Non c’è un unico modo per essere santi, la Chiesa è fatta di molti riverberi che nascono dalla sola vera domanda: “Chi dite che io sia?
Il 29 giugno la Liturgia ci fa festeggiare i Santi Apostoli Pietro e Paolo. Umanamente erano persone con caratteri molto diversi tra di loro e qualche volta per questo si sono create anche delle tensioni. La Parola di Dio ci racconta anche queste cose per togliere da noi quella finta credenza che i santi sono tutti sorrisi e abbracci, quando invece sono uomini come noi che hanno lottato anche con se stessi per cercare di amare nel migliore dei modi nonostante i loro caratteri non sempre impeccabili. Il vangelo che narra l’episodio avvenuto a Cesarea di Filippo ci dice qual è il passaggio che segna il cambiamento vero nella nostra vita. Gesù sta interrogando i discepoli su ciò che pensa la gente su di Lui. Non è un sondaggio, è una strategia. Vuole portare i suoi discepoli a un rapporto personale con Lui senza passare attraverso i “sentito dire” degli altri. Perché anche senza accorgercene tutti rischiamo di essere più discepoli di quello che dice la gente che di quello che vogliamo davvero noi. Qui il problema non è solo dire chi è Cristo, ma è dire chi è Cristo per me. E per rispondere a questa domanda ciascuno deve guardare il proprio cuore e non i vicini di casa. Troppe scelte nella vita le facciamo lasciandoci condizionare dal chiacchiericcio degli altri, quando invece dobbiamo imparare a farle ascoltando noi stessi. È lì che Dio parla: “né la carne, né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. La cosa straordinaria però dei santi sta nel fatto che se la domanda è la medesima, la risposta invece è personale.
Cioè ognuno risponde a questa domanda di Cristo mettendo in gioco se stesso, trovando in se stesso l’alfabeto per dire la medesima cosa di Pietro. È così che si spiega il fatto che nella Chiesa e nella storia non c’è un unico modo di essere santi. È per questo che le modalità diverse di rispondere creano ricchezza, arricchimento e non monotonia e uniformità.
Ecco perché festeggiamo Pietro e Paolo insieme, perché la loro diversità dice però la medesima risposta. Tanti alfabeti per dire: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
Per troppo tempo una certa vulgata ha voluto vedere in Pietro e Paolo gli Apostoli degli opposti, una sorta di diversità tenuta insieme dall’evento cristiano, un miracolo di convivenza ecclesiale più immaginato che realizzato. La verità è che non siamo particolarmente aiutati nemmeno dai racconti degli Atti degli Apostoli e dalle Lettere che registrano solo tre episodi in cui troviamo queste due colonne della Chiesa effettivamente insieme. Il loro accostamento è più frutto della sensibilità dei credenti in tempi successivi che delle loro semplici biografie. Credo però che sia giusto dire che Pietro e Paolo non si debbano mai considerare l’uno contro l’altro, né semplicemente l’uno accanto all’altro, ma bensì bisogna imparare a considerarli l’uno difronte l’altro. È la postura della comunione. Essa non nasce semplicemente dall’avere dei valori condivisi o degli obiettivi a cui tendere. Nella comunione la meta è sempre visibile nel volto del prossimo, del fratello, della sorella. Un cristiano legge il mondo a partire dal volto di chi ha di fronte a sé.
Ecco perché se in maniera evocativa vogliamo mettere Pietro e Paolo vicini, dovremmo trovare il coraggio di metterli l’uno difronte al volto dell’altro. La comunione è la capacità di guardarsi negli occhi e di credere con forza che solo in quello sguardo si riesce a capire la strada. La sinodalità, in questo senso, nasce esattamente da questa consapevolezza.
Non è trovare semplicemente argomenti condivisi ma educarsi a guardare la realtà sentendo l’esigenza del volto, l’urgenza dell’incontro, il desiderio del cuore. Quando pensiamo a Pietro e Paolo pensiamo quindi a una festa che ci ricorda l’ardente desiderio di comunione che rende la Chiesa ciò che è, e ciò che deve sempre diventare.