Innalzato sulla Croce

«Essere innalzati» è un’espressione usata, di solito, per evocare l’affermazione di una persona, la sua capacità di distinguersi, di segnalarsi, di avere successo. «Essere innalzati» è dunque sinonimo di potere, di gloria, di forza. Ma come fa a mantenere questo significato una volta che gli si associa la croce, e quindi una morte orribile e pubblica, un castigo disumano? Non è facile abbandonare le abituali rappresentazioni di Dio e accettare che il suo Figlio venga a noi nelle vesti di un condannato, di un giustiziato, abbandonato da tutti. Non è facile accogliere una salvezza che non si realizza esibendo i muscoli, ma offrendo amore, che non si compie attraverso un giudizio o un castigo, ma passando attraverso l’esperienza di essere rifiutati e calpestati.
Eppure è questo il paradosso su cui si regge la fede cristiana. La passione e la morte di Gesù non sono un incidente di percorso da dimenticare rapidamente, ma la strada che Dio ha scelto per raggiungere l’umanità e liberarla dal male, per farla entrare in una vita nuova. È questa croce il «caso serio» da cui non possiamo prescindere, il “passaggio” che rivela la nostra fedeltà a Cristo, la “prova” del nostro amore.
Ciò che essa indica è un amore che non si tira indietro neanche davanti alla debolezza estrema, all’ingiustizia palese, al sopruso ingiustificato. Un modo nuovo di vedere le cose viene proposto, allora, a ogni credente: la bussola delle sue scelte non è orientata dai criteri del successo, della riuscita, ma dalla fedeltà a Dio, dall’obbedienza al suo disegno di salvezza e al suo modo di agire. Buonismo? Rinuncia? Cedimento? Tutti questi interrogativi non fanno che riprendere le parole di coloro che dicevano a Gesù: «Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce e allora noi crederemo in te!» Confusione? Incertezza? Indifferenza? Tutte queste obiezioni riecheggiano quelle di coloro che si attendevano un Messia venuto
per giudicare e condannare, e a cui Gesù non potrà corrispondere.