Le dinamiche del viaggio

Il cammino inizia non quando si pare, ma quando si decide di farlo, con il sorgere delle intenzioni, delle motivazioni e del desiderio. Fondamentale è la preparazione. Ogni volta che si parte per il cammino
occorre investire del tempo sulla preparazione dello zaino perché, facendolo, si prende atto di una realtà spesso dimenticata nella vita quotidiana. Ciò che ci arricchisce è spesso anche ciò che ci appesantisce.
La vita cristiana chiede di ricalibrare continuamente in modo sapiente il rapporto dinamico tra possesso e libertà, affinché non venga a mancare quello che realmente serve, ma anche con l’attenzione a non farsi
appesantire da ciò che è inutile. Il preparare lo zaino rappresenta perciò una vera e propria arte, del resto l’arte di camminare è togliere, togliere peso ai pensieri e liberarci dalla zavorra che ci devi alla vita di tutti
i giorni. E così andare più liberi. Camminare è lavorare per sottrazione. È l’arte di scegliere, di selezionare tra i mille oggetti, quei pochi che saranno fondamentali. Il pellegrino lascia a casa il superfluo per mettere nel suo zaino, solo lo stato necessario e così impara a dare il giusto valore alle cose.
Molti durante il cammino lo alleggeriranno ulteriormente, donando o rispedendo indietro ciò che di troppo. La strada porta a tendere all’indispensabile che alla fine si riduce a poco. Un cammino di lunga durata
richiede di operare in fretta le scelte che si impongono e in questo forse consiste in profondità la natura del cammino, lenta spoliazione per raggiungere gradualmente l’essenziale, che è interiore e indicibile.
Altra dinamica è quella della necessità di esporsi, perché sulla strada sei esposto, tutti ti possono incontrare, sei esposto alle intemperie, al sole, alla pioggia. Sei esposto all’altro: il cammino è l’esperienza dell’altro a bruciapelo. Chi ha fatto almeno un cammino a piedi, quelle cose le può capire molto facilmente, così come chi lo vivrà questa estate.

E poi arriviamo al cammino. Camminare è la nostra educazione e la nostra esperienza. Perché l’immobilità è la fine dell’una e dell’altra. L’incedere non è forse l’espressione più alta della novità della natura umana? La figura dritta, signora di sé stessa, che si porta da sola, calma e sicura, codesta figura rimane un privilegio riservato all’uomo. Camminare eretti significa essere uomini. Sollevarci su due piedi è la nostra prima impresa, lì vi inizia il nostro cammino nel mondo. E più crescerà in noi il gusto e la voglia di andare a piedi, più le nostre gambe ci sosterranno, saranno le nostre fidate e complici compagne di viaggio, permettendoci di rispondere alla domanda fatidica di ogni ritorno e che Baudelaire, in una struggente poesia dedicata al viaggio, ai viaggiatori dice così: vogliamo viaggiare senza vapore e senza velo e alla fine dite che cosa avete visto camminare? E l’affermazione più diretta ed esplicita della nostra irriducibile condizione di essere umani in un mondo sovrastato dalla tecnica.

La mancanza di attività fisica predispone l’uomo a diverse patologie, il movimento fisico rappresenta una medicina per il corpo ancora prima che un aiuto per l’anima. In diverse epoche scuole, molti illustri pensatori hanno riconosciuto la potente potenzialità del cammino e hanno sviluppato una filosofia del camminare. È stato scritto sul cammino che “la marcia è un momento ideale per esercitare il pensiero, non dimentichiamo le tranquille passeggiate di Socrate, le cui lezioni applicavano spesso la deambulazione in compagnia dei discepoli, il cui ragionamento si sviluppava a ritmo rilassato dei passi. La pedagogia è anche pedestre, la filosofia è peripatetica, un mondo a misura del corpo dell’uomo è un mondo in cui l’esultanza del pensare si esplica nella trasparenza del tempo e dei passi”. Camminare ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee, diceva Rousseau. E aggiunge, quando sto fermo riesco, a malapena a pensare. Bisogna che il corpo sia in movimento perché entro nel movimento anche con il mio spirito, diceva Kierkegaard che scrive a Gesù e gli dice è camminando che ha avuto i pensieri più fecondi e non conosce pensieri così grevi che la marcia non possa dissolvere. Un altro autore, rileggendo l’esperienza del cammino del contesto culturale contemporaneo, parla addirittura del cammino come un gesto sovversivo in quanto coglie della natura odierna la tendenza a fare di tutto perché le persone siano sedute il più possibile su una sedia.