendere le vedove insieme.
La sfida del profeta si applica anche a noi oggi: come possiamo vivere la nostra unità di cristiani per affrontare i mali e le ingiustizie del nostro tempo? Come possiamo impegnarci nel dialogo e crescere nella reciproca consapevolezza, comprensione e condivisione delle esperienze vissute?
La nostra preghiera e il nostro incontrarci con il cuore hanno il potere di trasformarci, come individui e come comunità. Apriamoci alla presenza di Dio in ogni nostro incontro, mentre chiediamo la grazia di essere trasformati, di smantellare i sistemi di oppressione e di guarire dal peccato della divisione. Insieme, impegniamoci nella lotta per la giustizia nella nostra società. Tutti noi apparteniamo a Cristo.

Imparate a fare il bene e cercate la giustizia (Is. 1,17)

È questa perentoria affermazione del profeta Isaia che le sorelle e i fratelli del Minnesota (USA) pongono alla nostra riflessione per la preghiera comune di quest’anno. È un ammonimento che riceviamo, da comprendere anzitutto nel contesto più generale del linguaggio profetico. Il pensiero 693 del filosofo francese Blaise Pascal ci esorta: “senza la voce dei profeti, non sapremmo chi ci ha messo in quest’angolo di universo, che cosa siamo venuti a fare e che cosa diventeremo morendo”.
Niente meno di questo ci pone sotto gli occhi la pagina profetica che ci guiderà nella preghiera quest’anno.

L’unità dei cristiani

In questa Settimana, la Chiesa di Cristo invita i suoi figli a pregare per la così tanto desiderata, ma così lacerata nei secoli, unità visibile della Chiesa. Rivolge questo invito sempre inalterato nei momenti felici, nei momenti di guerra, di carestie, di malattie. Non lo rivolge riferendosi all’uomo, stressato da tante preoccupazioni e dalle tentazioni tramite le quali la nostra epoca cerca di distrarlo, rendendolo indifferente verso le questioni di fede, ma lo rivolge, perlopiù, alle conseguenze che queste distrazioni e tentazioni, in generale, portano, come la paura, l’angoscia, la mancanza di fiducia verso il prossimo, che potenzialmente rischia di diventare la causa della nostra sofferenza. L’umanità di oggi si richiude in se stessa, cerca di recidere i rapporti con il prossimo e vivere non soltanto in una separatezza fisica, ma in un isolamento spirituale, che fa crescere a dismisura la sua solitudine e la sua sofferenza psicofisica.

Arenandosi nella loro solitudine esistenziale, gli uomini e le donne di oggi gridano a se stessi e si chiedono: ma che valore può avere la nostra preghiera davanti alle tante divisioni che strappano l’unica tunica di Cristo? Che valore può avere la preghiera di fronte al dominio della morte? Non si può rispondere a queste domande, se prima l’essere umano non accetta spiritualmente il grande evento della Visita Divina. Tante volte le condizioni della vita umana induriscono il cuore e la grazia di Dio fa fatica a penetrarlo. Per poter capire e accettare chi è Colui che ci visita e al Quale rivolgiamo la preghiera, l’uomo deve preparare il presepio della sua anima, non tramite un cambiamento esteriore o attraverso uno sterile perfezionamento morale. Ci vuole la conversione di tutto il nostro essere, accettare Cristo come il Signore della nostra vita, accogliendolo nella nostra anima, pur sapendo che essa assomiglia più ad una stalla, riempita da tutto ciò che ci affligge e ci opprime. È molto bello il paragone che i Padri fanno tra anima e stalla.
Come Cristo si è degnato di nascere in una stalla, così si degna e sì rallegra quando entra nella nostra anima convertita

Stando insieme come comunità cristiana, pregando, elevando suppliche e dossologia al nostro unico Salvatore in ogni giorno di questa Settimana, nella celebrazione dell’Eucaristia, riviviamo anche noi misticamente quella notte, dove il cielo e la terra si sono uniti in un’unica lode. Illuminati dal comune battesimo, insieme siamo come piccole stelle che adornano in modo intellegibile il cielo spirituale della Chiesa di Cristo e l’intero universo. Una grande casa capace di accogliere il prossimo non come straniero ma quale fratello e sorella che cerca una famiglia dove trovare sollievo, luce e speranza.

In oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo

Come Lui, che per divina condiscendenza riceve ciò che è nostro, escluso il peccato, ci invita ogni anno a preparare la nostra anima e il nostro corpo per farne Sua dimora regale, così ci invita a pregare e a collaborare per la riconciliazione e il superamento delle nostre divisioni. Cristo nasce e diventa bambino per la nostra salvezza. Come gli angeli, i magi, i pastori e l’intera creazione Lo hanno accolto con devozione e la stella l’ha manifestato ai popoli, così spetta a noi convertirci ed unirci nell’unico corpo mistico per lodare ed inneggiare, con una sola voce ed un solo cuore, il Suo onorabilissimo e magnifico Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

L’unità dei cristiani

In questa Settimana, la Chiesa di Cristo invita i suoi figli a pregare per la così tanto desiderata, ma così lacerata nei secoli, unità visibile della Chiesa. Rivolge questo invito sempre inalterato nei momenti felici, nei momenti di guerra, di carestie, di malattie. Non lo rivolge riferendosi all’uomo, stressato da tante preoccupazioni e dalle tentazioni tramite le quali la nostra epoca cerca di distrarlo, rendendolo indifferente verso le questioni di fede, ma lo rivolge, perlopiù, alle conseguenze che queste distrazioni e tentazioni, in generale, portano, come la paura, l’angoscia, la mancanza di fiducia verso il prossimo, che potenzialmente rischia di diventare la causa della nostra sofferenza. L’umanità di oggi si richiude in se stessa, cerca di recidere i rapporti con il prossimo e vivere non soltanto in una separatezza fisica, ma in un isolamento spirituale, che fa crescere a dismisura la sua solitudine e la sua sofferenza psicofisica.

Arenandosi nella loro solitudine esistenziale, gli uomini e le donne di oggi gridano a se stessi e si chiedono: ma che valore può avere la nostra preghiera davanti alle tante divisioni che strappano l’unica tunica di Cristo? Che valore può avere la preghiera di fronte al dominio della morte? Non si può rispondere a queste domande, se prima l’essere umano non accetta spiritualmente il grande evento della Visita Divina. Tante volte le condizioni della vita umana induriscono il cuore e la grazia di Dio fa fatica a penetrarlo. Per poter capire e accettare chi è Colui che ci visita e al Quale rivolgiamo la preghiera, l’uomo deve preparare il presepio della sua anima, non tramite un cambiamento esteriore o attraverso uno sterile perfezionamento morale. Ci vuole la conversione di tutto il nostro essere, accettare Cristo come il Signore della nostra vita, accogliendolo nella nostra anima, pur sapendo che essa assomiglia più ad una stalla, riempita da tutto ciò che ci affligge e ci opprime. È molto bello il paragone che i Padri fanno tra anima e stalla.
Come Cristo si è degnato di nascere in una stalla, così si degna e sì rallegra quando entra nella nostra anima convertita

Stando insieme come comunità cristiana, pregando, elevando suppliche e dossologia al nostro unico Salvatore in ogni giorno di questa Settimana, nella celebrazione dell’Eucaristia, riviviamo anche noi misticamente quella notte, dove il cielo e la terra si sono uniti in un’unica lode. Illuminati dal comune battesimo, insieme siamo come piccole stelle che adornano in modo intellegibile il cielo spirituale della Chiesa di Cristo e l’intero universo. Una grande casa capace di accogliere il prossimo non come straniero ma quale fratello e sorella che cerca una famiglia dove trovare sollievo, luce e speranza.

Rimanendo in Cristo, sorgente di ogni amore cresce il frutto della comunione

La comunione in Cristo richiede la comunione con gli altri. Doroteo di Gaza, un monaco della Palestina del VI secolo, lo esprime con queste parole: “Immaginate un cerchio disegnato per terra, cioè una linea tracciata come un cerchio, con un compasso e un centro. Immaginate che il cerchio sia il mondo, il centro sia Dio e i raggi siano le diverse strade che le persone percorrono. Quando i santi, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, nella misura in cui penetrano al suo interno, si avvicinano l’un l’altro e più si avvicinano l’uno all’altro più si avvicinano a Dio. Comprendete che la stessa cosa accade al contrario, quando ci allontaniamo da Dio e ci dirigiamo verso l’esterno. Appare chiaro, quindi, che più ci allontaniamo da Dio, più ci allontaniamo gli uni dagli altri e che più ci allontaniamo gli uni dagli altri, più ci allontaniamo da Dio”.

Avvicinarci agli altri, vivere insieme in comunità con altre persone, a volte molto diverse da noi, costituisce una sfida. Non vi è amicizia senza sofferenza purificatrice, non vi è amore per il prossimo senza la croce. Solo la croce ci permette di conoscere l’imperscrutabile profondità dell’amore”. Le divisioni tra i cristiani, il loro allontanamento gli uni dagli altri, è uno scandalo perché significa anche allontanarsi ancor di più da Dio. Molti cristiani, mossi dal dolore per questa situazione, pregano ferventemente Dio per il ristabilimento dell’unità per la quale Gesù ha pregato. La sua preghiera per l’unità è un invito a tornare a lui e, conseguentemente, a riavvicinarci gli uni gli altri, rallegrandoci della nostra diversità.

Come impariamo dalla vita comunitaria, gli sforzi per la riconciliazione costano e richiedono sacrifici. Siamo sostenuti, però, dalla preghiera di Cristo che desidera che noi siamo una cosa sola, come lui è con il Padre, perché il mondo creda.