L’inno del “Te Deum” per esprimere gratitudine al Signore

«Noi ti lodiamo Dio, ti proclamiamo Signore»: così inizia il canto del Te Deum che secondo un’antica tradizione viene rinnovato alla fine di ogni anno civile. Anche oggi al temine della Messa lo intoneremo tutti insieme lodando Dio e proclamandolo “Signore della nostra vita”. È un inno di ringraziamento con cui vogliamo dire grazie al Signore. È importante il ringraziamento proprio nel momento della difficoltà.
Nonostante la crisi, le paure, i pericoli, riconosciamo di non essere soli, di non essere abbandonati, riconosciamo che la nostra vita è nelle mani di Dio e siamo contenti che sia Lui il nostro Signore. «È cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie, sempre in ogni luogo», in ogni circostanza, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, all’inizio di un anno e alla fine di un anno.
Ringraziamo il Signore per il tempo che ci dà, per la grazia che ci concede, per la forza che ci dona di vivere bene anche i tempi cattivi. Siamo noi i nostri tempi e il bene dipende da noi, dal nostro modo di reagire alle situazioni della vita, per questo chiediamo al Signore che ci aiuti, che ci sostenga, che ci protegga, che soccorra la nostra debolezza.
L’inno Te Deum è un antico testo della liturgia, che non è proprio della fine dell’anno: lo si adopera nella preghiera del breviario tutte le domeniche dell’anno e in tutte le feste. Viene solennemente cantato in pubblico nelle occasioni in cui si vuole ringraziare particolarmente il Signore, come avviene in questa celebrazione che conclude l’anno. Questo ampio poema di lode si divide in tre parti.
La prima parte costituisce una specie di preghiera eucaristica con impostazione trinitaria.
Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore. O eterno Padre, tutta la terra ti adora.
A te cantano gli angeli e tutte le potenze dei cieli: Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo.
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli e la candida schiera dei martiri;
le voci dei profeti si uniscono nella tua lode;
la santa Chiesa proclama la tua gloria, adora il tuo unico Figlio, e lo Spirito Santo Paraclito.

Dire che questa prima parte ha un’impostazione eucaristica serve per richiamare proprio il tema del ringraziamento; ha infatti la stessa formula delle preghiere che adoperiamo al cuore della Messa per lodare e ringraziare il Signore del dono della sua vita; tant’è vero che comprende anche la formula del triplice santo con l’evocazione degli angeli e delle potenze dei cieli che cantano la santità di Dio Signore dell’universo. Dio, che è completamente diverso da noi, totalmente santo, è tuttavia presente nella nostra esistenza: «i cieli e la terra sono pieni della sua gloria», cioè della sua presenza potente e operante.
Dio non si identifica con il mondo, ma è presente nel mondo e si fa sentire da noi – lo acclamano gli
apostoli, i martiri, i profeti – e noi facciamo parte di questa Chiesa gloriosa e ci uniamo alla lode dei Santi per adorare il Padre il Figlio e lo Spirito Santo.

La seconda parte del Te Deum è una invocazione a Cristo e ricorda gli eventi fondamentali della sua vita
e dell’opera di salvezza da lui compiuta:
O Cristo, re della gloria, eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre per la salvezza dell’uomo.
Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre.
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.
Soccorri i tuoi figli, Signore, che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria nell’assemblea dei santi.

Il Cristo, Re della gloria, eterno Figlio del Padre, quando ha deciso di liberare l’uomo non ha rifiutato il grembo della Vergine, ma si è degnato di scendere, di farsi piccolo, di entrare nella nostra umanità.
Consegnandosi volontariamente alla morte, ha vinto il potere della morte e ci ha aperto le porte della vita eterna. Adesso siede glorioso alla destra del Padre e regna per sempre nella gloria di Dio: un giorno infine verrà a giudicare il mondo. A questo punto – dopo aver adorato il Cristo come nostro Dio e sovrano dell’universo – gli chiediamo di soccorrere i figli che «ha redento col suo sangue prezioso». Gli chiediamo che ci accolga un giorno nella sua gloria, nell’assemblea dei Santi. Il centro del Te Deum è cristologico, perché il centro di tutta la nostra vita è Cristo e lo stile della nostra vita deve essere il ringraziamento. Siamo incentrati sulla storia di Gesù che diventa la nostra storia, e la nostra preghiera è un continuo ringraziamento a Lui.
La terza parte della preghiera, infine, diventa la supplica.
Salva il tuo popolo, Signore, guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, lodiamo il tuo nome per sempre.
Degnati oggi, Signore, di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: in te abbiamo sperato.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno.

È la rielaborazione di alcuni versi di salmi, con cui insistentemente chiediamo al Signore: salva il tuo
popolo, benedici la tua eredità, guida e proteggi i tuoi figli. Ogni giorno abbiamo bisogno che tu ci regga, che ci illumini, che ci conduca. Noi ti benediciamo e ti lodiamo per sempre.
Per questo chiediamo al Signore oggi, ma vale per ogni giorno della nostra vita: “Degnati, o Signore, di conservarci e di custodirci dal peccato che è il male peggiore. Sia la tua misericordia su di noi, Signore, perché in te abbiamo sperato. Tu sei la nostra speranza e noi siamo certi che non resteremo confusi, perché in te abbiamo sperato”.
Con tutti i cristiani sparsi nel mondo oggi cantiamo il Te Deum di ringraziamento.
Nonostante tutto, proprio perché siamo nella difficoltà, sentiamo di avere ancora più bisogno del Signore e non ci lamentiamo con Lui, ma lo lodiamo e lo benediciamo; lo ringraziamo per tutto quello che abbiamo avuto e gli chiediamo la forza per vivere bene ogni giorno del nuovo anno, perché dipende da noi che i tempi siano buoni … possiamo farli diventare buoni noi, entrando nello stile di Dio che fa di ogni
esperienza l’occasione di ringraziamento, di lode e di benedizione.
Con questo stile certamente l’anno sarà buono, qualunque cosa capiti.

I figli sono un dono e una sorpresa

La Parola di Dio in questa festa della Santa Famiglia attira la nostra attenzione sul dono dei figli, sul fatto che vengono dal Signore e sono un dono di grazia. Il racconto della nascita di Samuele, quando ormai la madre Anna non ci sperava più, mette davanti ai nostri occhi un esempio antico e importante: questa donna ha chiesto con insistenza al Signore di poter avere un figlio ed è stata ascoltata. Attraverso la sua preghiera, la sua supplica, la sua ardente attesa, noi pensiamo a tante famiglie che hanno desiderato i figli e non sono venuti, ma pensiamo anche a tutti i figli che sono venuti, che sono un dono di Dio e che non appartengono ai genitori. Ognuno di noi è figlio: non tutti siamo genitori, ma tutti – indistintamente – siamo figli.
Allora, in qualunque età ci troviamo, questo discorso vale anzitutto per ciascuno di noi: io sono un dono, sono stato un dono per la mia famiglia, quando sono nato e lo sono per tutta la vita. Ognuno di noi non appartiene a quella famiglia, non è una cosa di proprietà, è una persona che arriva come un regalo che cambia la vita. I figli infatti sorprendono, sono novità, cambiamo l’impostazione e talvolta – se non spesso – fanno anche soffrire. Ognuno di noi può ripetere per sé: io sono stato una sorpresa per la mia famiglia e ho portato novità e anche sofferenza. Non ragionate solo nella prospettiva del genitore, ma provate a sentirvi come figli – non ci vuole una grande fatica – perché, anche se siamo avanti negli anni, restiamo figli.
È necessario e bello avere la consapevolezza di essere un dono di Dio, una sorpresa che Dio ha posto nelle nostre famiglie, per crescere nella novità. È un dono di grazia la presenza del figlio che non può essere dominata.
L’atteggiamento corretto dei genitori infatti è quello del dono della vita: il figlio ricevuto in dono viene donato.
Anna, dopo che le è nato il figlio tanto atteso, saggiamente lo chiama “Samuele”, spiegando che il suo nome vuol dire “l’ho richiesto al Signore”, per questo adesso è offerto al Signore: liberamente la madre porta questo bambino nella tenda santa di Silo, perché resti lì, come inserviente del santuario; lo offre al Signore. Il figlio è offerto al Signore, perché viene dal Signore ed è nato per compiere la sua missione. Ognuno di noi allora si domanda come figlio: “Qual è la mia missione? Se io sono stato un dono, che compito ho nella vita, che cosa mi chiede il Signore? Non sono nato per me, come non sono da me! Sono nato perché altri mi hanno messo al mondo e non sono nato per fare i fatti miei; sono nato per essere un dono, per fare della mia vita un dono, per mettermi al servizio del Signore”. Gesù è stato un dono per la sua famiglia ed è stato una sorpresa. La madre dopo quel momento angoscioso di ricerca gli fa una domanda dolce, ma velata di rimprovero: “Perché ci hai fatto questo, figlio? Tuo padre e io angosciati ti cercavamo”. Notate la finezza con cui Maria nomina prima Giuseppe e davanti al ragazzo dodicenne dice: “Tuo padre e io ti cercavamo”. Mette l’io in seconda posizione e sottolinea il dolore anche dell’altro, di Giuseppe. Gesù le risponde in un modo che, umanamente parlando, corrisponde a un pugno nello stomaco al povero San Giuseppe: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Il ragazzo ha già una consapevolezza di sé.
Mentre Maria ha parlato di Giuseppe come di suo padre, Gesù è consapevole che suo Padre è un Altro: perciò è rimasto nel tempio per occuparsi delle cose del Padre suo. È una sorpresa, è una sorpresa anche dolorosa per Maria e Giuseppe, perché questo bambino è diverso da come se lo immaginavano e, nonostante tutta la buona disponibilità con cui lo hanno accolto, quel bambino ha creato delle sorprese nella loro vita, ha fatto delle scelte che li ha fatti soffrire. Anche Maria e Giuseppe hanno dovuto cambiare la loro impostazione. La madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore, le metteva insieme e cercava di capirle; non volevano dominare Gesù, ma si sono lasciati sorprendere dalla sua scelta. Hanno capito che quel bambino non era per loro … ma ogni bambino non è semplicemente per i genitori, per far contenta la propria famiglia. La famiglia di origine è come un arco – ha detto un poeta – e i figli sono le frecce: la famiglia lancia i figli verso il futuro; i figli infatti come frecce si distaccano dall’arco e tendono verso la novità. Proprio la presenza di Dio nelle nostre famiglie diventa un dono e una sorpresa. Impegniamoci in questi giorni natalizi a ripensare alla nostra vicenda famigliare nella luce del Signore: le nostre storie, le nostre gioie e anche le nostre sofferenze, dobbiamo comprenderle nella luce del Signore, nel suo progetto, nella sua storia di salvezza.
La nostra storia ha un senso, le nostre vicende sono legate al progetto di Dio. Impegniamoci a capire che cosa il Signore chiede a noi. Con grande desiderio e disponibilità gli diciamo il nostro desiderio di seguire la sua strada, di essere un dono, di accogliere le sue sorprese, di fare la sua volontà. Anche ognuno di noi è nato per occuparsi delle cose del Padre suo: ognuno di noi ha come fine occuparsi delle cose del Padre celeste e in questo senso la nostra vita diventa dono per il mondo, e diventa una sorpresa di vita per chi ci incontra in tutta la nostra esistenza.

Pace in terra agli uomini della benevolenza

“Gloria a Dio nell’alto dei cieli – cantano gli angeli nella notte di Betlemme – e sulla terra pace agli uomini che egli ama”. Nell’originale greco si adopera una parola di difficile traduzione, che potrebbe essere resa letteralmente con benevolenza: “Pace in terra agli uomini della benevolenza”. La benevolenza è quella di Dio e noi – creature umane – siamo oggetto di questa benevolenza. È la bella notizia di Natale: Dio vuole bene all’umanità. “Il voler bene” è una relazione di affetto; la benevolenza divina è quella buona disposizione d’animo nei confronti dell’umanità. Viene annunciato così il volto umano di Dio: quel bambino che è nato rivela la benevolenza divina che porta la pace, che offre la possibilità della pace, che crea pace fra di noi. A Natale noi accogliamo questo dono che viene dall’alto, il dono della benevolenza che Dio ci offre.
È quell’amore grande che egli offre a noi, chiedendo in cambio di essere amato; è la sua buona disposizione verso di noi. Dallo stile del Natale noi impariamo tale atteggiamento benevolo, per diventare persone che sanno voler bene. Può essere una espressione banale – possiamo infatti rovinarla – ma, se ci pensate bene e la dite con consapevolezza, è una affermazione grandiosa. Dire a una persona “Ti voglio bene” è un fatto meraviglioso. Può essere solo un TVB scritto in un messaggino senza pensarci, può essere una formula generica detta ad un grande pubblico, come una qualunque altra formula di saluto, ma se è detta col cuore, se è detta con l’intelligenza e la volontà, “Ti voglio bene” è una parola grandiosa! È l’autentica dichiarazione d’amore: voglio il tuo bene. Volere il bene dell’altro è l’atteggiamento di Dio, è la sua buona disposizione verso di noi, verso l’umanità, verso ciascuno di noi. Questo suo atteggiamento, rivelato nell’uomo Gesù, diventa il nostro stile, diventa la bella notizia cristiana, diventa il nostro impegno! Vogliamo essere persone benevoli, persone che sanno voler bene. Pensate quanti drammi famigliari segnano le nostre cronache, quante persone che dicevano di volere bene, invece trattano male fino ad uccidere la persona che pensavano di amare. Sembra facile volere bene! È banale dirlo, ma volere bene all’altro, volere il bene dell’altro è un’azione divina, è la grandezza della nostra umanità! È possibile grazie a Gesù Cristo! Grazie alla sua incarnazione egli ha unito cielo e terra. La gloria di Dio che è nell’alto dei cieli abita ora la nostra terra, la nostra realtà concreta, le nostre difficoltà, le nostre relazioni problematiche; e ci porta la pace, ci porta una capacità di relazione buona: pace fra l’umanità di Dio, pace fra le varie persone, pace dentro il cuore di ciascuno. Queste relazioni buone diventano benevolenza, affabilità, cordialità, simpatia, umanità: devono essere queste le nostre doti, le caratteristiche del nostro atteggiamento, la nostra realtà cristiana! La nostra Comunità deve essere caratterizzata da queste qualità. Vogliamo essere persone affabili che parlano con gli altri, con disponibilità, capaci di dialogo; vogliamo essere persone cordiali che ragionano e agiscono col cuore, con sentimento buono; vogliamo essere persone simpatiche – non perché facciamo ridere – ma perché siamo capaci di condividere i sentimenti dell’altro e di farci carico delle difficoltà, piangere con chi piange e ridere con chi è contento; vogliamo essere umani … quando parliamo di atteggiamento umano o della umanità nel tratto, intendiamo proprio questa benevolenza, questa capacità di affetto e di simpatia che lega gli uni agli altri. Il nostro mondo ne ha bisogno, ne ha bisogno da sempre! Siamo noi, che crediamo in Gesù Cristo, a essere portatori di questa affabilità, di questa cordialità, della simpatia umana, portatori della benevolenza divina, creatori di pace nelle nostre relazioni. Chiediamolo al Signore come dono natalizio per ciascuno di noi, per tutta la nostra comunità, perché le nostre relazioni diventino benevole. Chiediamo al Signore la capacita di essere quegli uomini della benevolenza a cui è data la pace del Natale: persone che sanno volere bene, non solo al piccolo cerchio dei parenti stretti, ma comunque, in genere nella società, capaci di volere il bene dell’altro – chiunque esso sia – capaci di volere il vero bene e di costruire il bene sociale, il bene comune. Vogliamo esser persone benevole che cambiano il volto della società.
È la bellezza del Natale creare atmosfere di amicizia, di simpatia, di umanità; è la bellezza del Natale sentirci in famiglia, sentirci accolti, ritrovarci, incontrarci … sappiamo quanto è bello stare insieme bene. Vogliamo crescere in queste relazioni umane e benevole. Chiediamo al Signore questo dono natalizio che ci renda capaci di volere bene, che ci renda disposti benevolmente verso gli altri.

Buon Natale

Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”!. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato”. Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima. Lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia.

Quest’anno, durante la Messa della Notte di Natale, Papa Francesco aprirà la Porta Santa del Giubileo – Pellegrini di Speranza. Ci lasciamo guidare dalle parole di Papa Francesco che ci aiuta a riflettere sul momento in cui la speranza è entrata nel mondo. “Dio adempie la promessa facendosi uomo; non abbandona il suo popolo, si avvicina fino a spogliarsi della sua divinità.
In tal modo Dio dimostra la sua fedeltà e inaugura un Regno nuovo, che dona una nuova speranza all’umanità”. E qual è questa speranza?
Quando si parla di speranza, spesso ci si riferisce a ciò che non è in potere dell’uomo e che non è visibile. In effetti, ciò che speriamo va oltre le nostre forze e il nostro sguardo.
Ma il Natale di Cristo, inaugurando la redenzione, ci parla di una speranza diversa, una speranza affidabile, visibile e comprensibile, perché fondata in Dio. Egli entra nel mondo e ci dona la forza di camminare con Lui: Dio cammina con noi in Gesù e camminare con Lui verso la pienezza della vita ci dà la forza di stare in maniera nuova nel presente, benché faticoso. Sperare allora per il cristiano significa la certezza di essere in cammino con Cristo verso il Padre che ci attende.
La speranza mai si ferma, la speranza sempre è in cammino e ci fa camminare. Questa speranza, che il Bambino di Betlemme ci dona, offre una meta, un destino buono al presente, la salvezza all’umanità, la beatitudine a chi si affida a Dio misericordioso.
San Paolo riassume tutto questo con l’espressione: “Nella speranza siamo stati salvati”. Cioè, camminando in questo modo, con speranza, siamo salvi. E qui possiamo farci la domanda, ognuno di noi: io cammino con speranza o la mia vita interiore è ferma, chiusa? Il mio cuore è un cassetto chiuso o è un cassetto aperto alla speranza che mi fa camminare non da solo, con Gesù?

Testimoniare: fiamma e promessa

La quarta domenica del Tempo di Avvento di quest’anno precede di soli due giorni l’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro in Roma quale segno dell’inizio dell’Anno Giubilare 2025, il cui motto è Pellegrini di Speranza. Dedicato al tema della Speranza e con un forte richiamo al pellegrinare.
Il pellegrinaggio è, infatti, uno dei segni del Giubileo. Come si legge sul portale dedicato all’Evento, il giubileo chiede di mettersi in cammino e di superare alcuni confini.
Un esempio di questo pellegrinare ci è offerto proprio dal Vangelo di questa domenica: Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.

Il cammino di Maria verso sua cugina Elisabetta non è facile. Percorrere la regione montuosa, correre il rischio di un viaggio? I racconti evangelici non ci riportano cosa pensasse Maria durante il viaggio verso Elisabetta, ma fra l’annuncio dell’angelo e la visita ad Elisabetta c’è un filo rosso che collega tutta la storia di Maria. Questo filo rosso è la fiamma della contemplazione. Una fiamma invisibile che si accende nel grembo di Maria e che si rivela quando il bambino esulta di gioia nel grembo di Elisabetta. Una fiamma che possiamo contemplare anche noi, nella nostra storia, quando i palmi si rivolgono verso l’altro e verso l’alto, quando il nostro ascolto della Parola si fa preghiera e accoglienza, mani che si aprono e che rendono visibile l’invisibile promessa di Dio nella nostra vita. Elisabetta parla di orecchi, non di occhi.
Cos’ha sentito Elisabetta? Perché il Vangelo ci riferisce questo particolare? Elisabetta ci fa pensare ad un mutismo che all’improvviso viene meno attorno a lei: difatti, proprio suo marito, Zaccaria, era stato reso muto dopo l’annuncio nel tempio della nascita di Giovanni. Più frequentemente, siamo soliti collegare al senso della vista un motivo di gioia, di esultanza, quale quella provata da Elisabetta e da Giovanni nel suo grembo. Ma in questo Vangelo, il collegamento diretto all’emozione della gioia è l’udito. Perché? Perché Maria porta con sé la Parola: la Parola vivente, la Parola fatta carne. E la Parola si sente, si ode, si ascolta, si contempla. Prima che dal vedere Maria, Elisabetta è sorpresa dal sentire il saluto che Maria le rivolge: dall’irrompere nella sua casa della Parola che Maria porta nel grembo.
Maria avrebbe potuto trovare Elisabetta in qualsiasi luogo della città, ma è a casa di Zaccaria che va e la trova. E andando, porta con sé la Parola vivente che irrompe nella casa e, irrompendo, scioglie, non ancora il mutismo di Zaccaria, ma il mutismo che avvolge Elisabetta; quel mutismo che è silenzio sterile perché privo della Parola di Dio. È stato necessario sentire, ascoltare. È lo stesso che può accadere nella vita spirituale di ciascuno: avere al nostro fianco il Signore Gesù in persona, vederlo e non riconoscerlo.
Fintanto che non si ascolta la Sua voce. E poter esclamare: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Probabilmente, è la stessa fiamma della contemplazione che ardeva nel cuore di Maria mentre era in viaggio verso la casa di Zaccaria.

Quali sono i confini che riconosco essere necessario superare per la mia crescita umana e spirituale? Sono disposto a mettermi in cammino per realizzare il progetto di amore che Dio ha pensato per me? Del cammino della mia vita già compiuto faccio memoria delle volte in cui il Signore si è manifestato come compagno di viaggio proprio quando invece credevo di essere solo/a? Sono disposto a custodire e ad alimentare la fiamma della contemplazione che rende visibile l’invisibile nella mia vita?

Spes: spalanchiamo la porta

QUARTA DOMENICA D’AVVENTO: TESTIMONIARE LA SPERANZA

Siamo giunti all’ultima domenica di Avvento, e in questo cammino carico di Speranza, Luca, ci propone l’incontro tra Maria ed Elisabetta, entrambe in attesa!
Con loro l’attesa e la speranza si nutrono di fiducia.
Maria ha fiducia nella volontà di Dio che ha sempre progetti grandi ed Elisabetta intona un inno di benedizione dinanzi alla madre del suo Signore! Allora testimoniare è il nostro verbo di questa settimana! Siamo chiamati a testimoniare la fede come esperienza di fiducia in Dio, segno della nostra relazione profonda con Lui che ci sta sempre vicino.

In ascolto della speranza

LA GRANDEZZA DI DIO NELLE PICCOLE COSE
Michea si occupò dei problemi morali e spirituali della gente e non di quelli politici; rimprovera le guide del popolo e difende i deboli e gli oppressi. Denuncia con energia le ingiustizie e annuncia la Speranza nella misericordia. Sperare è…APPREZZARE
ASCOLTO SAPIENZIALE: Così dice il Signore: E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità; dai giorni più remoti (Mic 5,1)
Il profeta Michea, sulla linea degli oracoli messianici, parla di Betlemme pensando alla ripresa della storia della salvezza dalle origini risalenti a Davide. A questo stesso oracolo si rifaranno i sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme per indicare ai Magi il luogo dove avrebbero potuto trovare “il re dei Giudei”, che essi andavano a cercare dietro l’indicazione della stella. La sorpresa del profeta nasce dal considerare la poca importanza della “piccola” borgata Betlemme, in confronto con le altre città di Giuda, e la gloria che le deriverà dal fatto che proprio da lei dovrà “uscire il dominatore di Israele”, cioè il Messia. Egli ci vie presentato con le immagini bibliche e tradizionali del “re-pastore” che guida con “forza il suo popolo e garantisce a tutti “pace” e Sicurezza. Betlemme non è solo un territorio geografico: è soprattutto la terra degli inizi dalla quale Dio riparte, castigando il peccato dei discendenti di Davide, che hanno tradito l’alleanza ma lo fa anche rinnovando la sua fedeltà con il dono della pace. Il Messia atteso e promesso è il dominatore sulle forze del male e il pastore del popolo di Dio. Anche i Vangeli sottolineeranno la dimensione geografica di Betlemme, città nella quale nascerà Gesù. L’oracolo del profeta Michea ci trasmette, alla vigilia del Natale di Gesù, un significativo elogio all’umilità che si contrappone a tutto ciò che oggi il mondo idolatra con le categorie della potenza e della forza, della sopraffazione e del sopruso. È la lezione dell’umiltà del Cristo che “spoglia sé stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini”.
È la lezione dell’umiltà e delle piccole cose, di un piccolo borgo come Betlemme, del nostro piccolo borgo, dove prova a resistere e a vivere l’essenzialità delle piccole cose della vita quotidiana, la semplicità dei poveri di spirito contrapposta al sopruso e all’arroganza del potente Michea, in tempo e in un momento difficile della vita del popolo di Israele, ha il coraggio di promettere qualche cosa di grande e di bello,
sottolineando lo stile e la grandezza di Dio che prendono forma dalle realtà piccole in contrapposizione alla mentalità del mondo, alla voglia di essere grandi, di essere più degli altri, di essere forti e potenti.

Novena di Natale

La speranza in Cristo è qualcosa che ha inizio con la sua venuta nel mondo ma che, con largo anticipo, profeti e patriarchi hanno predetto e sempre annunciato alle diverse generazioni. Vogliamo, con questa novena in preparazione al Natale, coltivare questa Speranza. La speranza in colui che già c’è, ma che dovrà ritornare, è anticipata da segni grandiosi, come la Stella nel cielo che guida i Magi, il mutismo di Zaccaria e la sterilità guarita di Elisabetta, ma anche da segni umili, come la scelta di una giovane ragazza quale madre del Messia, il sogno di Giuseppe e la nascita di Gesù in una mangiatoia. Il cammino verso il Natale è un percorso fatto di storie umane che attendono il Re e ripongono in lui tutte loro attese e le loro speranze. Le generazioni di oggi sono piene di titubanze per il loro futuro e l’incertezza del domani genera in loro non poche difficoltà e malesseri. L’atteggiamento della speranza, può offrirci occhi nuovi e incoraggiarci nel nostro cammino, trasformando gli ostacoli in sfide e l’ignoto in esplorazione.
La Novena, ulteriore occasione offertaci in questi giorni per vivere con la speranza nel cuore ed imparare ad avere fiducia in colui che ci ama e ha dato la vita per noi.

Siamo chiamati all’amore; è questa la nostra vocazione di prendiamo consapevolezza se c lasciamo guarire il cuore da Cristo. Rinnovati dal Suo amore possiamo guardare in maniera nuova alla nostra vita, apprezzare le piccole cose di ogni giorno e vivere in pienezza; solo così può emergere la verità su di noi, su Dio e sui fratelli che richiede l’umiltà. Abbiam bisogno di riscoprire la virtù dell’umiltà per non camminare nell’inganno, nel delirio onnipotenza e nella menzogna che ci fanno sprofondare nel male. “Nelle sue Beatitudini Gesù parte proprio da loro: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3). È la prima Beatitudine perché sta alla base di quelle che seguono: infatti la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore nascono da quel senso interiore di piccolezza” (Pap Francesco). La forza di ricominciare e di rinasce si trova nella capacità di apprezzare e valorizzare le cose semplici, la nostra quotidianità e i nostri doni. La ricchezza della grazia è un “tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Di e non da noi” (2 Cor 4,7). Siamo come i vasi di creta; avere consapevolezza della nostr debolezza ci preserva dal rischio di falsificare la nostra immagine, di svendere la nostra felicità e di non valorizzare i nostri doni. Come possiamo valorizzare i nostri carismi?
 

3 Avvento: Gaudete

La gioia cristiana assume tratti del tutto singolari e unici, “riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. La gioia è la risposta al dono di Dio, è la meraviglia per tutto quello che il Signore compie nella nostra esistenza. “La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia”. La gioia è il segno certo della Sua grazia e della Sua vita in noi, non può essere confusa con l’euforia ma “è il respiro, il modo di esprimersi del cristiano”.
Si tratta di fare memoria dell’opera del Signore Gesù Cristo, di accogliere il dono della Sua consolazione e di aprire il cuore alla speranza. La gioia cristiana fiorisce nel cuore di chi si mette in ascolto del Vangelo, genera quella pace che ci permette di non perdere la fiducia davanti alle inquietudini della vita e ha la forza di cambiare la vita. Il contenuto del Vangelo, la buona/bella notizia, è che Cristo Gesù ha condiviso la fragilità della natura umana, capovolgendo la situazione esistenziale segnata dal peccato e riconciliandoci col Padre. La gioia si allarga quando il credente riconosce di essere amato da Dio e di entrare a far parte di una famiglia, la Chiesa. La gioia dell’incontro con Gesù libera dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore e dall’isolamento. Cosa ci manca per essere veramente felici?

È Giovanni il protagonista della Liturgia della Parola di questa domenica. Egli si affretta a chiarire, usando un linguaggio piuttosto forte, che colui che sarebbe giunto dopo di lui, il Cristo, era uno con cui c’è poco da scherzare… se slegare il laccio dei sandali era uno dei gesti più umili che gli schiavi compivano verso i padroni, Giovanni non è degno neppure di compiere questo gesto nei suoi confronti; non battezzerà semplicemente nell’acqua, ma nel fuoco dello Spirito Santo; e il pensiero non va al fuoco che riscalda, ma al fuoco che elimina ciò che resta dopo lo sfalcio… C’è una domanda che si ripete: “Che cosa dobbiamo fare?”. Formulata per avere indicazioni, per sciogliere dubbi, per provocare. È la domanda della folla, dei pubblicani, dei soldati. A tutti Giovanni fa una proposta: forse non è quello che faranno. Ma Giovanni richiama ad una conversione radicale, che non riguarda la pratica religiosa, già normata dalla Legge, dal Tempio, dalla Sinagoga, dalle istituzioni. “Fare qualcosa”: ovvero partire dalle cose concrete della vita, dal vissuto quotidiano: se la conversione resta un discorso suggestivo pieno di buone intenzioni non serve a niente, non cambia il cuore, non trasforma la vita.
La condivisione. “Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Un gesto non dettato dalla religione, ma dalla prossimità al destino di ogni uomo: mettere in comune quel che si ha con chi ci sta simpatico è naturale, condividere con chi ha bisogno chiede un passo avanti sulla via di una solidarietà umana essenziale, che non guarda al merito ma assicura la giustizia.
L’onestà. “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Significa riconoscere che in realtà nulla abbiamo portato con noi venendo al mondo e nulla porteremo via alla fine della vita, se non l’amore. Significa riconoscere che Dio è con noi e di ciascuno di noi si prende cura. L’onestà non è considerata la virtù di chi è semplicemente guidato dal senso del dovere ma il segno visibile di una fraternità praticata in ciò che è essenziale e non nel superfluo.
La pace. “Non maltrattate e non estorcete”. Per diventare discepoli del Re che viene bisogna attingere ad una sana determinazione, guidata dal senso del rispetto di ogni persona, soprattutto di chi è più debole e indifeso. La chiamiamo difesa dei diritti: il Vangelo la traduce con le parole di Giovanni rivolte a chi detiene il potere sui propri simili, che non può risolversi in prevaricazione e sfruttamento.