Marta, Maria e Lazzaro

Dal 2021, il 29 luglio figura nel Calendario Romano Generale la memoria dei santi Marta, Maria e Lazzaro. Lo ha disposto Papa Francesco accogliendo la proposta della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che ha pubblicato il relativo decreto. Fino ad allora nel Calendario Romano Generale figurava la memoria della sola Marta. Motivando la decisione, il decreto, sottolinea “l’importante testimonianza evangelica” offerta dai tre fratelli “nell’ospitare in casa il Signore Gesù, nel prestargli ascolto cordiale, nel credere che egli è la risurrezione e la vita”.
“Nella casa di Betania – si afferma – il Signore Gesù ha sperimentato lo spirito di famiglia e l’amicizia di Marta, Maria e Lazzaro, e per questo il Vangelo di Giovanni afferma che egli li amava.
Marta gli offrì generosamente ospitalità, Maria ascoltò docilmente le sue parole e Lazzaro uscì prontamente dal sepolcro per comando di Colui che ha umiliato la morte”.

Numerose le riflessioni di Francesco sui tre santi fratelli. Citando l’episodio narrato dall’evangelista Luca della visita di Gesù agli amici Marta, Maria e Lazzaro, nel piccolo villaggio a pochi chilometri da Gerusalemme, ricorda che mentre “Maria, ai piedi di Gesù, ‘ascoltava la sua parola’”, “Marta era impegnata in molti servizi”. “Entrambe offrono accoglienza al Signore di passaggio, ma lo fanno in modo diverso – osserva il Papa – Maria si pone in ascolto, Marta invece si lascia assorbire dalle cose da preparare, ed è così occupata da rivolgersi a Gesù dicendo: ‘Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti’”.
Papa Francesco spiega che l’amorevole rimprovero di Gesù, ‘Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola c’è bisogno’, evidenzia come la donna fosse troppo assorbita e preoccupata dalle cose da fare. Ma non definisce quelli di Marta e Maria “due atteggiamenti contrapposti”, anzi “non vanno mai separati, ma vissuti in profonda unità e armonia”, tanto che “in un cristiano, le opere di servizio e di carità non sono mai staccate dalla fonte principale”, ossia “l’ascolto della Parola del Signore, lo stare – come Maria – ai piedi di Gesù”. Sicché, rimarca il Papa, “una preghiera che non porta all’azione concreta verso il fratello povero, bisognoso di aiuto, il fratello in difficoltà, è una preghiera sterile e incompleta.
Ma, allo stesso modo, quando nel servizio ecclesiale si è attenti solo al fare, si dà più peso alle cose, alle funzioni, alle strutture, e ci si dimentica della centralità di Cristo, non si riserva tempo per il dialogo con Lui nella preghiera, si rischia di servire sé stessi e non Dio presente nel fratello bisognoso”.

Marta, Maria e Lazzaro sono gli amici di Gesù. Credo che non ci sia titolo migliore per ricordarli se non proprio quello dell’amicizia. Il Vangelo più volte tira in ballo questi tre amici ed è bello poter dire che l’amicizia con Gesù non si manifesta solo a tavola mentre si celebra una gioia che Gesù userà per raddrizzare il compulsivo fare di Marta, ma si manifesta anche nel dolore quando la morte del fratello Lazzaro getta nella quasi disperazione entrambe le sorelle. Sembra quasi che il Vangelo voglia dirci che gli amici non solo tali solo quando splende il sole, ne solo quando è buio, ma gli amici sono tali quando in qualche modo ci sono sempre, in ogni stagione della nostra vita. Infatti l’amicizia è uno dei modi preferiti da Dio per manifestare il Suo amore per ciascuno di noi. Senza amici questa vita può risultare insopportabile.
Se persino Gesù si è fatto bisognoso di amici, chi siamo noi per poter pensare di poterne fare a meno?

Dal messaggio del Santo Padre in occasione della IV giornata mondiale dei nonni e degli anziani (2)

Domenica 28 luglio 2024 sarà la Giornata mondiale degli anziani e dei nonni, una ricorrenza voluta espressamente da papa Francesco. La Giornata mondiale dei nonni e degli anziani ricorre ogni anno in prossimità della memoria (26 luglio) dei Santi Giacchino ed Anna, nonni di Gesù.
Il tema del 2024 della IV Giornata mondiale dei nonni e degli anziani  scelto da papa Francesco è “Nella vecchiaia non abbandonarmi”.

Possiamo notare in molti anziani quel sentimento di rassegnazione di cui parla il libro di Rut quando narra della vecchia Noemi che, dopo la morte del marito e dei figli, invita le due nuore, Orpa e Rut, a far ritorno al loro paese di origine e alla loro casa.
Noemi – come tanti anziani di oggi – teme di rimanere da sola, eppure non riesce a immaginare qualcosa di diverso. Da vedova, è consapevole di valere poco agli occhi della società ed è convinta di essere un peso per quelle due giovani che, al contrario di lei, hanno tutta la vita davanti.
Per questo pensa che sia meglio farsi da parte e lei stessa invita le giovani nuore a lasciarla e a costruire il loro futuro in altri luoghi. Le sue parole sono un concentrato di convenzioni sociali e religiose che sembrano immutabili e che segnano il suo destino.
Il racconto biblico ci presenta a questo punto due diverse opzioni di fronte all’invito di Noemi e dunque di fronte alla vecchiaia. Una delle due nuore, Orpa, che pure vuol bene a Noemi, con un gesto affettuoso la bacia, ma accetta quella che anche a lei sembra l’unica soluzione possibile e se ne va per la sua strada. Rut, invece, non si stacca da Noemi e le rivolge parole sorprendenti: «Non insistere con me che ti abbandoni». Non ha paura di sfidare le consuetudini e il sentire comune, sente che quell’anziana donna ha bisogno di lei e, con coraggio, le rimane accanto in quello che sarà l’inizio di un nuovo viaggio per entrambe.
A tutti noi – assuefatti all’idea che la solitudine sia un destino ineluttabile – Rut insegna che all’invocazione “non abbandonarmi!” è possibile rispondere “non ti abbandonerò!”.
Non esita a sovvertire quella che sembra una realtà immutabile: vivere da soli non può essere l’unica alternativa! Non a caso Rut – colei che rimane vicina all’anziana Noemi – è un’antenata del Messia, di Gesù, l’Emmanuele, Colui che è il “Dio con noi”, Colui che porta la vicinanza e la prossimità di Dio a tutti gli uomini, di tutte le condizioni, di tutte le età.
La libertà e il coraggio di Rut ci invitano a percorrere una strada nuova: seguiamo i suoi passi, mettiamoci in viaggio con questa giovane donna straniera e con l’anziana Noemi, non abbiamo paura di cambiare le nostre abitudini e di immaginare un futuro diverso per i nostri anziani.
La nostra gratitudine va a tutte quelle persone che, pur con tanti sacrifici, hanno seguito di fatto l’esempio di Rut e si stanno prendendo cura di un anziano o semplicemente mostrano quotidianamente la loro vicinanza a parenti o conoscenti che non hanno più nessuno.
Rut ha scelto di stare vicina a Noemi ed è stata benedetta: con un matrimonio felice, una discendenza, una terra.
Questo vale sempre e per tutti: stando vicino agli anziani, riconoscendo il ruolo insostituibile che essi hanno nella famiglia, nella società e nella Chiesa, riceveremo anche noi tanti doni, tante grazie, tante benedizioni!

In questa IV Giornata Mondiale dedicata a loro, non facciamo mancare la nostra tenerezza ai nonni e agli anziani delle nostre famiglie, visitiamo coloro che sono sfiduciati e non sperano più che un futuro diverso sia possibile. All’atteggiamento egoistico che porta allo scarto e alla solitudine contrapponiamo il cuore aperto e il volto lieto di chi ha il coraggio di dire “non ti abbandonerò!” e di intraprendere un cammino differente.
A tutti voi, carissimi nonni e anziani, e a quanti vi sono vicini giunga la mia benedizione accompagnata dalla preghiera. Anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
 
FRANCESCO

Dal messaggio del Santo Padre in occasione della IV giornata mondiale dei nonni e degli anziani (1)

Domenica 28 luglio 2024 sarà la Giornata mondiale degli anziani e dei nonni, una ricorrenza voluta espressamente da papa Francesco. La Giornata mondiale dei nonni e degli anziani ricorre ogni anno in prossimità della memoria (26 luglio) dei Santi Giacchino ed Anna, nonni di Gesù.
Il tema del 2024 della IV Giornata mondiale dei nonni e degli anziani  scelto da papa Francesco è “Nella vecchiaia non abbandonarmi”.

Dio non abbandona i suoi figli, mai. Nemmeno quando l’età avanza e le forze declinano, quando i capelli imbiancano e il ruolo sociale viene meno, quando la vita diventa meno produttiva e rischia di sembrare inutile. Egli non guarda le apparenze e non disdegna di scegliere coloro che a molti appaiono irrilevanti. Non scarta alcuna pietra, anzi, le più “vecchie” sono la base sicura sulla quale le pietre “nuove” possono appoggiarsi per costruire tutte insieme l’edificio spirituale.
La Sacra Scrittura, tutta intera, è una narrazione dell’amore fedele del Signore, dalla quale emerge una consolante certezza: Dio continua a mostrarci la sua misericordia, sempre, in ogni fase della vita, e in qualsiasi condizione ci troviamo, anche nei nostri tradimenti.
I salmi sono colmi della meraviglia del cuore umano di fronte a Dio che si prende cura di noi, nonostante la nostra pochezza; ci assicurano che Dio ha tessuto ognuno di noi fin dal seno materno e che nemmeno negli inferi abbandonerà la nostra vita. Dunque, possiamo essere certi che ci starà vicino anche nella vecchiaia, tanto più perché nella Bibbia invecchiare è segno di benedizione.
Eppure, nei salmi troviamo anche quest’accorata invocazione al Signore: «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia». Un’espressione forte, molto cruda. Fa pensare alla sofferenza estrema di Gesù che sulla croce gridò: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Nella Bibbia, dunque, troviamo la certezza della vicinanza di Dio in ogni stagione della vita e, al tempo stesso, il timore dell’abbandono, particolarmente nella vecchiaia e nel momento del dolore. Non si tratta di una contraddizione. Guardandoci attorno, non facciamo fatica a verificare come tali espressioni rispecchino una realtà più che evidente.
Troppo spesso la solitudine è l’amara compagna della vita di noi, anziani e nonni.

Il salmo citato in precedenza – dove si supplica di non essere abbandonati nella vecchiaia – parla di una congiura che si stringe attorno alla vita degli anziani. Sembrano parole eccessive, ma le si comprende se si considera che la solitudine e lo scarto degli anziani non sono casuali né ineluttabili, bensì frutto di scelte – politiche, economiche, sociali e personali – che non riconoscono la dignità infinita di ogni persona «al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi». Ciò avviene quando si smarrisce il valore di ciascuno e le persone diventano solo un costo, in alcuni casi troppo elevato da pagare. Ciò che è peggio è che, spesso, gli anziani stessi finiscono per essere succubi di questa mentalità e giungono a considerarsi come un peso, desiderando essi stessi per primi di farsi da parte.

San Giacomo, il maggiore: apostolo

Pescatore di uomini
Giacomo, fratello dell’apostolo Giovanni, è detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo. La sua vita cambia radicalmente quando accoglie l’invito di Gesù a diventare “pescatore di uomini”. Andando oltre – si legge nel Vangelo secondo Matteo – Gesù “vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono”. Di carattere impetuoso, lui e suo fratello sono chiamati da Gesù stesso con l’appellativo di “boanergés” (figli del tuono).

Sul monte della Trasfigurazione e su quello dell’agonia
Giacomo è testimone della gloria di Gesù, dell’evento della Trasfigurazione: “Gesù – scrive l’evangelista Matteo – prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce”. L’apostolo è anche testimone dell’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani: “Presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni – si ricorda nel Vangelo di Marco – cominciò a sentire paura e angoscia”.

Primo apostolo martire
Gesù gli preannuncia il martirio. “Potete bere – scrive Matteo – il calice che io sto per bere?”. Giacomo e Giovanni gli rispondono: “Lo possiamo”. La sua morte è descritta negli Atti degli Apostoli: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”. Dopo la decapitazione, secondo la Legenda Aurea del frate domenicano Jacopo da Varagine, il suo copro viene traslato in Spagna.

La tomba di Giacomo
Secondo la tradizione, nell’831, dopo un prodigioso fenomeno luminoso in prossimità del monte Liberon, viene scoperto un sepolcro con la scritta: “Qui giace Jacobus, figlio di Zebedeo e di Salome”. Il luogo viene denominato campus stellae (“campo della stella”), nome da cui deriverà poi quello della città di Santiago di Compostela. Nel 1075 inizia la costruzione della basilica a lui dedicata e fin dal Medioevo, il Santuario è meta di pellegrinaggi, prima da tutta Europa e poi da ogni parte del mondo.

Il cammino di Santiago
Il Cammino di Santiago è una delle vie più importanti della storia e della cristianità. 
Scrive Paulo Coelho: “Lo Spirito dei vecchi pellegrini della Tradizione ti accompagna nel viaggio. Il cappello ti ripara dal sole e dai cattivi pensieri; il mantello ti salva dalla pioggia e dalle cattive parole; il bastone ti protegge dai nemici e dalle cattive azioni. La benedizione di Dio, di San Giacomo e della Vergine ti accompagni per tutte le notti e tutti i giorni”.

C’era una volta il pudore (2)

Nonostante il nostro tempo sia il tempo dell’ostentazione anche del corpo e della nudità, il pudore non è totalmente sparito. Dire il contrario sarebbe un’affermazione troppo forte e decisamente pessimista. La cultura contemporanea non è un mostro che sta tentando di distruggere tutti i valori elaborati dalla società nei secoli passati. Forse li sta solo trasformando. Basti pensare all’attenzione alla privacy, al bisogno di proteggere la propria intimità, alla necessità di non essere trattati come un oggetto nelle relazioni sentimentali.
Verrebbe da chiedersi in che modo il pudore sia riuscito a resistere.
Siamo dinanzi a una virtù costitutiva dell’umano, una virtù, dunque, che addirittura definisce il nostro essere uomini e donne. Difficile, quindi, molto difficile da eliminare.
Il pudore sarebbe una necessità vitale prima ancora che un dovere morale, in quanto, collocandosi sempre alla frontiera fra sé e l’altro, fra l’individuale e il collettivo dimostra attenzione verso se stessi e verso l’altro, assicurando il rispetto di ciascuno.

Nell’Antico Testamento, il pudore (che emerge come sentimento a partire dalla caduta dei progenitori narrata in Genesi 3) non è solo una protezione della sfera sessuale dal disordine introdotto dal peccato, ma è anche una forma di delimitazione e rispetto dell’intimità e della riservatezza della persona (Genesi 9,22-23): Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e andò a dirlo, fuori, ai suoi fratelli. Ma Sem e Iafet presero il suo mantello, se lo misero insieme sulle spalle e, camminando all’indietro, coprirono la nudità del loro padre).
Nel Nuovo Testamento, poi, ogniqualvolta si parla di impudicizia, non lo si fa per disprezzare la corporeità o la sessualità, ma per impedire che queste vengano ridotte a mero oggetto di possesso, in balìa delle passioni. In tal senso, allora, già il dato biblico ci presenta il pudore come garante della nostra libertà, spinta interiore a non dominare e a non lasciarsi dominare.
Come si fa a restituire al pudore il compito che gli è proprio?
Ricominciando dall’educazione, ovviamente. Un’educazione, però, che coinvolga trasversalmente tutte le generazioni, pur avendo un occhio di riguardo per quelle più giovani.
È necessario, infatti, rieducare e rieducarsi alla comprensione di un semplice principio: mettere in piazza i propri sentimenti più preziosi, le proprie sofferenze, i propri successi o fallimenti, la propria nudità, fisica o psicologica che sia, ci rende inutilmente fragili ed esposti al potere degli altri su di noi, anche di chi non dovrebbe averne.
Cerchiamo di presentare il pudore non come l’ennesima violazione della libertà, ma come quel sentimento o virtù che promuove e rispetta la libertà, che sa fermarsi sulla soglia delle esistenze altrui, per promuoverne la dignità.

C’era una volta il pudore (1)

Ho letto queste affermazioni che trascrivo: “Non c’è sentimento più rivoluzionario della vergogna. Ecco, in un contesto dove non esiste più nessun tipo di vergogna e di pudore, il mitomane prospera e cresce. Se si ristabilisse quel minimo vergognarsi e avere un po’ di pudore nel porsi di fronte agli altri, molto si migliorerebbe”.
Forse un pensierino sulla quasi scomparsa del pudore che pare aver colpito questa nostra epoca vale proprio la pena di farlo. Cerchiamo innanzitutto di capire di che cosa stiamo parlando.
La parola pudore deriva dal vocabolo latino pudor (dal verbo pudeo, cioè non avere coraggio e, in un significato più ampio, provare vergogna) che esprime sentimenti di riserbo ma anche di disagio nei confronti di parole o comportamenti.
Sicuramente esso ha a che fare primariamente con la sessualità, in quanto si pone come risorsa morale che protegge e salvaguarda la sfera più intima dell’individuo, ma è collegato anche alla definizione della propria personalità, in quanto, richiamando i sentimenti di vergogna, di riservatezza e di rispetto, custodisce l’essere di ogni individuo, impedendo che il corpo venga ridotto a oggetto e che la persona sia violata nella sua intimità e riservatezza.
Il pudore serve a conservare il possesso della propria intimità, difendendola dalla possibile intrusione dell’altro, attribuendogli dunque un valore e un compito soprattutto relazionali, come se ci si trovasse dinanzi a una sorta di frontiera buona tra noi e gli altri.
Nella nostra società, in cui lo sguardo dell’altro, nelle varie accezioni, è portato a intrufolarsi ovunque, trovando dall’altra parte altrettanta disponibilità all’esibizione, la riscoperta della intimità come luogo di libertà merita di essere considerata una frontiera dove rappresentare l’attualità delle esperienze relazionali.

Difficile dire quando il pudore ha cominciato a farsi virtù rara. Sta di fatto che ci troviamo a vivere un’era di vetrinizzazione sociale che consiste in una tendenza generalizzata a voler mettere in mostra, a spettacolarizzare se stessi, la propria vita e tutto ciò che ruota attorno a essa, con lo scopo di attirare l’attenzione della gente, come se la propria esistenza assumesse valore solo quando è sotto gli occhi di tutti. Una continua corsa a chi mostra di più, che obbedisce a una logica prettamente mercantile, tutto o quasi è stato sottratto alla sfera del pudore (si è giunti a esibire anche momenti profondamente intimi, come la nascita o la morte). Il corpo stesso, oltre che venire ostentato, è stato sottoposto a un vero e proprio processo di imballaggio, confezionamento e presentazione che di solito subiscono i prodotti da offrire al pubblico, per renderlo attraente come una qualsiasi merce e garantirsi così i riflettori puntati su di sé. Questo meccanismo ha aperto la strada a tutta una serie di comportamenti al limite del patologico (dagli acquisti compulsivi alle varie manipolazioni del copro unicamente per rispondere a certi canoni estetici) e, soprattutto, ha messo l’identità personale al servizio, quasi, di quella sociale, annullando in tal modo la distanza tra noi e gli altri, che fino a quel punto era stata salvaguardata dal pudore.
Ma il pudore, tuttavia, non è scomparso. Un po’ malconcio, ma ha resistito.

Quello che davvero conta (2)

Perché ci sia una comunità cristiana è indispensabile che ci sia un ascolto costante della Parola di Dio, che non può essere ridotto a una conoscenza biblica di tipo intellettualistico, ma deve corrispondere a un ascolto di Dio che continua a parlarci in modo vivo e a chiamarci costantemente alla fede in Lui. E ci deve essere un nutrimento costante, dal livello intellettuale a quello della orazione, della fede che, specie oggi, se non viene alimentata, si perde o non è aderente alle profonde trasformazioni della nostra esistenza.

Perché si possa parlare di comunità cristiana è anche indispensabile che ci si incontri nel giorno del Signore nella celebrazione eucaristica e che si viva la festa di questo incontro e di questo giorno.
È infatti in forza del dono del corpo di Cristo che noi diventiamo il corpo di Cristo che è la Chiesa. È cibandoci di Lui che noi diventiamo una cosa sola con Lui e tra di noi. E per rimanere quello che siamo, abbiamo bisogno ogni domenica di nutrirci della vita che ci offre Cristo, di fare l’esperienza della vita nuova che sgorga da quell’incontro, di sperimentare che, pur essendo diversi tra noi per età, cultura, censo, sensibilità, luoghi di provenienza, in Lui diventiamo una cosa sola. Infine, ciò che nasce dall’ascolto costante della Parola e dalla celebrazione eucaristica è una fraternità che deve essere reale, nel senso che ci fa fare l’esperienza concreta del sentirci in cammino con altri, di percepirci responsabili della loro fede e interpellati dai loro bisogni, di qualunque genere essi siano (da quello dell’amicizia e dell’ascolto a quello economico), di sentire che noi stessi siamo oggetto di cura e di attenzione reale da parte di altri e custoditi dai fratelli nella fede.
Non solo: questa esperienza di fraternità – così necessaria in un mondo individualista come il nostro – è l’unica vera anima e l’unico vero motore di ogni attività caritativa e sociale.
Nel senso che se non c’è questa reale esperienza fraterna tra noi, che nasce dal sentirci una cosa sola in Cristo, ci potrà essere volontariato uguale a molto altro volontariato o filantropia uguale a tanta altra filantropia… ma non è detto che ci sia ancora la caritas cristiana!

Quello che davvero conta (1)

Il vangelo di Luca riporta alcune parole di Gesù piuttosto decise e dure. “Diceva ancora alle folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”. Quanto Gesù lamenta è il fatto che chi lo ascolta vede ciò che accade esteriormente, ma è incapace di leggere in profondità il tempo che sta vivendo: il tempo della vicinanza e della presenza di Dio, quello del compimento della promessa, il momento unico dato dal fatto che il Figlio di Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi. Questa parola di Gesù non è rivolta solo ai suoi contemporanei, ma è indirizzata anche a noi. Anche oggi la Chiesa è chiamata a riconoscere la presenza viva di Cristo, per lasciarsi guidare da Lui: non esiste nessun tempo, neppure il nostro, che non sia bello e fecondo in quanto Cristo è presente, ci conduce e guida l’umanità intera. Anche oggi, dunque, siamo chiamati a domandarci con sincerità, fiducia e docilità: che cosa sta accadendo? Quali cambiamenti stanno investendo la vita della Chiesa e quella di noi cristiani? Più in profondità, dobbiamo chiederci: dove ci sta conducendo Cristo? Quali passi dobbiamo compiere per poter dire con onestà di essere ancora alla sua sequela?
L’obiettivo è uno solo: essere una comunità viva, nelle quale non solo si parla, ma si sperimenta davvero il Regno di Dio, di cui siamo come un germe. È il Signore, vivente in mezzo a noi, che ci chiede di essere cristiani gioiosi, a motivo di quella relazione con lui e tra di noi che ci è data di vivere e, dunque, testimoni credibili del fatto che vale la pena lasciare tutto e seguirlo.
Lo sappiamo bene: questo mondo e questo tempo non sanno che farsene di cristiani stanchi, lamentosi, accidiosi, parte di un ingranaggio che si muove secondo la logica del “si è sempre fatto così”, forse senza neppure più sapere perché si fanno determinate cose… Essere un “germoglio” appunto di comunità cristiana viva e impegnata nell’annunciare il Vangelo.

Via Vai: mi indicherai il sentiero della vita

Ritorno ancora, ma solo per un attimo, al Grest da poco terminato. Nonostante le bizze del tempo, è stata una bella avventura. Come scritto più volte sul Bollettino parrocchiale (durante lo svolgimento dell’attività estiva), l’argomento attorno al quale si è sviluppato il Grest è stata “la vita come un cammino” lungo il quale si fanno varie esperienze che ci aiutano a maturare e a crescere come persone e come cristiani. Sono tante le strade da cui provengono i nostri bambini e ragazzi: tante quanti sono i loro cammini e le loro singolari esperienze di vita. Tutto questo è una ricchezza … loro sono una immensa ricchezza! Non importa con che motivazioni hanno vissuto il Grest, perché conta di più la capacità che hanno manifestato di mettersi in gioco, la loro disponibilità a crescere insieme. È stata, come sempre, un’esperienza impegnativa, ricca di emozioni, avventure, amicizie. Racchiudere in poche righe tutto quello che abbiamo vissuto significa impoverire la realtà che, è più grande del nostro pensiero e delle nostre idee. Infatti il Grest è più di un centro estivo: è nel piccolo l’immagine di una vita dove si vive quello che normalmente non riusciamo per troppi impegni, scadenze, fretta, stanchezza e anche un po’ di superficialità. Qui abbiamo imparato ad apprezzare le cose piccole, gli incontri, i gesti che passano inosservati ma sono i più belli, le parole che si desiderano ascoltare, gli sguardi che si posano su ciò che ci circonda e che ci sembra tanto bello. Questo e altro è il Grest. Siamo riusciti a viverlo un po’? Non sappiamo! Una cosa è certa: abbiamo capito che è più bello dare che ricevere, è più gratificante servire che essere serviti, ed è più arricchente perdere un po’ del nostro io che voler sempre imporre le nostre idee, i nostri progetti. Anche i ragazzi più piccoli hanno compreso che c’è un modo diverso di trascorrere le giornate estive, non incollati ai cellulari, ma condividendo quello che abbiamo di più caro: la nostra vita. Dentro ciascuno di noi c’è un tesoro prezioso che non si vede ma se abbiamo gli occhi come quelli di Gesù possiamo vederlo e tirarlo fuori. Solo così costruiremo un mondo dove sarà bello esserci e dove ciascuno di noi potrà dare quello che porta nel suo cuore.
Infatti il Grest è un’occasione unica per uscire da se stessi, mettersi in discussione, camminare insieme. L’esperienza del Grest è un vero e proprio percorso di crescita attraverso il quale è data la possibilità di sperimentarsi mettendosi gli uni al servizio degli altri, dove ognuno è chiamato a crescere attraverso il confronto con gli altri, per andare oltre i confini del proprio cammino di vita, oltre le proprie attitudini e certezze. Insomma se vogliamo riassumere che cos’è stato il Grest potremmo dire: educare, educarci, lasciarci educare.
Gli avvenimenti principali che hanno caratterizzato la settimana sono tutti all’insegna dell’allegria e dell’amicizia. Infatti sono nate nuove amicizie, si sono rafforzati i rapporti tra coloro che già si conoscevano ma che la fretta della vita quotidiana non sempre ci permette di approfondire.
La serata finale ha visto insieme genitori e figli. Coloro che hanno pensato e realizzato questo momento ci hanno raccontato, con immagini, alcuni momenti. Canti e balletti hanno rallegrato ed entusiasmato la serata. Alcuni video hanno portato “La Divina Commedia” nella quotidianità del grest. Sento ancora il dovere di benedire il Signore per questo tempo di grazia e chiedere a Dio di ricompensare tutti coloro che hanno collaborato per la buona riuscita del Grest.
Il loro nome è scritto nel nostro cuore.
Una cosa spero tutti abbiamo portato via: davvero la vita è un’avventura ricca di sorprese e di occasioni per maturare e diventare più responsabili.

San Benedetto da Norcia

Di lavoro e preghiera ha bisogno l’Europa per tornare a riscoprirsi unita e guardare al futuro con speranza. Lavoro e preghiera, d’altra parte, stanno nei cromosomi del Vecchio Continente, che annovera tra i suoi patroni un “gigante del Vangelo” come san Benedetto da Norcia.
Nato attorno al 480 a Norcia, dopo un periodo di romitaggio presso il Sacro Speco di Subiaco, decise di passare alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola è una mirabile sintesi della spiritualità orientale e dell’operosità occidentale: il suo “ora et labora” è un monumento al Vangelo incarnato che “dissoda” i terreni della storia e dà forma alla società nel segno della carità. La sua eredità sono i numerosi monasteri sorti sulla scia del suo carisma e sparsi poi in tutto il mondo. Morì a Montecassino attorno al 547.
Nel 1964 Paolo VI lo scelse come patrono dell’intera Europa. La proclamazione avvenne esattamente il 24 ottobre 1964, giorno in cui papa Montini riconsacrò la chiesa abbaziale di Montecassino, distrutta 20 anni prima, nel 1944, durante la seconda Guerra mondiale.
Nella lettera apostolica “Pacis nuntius” il Papa, spiegando le motivazioni della scelta di san Benedetto a patrono d’Europa, ricordava che “egli insegnò all’umanità il primato del culto divino per mezzo dell’«opus Dei», ossia della preghiera liturgica e rituale. Fu così che egli cementò quell’unità spirituale in Europa in forza della quale popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di costituire l’unico popolo di Dio”.

Un esempio per l’Europa smarrita di oggi

La Regola di s. Benedetto offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Oggi l’Europa è alla ricerca della propria identità.
Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità. Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.