Oggi è Pasqua

“Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo trionfa. Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto”.
È un annuncio di gioia che percorre tutta la liturgia pasquale. Siamo sicuri che verrà accolto nel profondo dell’esistenza di ognuno di noi che saremo partecipi, come comunità parrocchiale, per celebrare il mistero della nostra salvezza, come una luce che rischiara il cammino quotidiano.
Non oso pensare che noi cristiani di san Fiorano correremo il rischio di lasciarci scivolare via, senza scalfirci, senza produrre alcun effetto, questa Pasqua. Neppure oso pensare che sarà per noi solamente un momento rituale, tanto solenne quanto disancorato dalla realtà di ogni giorno e dai suoi problemi. Sono convinto, invece, che vivremo insieme la Pasqua e ne faremo esperienza di vita comunitaria ed esperienza nella nostra carne.
Sì, da questo mistero di salvezza troveremo vigore e forza per testimoniare nella nostra esistenza un’altra vita, nuova, piena, donata. Così impareremo a considerare tutte quelle piccole risurrezioni che ci consentono di intravedere ciò che è accaduto in Gesù Cristo.
Quando l’amore farà sempre il primo passo e permetterà il perdono … Quando lo sguardo o la mano tesa consentiranno all’uomo ferito di rialzarsi e di riprendere il cammino … Quando la vita verrà condivisa e donata … Tutte queste piccole risurrezioni al plurale saranno un segno che ciascuno di noi e tutti insieme abbiamo celebrato la Pasqua. Potranno diventare un invito e un monito perché altri membri della nostra Parrocchia si sentano coinvolti in prima persona ad entrare in questo Mistero e non dovranno cercare altrove: la risurrezione è già donata.
La forza della Risurrezione ha la capacità di coinvolgere tutti. I segni della tomba vuota offrono un indizio valido per il discepolo “che Gesù amava” e sono offerti anche a noi attraverso il Vangelo.
Da questo spunto e da altri, che possono essere accolti nella nostra vita, parte il cammino della relazione personale che ogni credente deve instaurare col il Cristo Risorto.
Insieme abbiamo condiviso il punto di partenza, l’itinerario della Quaresima.
Insieme abbiamo vissuto i vari momenti e le tappe di questo cammino di adesione a Cristo.
Ora, insieme come credenti e comunità cristiana, ci ritroviamo a celebrare il Signore della Vita.
La Pasqua di Gesù è il culmine di una vita spesa totalmente nella dedizione per gli altri, nell’amore del prossimo, alla luce di una radicale relazione con Dio Padre. È solo in questo orizzonte che trova davvero senso la ricerca della felicità cristiana.
In questo senso, allora, la felicità della Pasqua può diventare qualcosa di quotidiano, di “semplice”, che illumina e orienta tutti i nostri giorni.

Contempliamo il crocifisso

È lo stupore a dominare la celebrazione di oggi, di pari passo con il dolore.
Un’emozione tanto ricercata quanto vilipesa: nulla più stupisce oggi, eppure vogliamo essere stupiti per essere interessati. La mancanza di stupore è mancanza di aspettative, di idee, di progetti disponibili a farsi cambiare in modo inaspettato e repentino. Vogliamo la novità, ma solo nei tempi e nei modi che ci fanno più comodo. Essere stupiti è un po’ come essere traditi: le cose non vanno come previsto e siamo costretti, dolorosamente, a rivedere le nostre speranze. È doloroso, quindi preferiamo non sperare. La croce è come una lama piantata nell’apatia dell’animo umano: una contraddizione incredibile, che ci spoglia delle maschere e delle ipocrisie, anche di quelle più pie e sante, e ci mette di fronte al dolore di fare i conti con la vita.

Oggi la liturgia ci invita a contemplare il Cristo in croce, a stare in silenzio davanti a lui, lasciandoci accompagnare dal racconto della Passione secondo Giovanni. Lì troviamo una domanda, che del resto percorre tutto il vangelo: chi è Gesù? È proprio la croce, paradossalmente, a svelarlo, perché quella è «l’ora» in cui tutto viene manifestato. Viene manifestato Gesù. La sua divinità appare proprio nella debolezza, nella fragilità, là dove mai e poi mai avremmo creduto di trovare Dio. Facciamo fatica a riconoscerlo nel volto sfigurato del Cristo. Abituati a considerare Dio come colui che sfugge alle insidie e riporta sempre la vittoria, ci troviamo in difficoltà davanti alla condanna e alle umiliazioni a cui viene sottoposto Gesù, alla sconfitta che subisce sotto gli occhi di tutti. È la sua morte, per amore, che risulta fondamentale per cogliere la sua identità. Il Messia disarmato e flagellato, condannato e messo a morte, emana una forza interiore a cui non si può resistere. È la forza dell’amore, che non si dà per vinto, neanche di fronte al rifiuto, all’ingratitudine, alla cattiveria. Ed è insieme la forza della verità, che trionfa sulle oscure forze del male. Viene manifestato anche il volto di Dio, il Padre. Non è affatto il Dio che esige il sacrificio, ma il Dio che offre il proprio Figlio. E «soffre» accanto a lui sulla croce. Non è il Dio che piega gli altri al suo volere, ma colui che propone un progetto di amore attraverso la croce del Figlio. Non è il Dio che resta lontano dalle vicende umane, ma il Dio che pianta la sua tenda nella nostra storia e corre tutti i rischi che questo comporta. Viene manifestata anche la nostra identità. Ai piedi della croce ci scopriamo destinatari di questo amore tanto smisurato da essere sconvolgente. Ai piedi della croce riceviamo il dono che Cristo ci fa della sua vita. Ci lasciamo dunque bagnare dall’acqua e dal sangue che escono dal suo costato aperto, ci lasciamo rigenerare dal battesimo e dall’eucaristia, dalla grazia “a caro prezzo”, dal sacrificio che cambia la storia. È proprio dalla croce, strumento di condanna e di morte, che ci giunge la vita. Quel legno, irrorato dal sudore dell’agonia, dal sangue che esce da un corpo martoriato, diventa l’albero della vita a cui tutti ci rivolgiamo per ricevere misericordia e salvezza. Da quel legno, issato sulla collina del Calvario, scende a noi la grazia di Dio, come un dono immeritato, il dono di una vita, spezzata per amore.

I gesti di quella sera

Il cammino quaresimale ci ha portati al suo culmine: la scelta libera e responsabile di accogliere la vita di Cristo e di donarla a nostra volta. Gesù consegna ai suoi discepoli, quindi anche a noi, il gesto memoriale di questa scelta, ovvero la celebrazione della sua morte e risurrezione nei segni del pane e del vino. L’eucaristia celebra il dono della vita, ricevuto e dato: un fatto senza tempo, in quanto senso profondo della vita stessa, segno della nostra somiglianza con Dio.
Saremo giudicati su questo: non se avremo fatto cose buone o cattive, ma se avremo concluso la nostra vita ringraziando per essa e donandola per amore degli altri. Nel rito del pane e del vino la barriera tra sacro e profano cade: la vita diventa liturgia, cioè azione di grazie e offerta a Dio; la liturgia diventa vita, cioè esperienza di fraternità concreta.

È strano: di quella sera, in cui Gesù celebra la Cena della Pasqua antica prima di affrontare la sua Pasqua di morte e risurrezione, gli evangelisti ricordano due gesti diversi. Non tutti e due, ma o l’uno o l’altro.
Matteo, Marco e Luca ricordano il pane spezzato e il calice del vino offerto ai commensali; Giovanni la lavanda dei piedi. A entrambi i gesti è legato un comando esplicito di Gesù, perché i discepoli li ripetano.
In effetti in quelle azioni c’è tutto Gesù, la sua vita e la sua morte, la sua Passione e la sua risurrezione. Solo attraverso quei gesti possiamo comprendere e accogliere il suo dono. C’è un pane sulla tavola, ma non è un pane qualunque. È la stessa vita di Gesù, quella vita che è stata interamente offerta. Gesù ha regalato tutto: il suo tempo e le sue energie, la sua misericordia e la sua compassione, la sua lotta contro il male e contro ogni ipocrisia, la sua difesa dei piccoli e degli abbandonati. C’è del vino sulla tavola, ma non è un vino qualsiasi. Ha il colore del sangue, quel sangue versato dalla croce, per un’alleanza nuova ed eterna, un’alleanza che nulla avrebbe potuto più infrangere e mettere in pericolo. Ha il colore caldo dell’amore, che si sacrifica fino in fondo. Chi può sedersi a questa tavola, chi può mangiare questo pane e bere questo vino? Solo chi ammette di essere un povero, solo chi dichiara la sua fame e la sua sete, solo chi viene con il suo desiderio di entrare in comunione con lui e di essere trasformato. Ci sono un catino e una brocca, un grembiule e un asciugatoio. Gesù vuole lavarci i piedi per liberarci da ogni male, da ogni cattiveria presente nel nostro cuore. Gesù accetta di chinarsi, di inginocchiarsi davanti a noi, di diventare nostro servo, pur di farci entrare in un’esistenza nuova.
Dobbiamo allora abbandonarci al suo amore con la stessa fiducia di un bambino.
Solo così potremo entrare nel suo Regno, dopo essere stati interamente lavati dalla sua misericordia smisurata.
La celebrazione si conclude con la processione con il Santissimo Sacramento fino alla Chiesina. Breve momento di Adorazione Comunitaria e spazio per la preghiera silenziosa e personale.

Per una vigorosa mitezza

Gesù nei vangeli non è immune al sentimento della rabbia: esprime la sua indignazione verso la fredda e spietata ipocrisia dei farisei, dei sacerdoti e degli anziani. I loro atteggiamenti sono così contrari a quelli di Gesù che egli non può fare a meno di fremere. L’ira diventa un vizio quando si decide di alimentarla, di assecondarla, sacrificando ad essa tutto il resto. Gesù non fa così. Il Figlio di Dio prova rabbia, che diventa tristezza per le meschinità interiori degli uomini: così, in modo totalmente mite e arrendevole, può assecondare la volontà del Padre che vede nel suo sacrificio la via per cambiare i cuori. È questa volontà divina di salvezza a orientare Gesù anche nella sua umanità: nel suo rapporto perfetto con Dio, avrebbe potuto ignorare tutto il resto, ma è proprio questo rapporto perfetto che gli impedisce di conservare per sé questo privilegio. Quanto le nostre azioni sono guidate da una simile volontà di salvezza? E quanto invece dall’orgoglio personale che cerca soddisfazione per ogni minima offesa? I conflitti di questi ultimi anni dovrebbero ricordarci quanto dolore e sofferenza inutili siamo in grado di provocarci a vicenda. Anche se magari non siamo direttamente coinvolti, quale primo, difficile passo potremmo fare verso la pace?

Temperanza e Ira

Saper resistere all’ira non è solo questione di carattere: è una precisa scelta, che può esporre a situazioni di debolezza. Giotto rappresenta questa virtù come una donna composta, quasi austera, che regge in mano una spada saldamente fasciata dentro il fodero, segno dell’intenzione di non usarla mai. In bocca ha un morso da cavallo, indice di un autocontrollo che inizia già dal modo di parlare. Al contrario, l’ira è una donna in preda alla frenesia, imbruttita dall’odio, che si straccia le vesti nel tentativo di trovare uno sfogo: una posa molto simile a quella del sacerdote Caifa, rappresentato da Giotto nel riquadro che racconta il processo di Gesù davanti al sinedrio. L’ira è fonte di scelte impulsive e sbagliate e, in ultima analisi, lascia molto più vulnerabili della temperanza.

Cuore che arde

Il 24 marzo 2024 segna la trentaduesima Giornata dei Missionari Martiri.
L’evento ha origine nella commemorazione di Sant’Oscar Romero, ucciso nella stessa data nel 1980.
Questo giorno, scelto in coincidenza con l’uccisione dell’Arcivescovo di San Salvador, è un’occasione per riflettere sul significato dell’eredità che ha lasciato e per onorare quanti, come lui, hanno sacrificato la propria vita nel servizio.
La data del 24 marzo fu scelta in modo simbolico, per sottolineare la fedeltà al Vangelo dimostrata da coloro che hanno sacrificato la propria esistenza nell’annuncio della Buona Novella, in condizioni spesso ostili e ingiuste, proprio come Romero. In quest’occasione, la comunità è invitata a commemorare non solo i missionari caduti, ma anche a riflettere sul significato del loro sacrificio. Il loro esempio ci spinge a un impegno rinnovato nell’assistenza ai più bisognosi e nel combattere le ingiustizie sociali, ricordandoci che anche nei luoghi più remoti e dimenticati, il messaggio di speranza del Vangelo resta vitale e trasformativo. Per questa edizione, è stato scelto il titolo “Un cuore che arde”, un riferimento al brano dei discepoli di Emmaus. Richiama la forza della testimonianza dei martiri che, come Gesù attraverso la condivisione della Parola e il pane spezzato, con il loro sacrificio accendono una luce e riscaldano i cuori di intere comunità cristiane, ispirando una nuova conversione, dedizione al prossimo e al bene comune. Durante questa Giornata, che cade la Domenica delle Palme e nel corso di tutta la Settimana Santa, uniamoci nella preghiera per tutti i missionari, soprattutto per coloro che hanno perso la vita nel servizio.

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

In questi anni di conflitti non è facile parlare in modo concreto di riconciliazione: “fare un passo indietro”, “perdonare i torti subiti” o addirittura “porgere l’altra guancia” suonano molto fuori luogo, ma solo perché sono diventati consigli moralistici da dare ad altri. Della mitezza di Gesù, Servo sofferente per colpa di altri, devo farmi carico io, prima che gli altri. È la radicalità di un Dio che, radicalmente, rinuncia alla propria divinità per condividere in tutto e per tutto il dolore dell’umanità. Gesù lascia fare, affinché nel cuore di chi lo guarda emerga l’unico sentimento capace di trasformare davvero il cuore: la compassione, che ci impedisce di ragionare freddamente di numeri, ricordandoci che quei numeri sono persone.
Al loro posto potremmo esserci noi, potrebbero esserci i nostri cari, sicuramente al loro posto c’è il Signore Gesù, perché così ha scelto. Potremmo dire che Gesù ci salva mediante la croce perché suscita la nostra compassione, e la compassione è l’unica cosa che, come esseri umani, ci può salvare.

Quest’uomo è il Figlio di Dio

La scena – dobbiamo ammetterlo – non ha nulla di grandioso. Colui che fa il suo ingresso a Gerusalemme non ha l’aspetto di un generale vittorioso che arriva a cavallo per celebrare il suo trionfo sui nemici. Gesù è a dorso di un asino, cavalcatura piuttosto dimessa, e per di più presa in prestito. Chi si aspetta il Messia che scaccerà dalla Palestina l’invasore romano rimarrà subito deluso. Chi si aspetta il potente, che avanza nel nome di Dio, deciso a fare giustizia e a castigare, non trova la risposta attesa. Il segnale è chiaro, per tutti: quest’uomo viene nella mitezza, nella compassione, nella misericordia. Viene per donare il suo amore ed è disposto addirittura a morire.
Non è il forte che spazza via la vita di chi gli si oppone, ma è il buono che piuttosto offre la sua. L’entusiasmo di un gruppo di pellegrini, che si sta recando nella Città santa per la Pasqua, la loro dimostrazione di affetto verso Gesù, rimane tuttavia un segno importante, da non minimizzare.
I poveri accolgono con gioia l’Inviato di Dio proprio perché viene così. I poveri avvertono che questa strada, che ai più sembra inusitata, Dio la percorre per venire incontro proprio a loro, per consolarli e per donare loro speranza. I poveri si mettono in sintonia con il cuore di Dio e ravvisano ciò che conta veramente. Del resto questo paradosso lo troviamo proprio alla fine del racconto della Passione e morte di Gesù, secondo Marco. Che cos’ha di grande, di divino, quell’uomo seminudo, che muore tra atroci dolori, inchiodato alla croce? Eppure è proprio davanti al Cristo crocifisso che il centurione – uno straniero, un pagano – riconosce che quell’uomo è il Figlio di Dio. Non perché ha dato prova di una forza che si impone, ma perché ha mostrato un amore smisurato: «avendolo visto spirare in quel modo». La domenica delle Palme ci fa entrare nella Settimana santa e sconvolge subito la nostra logica umana.
Lo fa presentandoci il Figlio di Dio che avanza a dorso di un asino. Lo fa mettendoci davanti alla croce sulla quale muore dopo essere stato condannato, schernito, colpito con violenza.
Siamo invitati a provare lo stesso entusiasmo dei poveri, che quel giorno hanno riconosciuto in Gesù il Messia. Sì, veramente quest’uomo è il Figlio di Dio!

Per una civiltà dell’Amore

La contemplazione della esistenza e della fede di Gesù, la meditazione sullo stile con il quale Egli ha abitato la complessità del suo mondo religioso, spirituale e sociale, ci orienta ad interpretare le nostre vite nel contesto del mondo che abitiamo oggi. Gesù ha vissuto la sua vita, passione e morte nell’integrità personale di un percorso che ha vissuto nel tutt’uno di sé con la sua missione per il Regno di Dio; per esso Egli ha vissuto e ha compiuto la sua esistenza. Il suo modo di vivere e di morire, nella continua relazione, unione e offerta di sé al Padre e agli uomini, è per noi paradigmatico rispetto alla possibilità di vivere per Lui, con Lui e in Lui la libertà e la responsabilità della nostra identità, della nostra vocazione e della nostra missione, fino al nostro compimento nella offerta di noi stessi, nella realtà delle circostanze variegate e complesse delle nostre esistenze. Celebrando insieme la Via Crucis, viviamo il sogno “per una civiltà dell’amore”, nella tensione trasformativa, purificata ed elevata, di una realtà umana e sociale interpretata come tempio nel quale si celebra e si compie il sacro-fare dell’amore oblativo. Nella preghiera, nella riflessione, la vita di Cristo desidera diventare la vita di tutti noi, della nostra comunità parrocchiale.

Tempo di Quaresima: un passo avanti

Il tono apocalittico dei discorsi che sentiamo in questi ultimi anni non è del tutto infondato: tra la pandemia, il cambiamento climatico, le guerre e tanto altro, la voce della speranza si affievolisce, mentre cresce quella dell’emergenza, che comunque non toglie la sensazione di essere davanti a una fine. Che sia la fine del mondo o di un’epoca, la paura si diffonde comunque nel nostro tempo. C’è da chiedersi se davanti a tutto questo la parola del Vangelo sia ancora utile, se la fede sia una risorsa o una reazione psicologica, se la speranza cristiana riesca a distinguersi dalla rassegnazione. L’esperienza dell’esilio babilonese da parte del popolo di Israele, così come le parole di Gesù, ci mettono davanti a una scelta: di fronte alle fatiche personali e dell’umanità, dobbiamo scegliere se credere o meno alla salvezza di cui abbiamo bisogno, non per tornare al mondo di una volta, ma per fare un passo in avanti verso il regno di Dio