Forse l’uomo che meglio capì il rapporto fra parola di Dio e speranza fu un pagano, il centurione romano che, dopo aver supplicato Gesù di guarire il suo servo malato, di fronte all’immediata disponibilità del Signore si dichiarò indegno che egli andasse a casa sua e gli disse: “Di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito!”. Gli bastava una parola di Cristo per avere speranza certa nella salvezza da Lui operata. La fede ha permesso al centurione di capire che ciò che suscita speranza nella parola di Dio è che è, appunto, una parola di Dio, cioè la parola che colui che fa tutte le cose rivolge personalmente al nostro bisogno di salvezza e di vita eterna. Lo ha capito anche Pietro in un momento che poteva essere di disperazione perché tutti avevano abbandonato il Signore e restavano con Lui solo pochi discepoli impacciati e insicuri: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Le parole di Gesù rimanevano per Pietro e i suoi compagni come l’ultimo filo di speranza in una pienezza di vita che potevano attendere solo da Dio. Ma perché e come la speranza di Pietro, come quella del centurione, poteva aggrapparsi alla parola di Cristo? Cosa dà alla parola del Signore questa potenza, questa solidità per cui ci si può abbandonare ad essa con tutto il peso della vita, con tutto il peso della nostra vita in pericolo di scivolare nella disperazione, nella morte, nel nulla? Cosa permette a chi ascolta questa parola di riconosce che a Colui che la pronuncia ci si può abbandonare con totale fiducia? Questo è possibile se la parola del Signore raggiunge il cuore non come promessa di qualcosa ma come promessa di qualcuno, e di qualcuno che ama la nostra vita di un amore onnipotente, che può tutto per coloro che ama e si affidano a Lui. Molti hanno abbandonato Gesù, dopo il discorso sul pane di vita nella sinagoga di Cafarnao, dicendo “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Come mai la parola di Gesù era per loro una ragione di partire quando per Pietro e gli altri discepoli era l’unica ragione di restare con Lui? Il fatto è che i primi avevano ascoltato la sua parola separandola dalla sua fonte, Cristo stesso.
Pietro e i discepoli, invece, non potevano astrarre nessuna parola di Gesù dalla sua presenza, cioè dal rapporto con Lui, dalla sua amicizia. La parola di Dio può essere fonte di speranza se per noi Dio rimane la fonte della parola stessa. Solo se ascoltiamo la parola dalla voce del Verbo presente, che ci guarda con amore, essa può alimentare in noi una speranza incrollabile, perché fondata su una presenza che non viene mai meno. La parola di Dio è una promessa in cui non solo colui che promette è fedele, ma rimane incluso nella promessa stessa, perché Cristo ci promette se stesso. Questo legame indelebile della parola di Dio con la sua presenza, così radicale da quando “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” fino a morire in croce per noi, è la coscienza e la promessa di tutto l’Antico Testamento. Come quando il salmo 27 grida al Signore: “Se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa!”. L’uomo ha in sé la coscienza profonda, ontologica, che se Dio non gli parla, se Dio non lo crea ad ogni istante con la sua parola, per lui è inevitabile la morte, il dissolvimento della vita, perché Dio crea dicendo tutto nel Verbo per mezzo del quale esistono tutte le cose. Uno può vivere senza ascoltare la Parola che lo fa con amore, ma così fa esperienza, come tanti oggi, di una vita inconsistente, di una vita dissipata, che sfugge dalle nostre mani incapaci di trattenerla. Invece, ci è data la grazia di vivere ascoltando, di vivere tesi ad ascoltare il Signore che sta costantemente alla porta della nostra libertà, bussando e chiedendo di entrare.
Ci è dato di vivere ascoltando la sua voce che ci chiama alla comunione con Lui, a un’amicizia infinita, permettendo così allo Spirito di generare in noi e fra noi una vita nuova, traboccante di speranza, non in qualcosa, ma in Dio che adempie la promessa della sua presenza nell’istante stesso in cui la sua parola la esprime.