Mese: febbraio 2025
Giovedì Eucaristico
Normalmente la prima reazione che dovremmo sentire nell’essere alla presenza del Signore, dovrebbe essere la gioia di sapercelo accanto, il desiderio di sentirlo parlare e di ascoltarne la voce. Capire chi è Lui e l’amore che nutre per noi. E questa la prima scoperta che introduce già nel cuore della preghiera; solo in un secondo momento, sorgerà il desiderio di dover rispondere al suo amore e che cosa fare per, poi, tradurlo in vita. Non si tratta di immaginarci che ci sia, ma convincerci e avere certezza che c’è davvero, e che vuole comunicare con noi. Questo è un punto su cui bisogna particolarmente insistere, perché troppo spesso pensiamo che il Signore stia lontano o distratto, quasi che il nostro impegno fondamentale sia quello di attirare la sua attenzione su di noi. Invece è Lui che ci cerca e ci chiama, la nostra è solo una risposta.
Siccome, però, a noi capita di dimenticarlo e di non riconoscerlo, perché spesso col cuore e con la mente siamo lontani da Lui, pensiamo che anche Lui lo sia da noi.
Ebbene, devo ripetermelo, Lui non mi dimentica, Lui mi riconosce sempre, Lui sta sempre lì a guardarmi, a invitarmi, a farmi compagnia, a istruirmi. Non posso dubitare che Egli mi ama, che in questo momento mi sta amando. Che «mi guarda con amore e umiltà». Posso forse dubitare del mio amore per Lui, ma non del suo amore per me. Ciò che spesso rende difficile questo atto di fede è anche il pensiero che Gesù ora si trova in cielo, in Paradiso, quindi lontano da noi. Dobbiamo correggere tale concezione del cielo e del Paradiso. Proprio perché glorioso alla destra del Padre, ora Gesù può essere presente dovunque c’è un cuore che lo accoglie. Nella sua vita terrena Egli era condizionato dal tempo e dallo spazio.
Anche Lui, come tutti noi, non poteva stare in due posti diversi allo stesso tempo, se era a Betlemme non era a Nazareth, se era a Giudea non era in Samaria. Nella sua umanità Gesù non poteva vivere che in un solo luogo, come in un unico momento non poteva esprimere che un solo atto di amore.
Ma dopo la sua risurrezione gloriosa Gesù vive un’esistenza spirituale e, quindi, si può far presente in ogni anima, e unirsi a ciascuno di noi. La presenza spirituale non ha relazione con lo spazio e col tempo.
Anche io, che pur sono prigioniero del tempo e dello spazio, sono immensamente più vicino e presente a quelli cui penso e amo, che non a quanti urto e mi spingono nella metropolitana.
La presenza di Gesù non è soltanto una presenza fatta con la memoria come quando si ricorda qualcosa; né soltanto una presenza spirituale come la presenza, in noi, del nostro affetto e del nostro amore per tutti coloro che amiamo. La sua non è solo presenza intenzionale e affettiva: è una presenza reale. Non è che Gesù è presente, di fronte a me e in me, perché lo penso e lo amo; io sono sempre presente a Lui, anche se non ci penso, anche se non lo amo. Non più legato a luoghi e spazi temporali, Gesù è sempre presente per stabilire un rapporto di reciproco amore con ognuno che è disposto ad accoglierlo.
Egli non ha più nemmeno bisogno di ripetere, come allora, diversi atti di amore secondo le persone che progressivamente incontrava; vivendo, in perennità, la pienezza dell’amore, totalmente trasfigurato in amore, Egli può sempre venire in ciascuno che ama e convivere con ciascuno che gli risponde.
E chiaro, però, che il rapporto di amicizia diventa reale e attuale nel momento in cui si stabilisce la comunicazione; se, da parte mia, questa comunicazione vitale non c’è lo impedisco al Signore di vivere con me quella comunione vicendevole che noi chiamiamo amicizia e che la preghiera vuole attuare.
E questo per il semplice motivo che per avere un rapporto amichevole bisogna essere in due.
Ma per quanto riguarda la presenza di Gesù che ha nei miei riguardi un cuore e un atteggiamento di amico e che, in questo momento, mi chiede di contraccambiarlo, non dovrei avere dubbi.
Preghiera per Papa Francesco
Cristo Risorto è il fondamento della nostra Fede
«Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti». Questo è l’annuncio fondamentale che la comunità apostolica ha portato nel mondo ed è il fondamento della nostra fede. Cristo risorto è la nostra felicità, è il fondamento della nostra speranza. Credere nella sua risurrezione non vuol dire accettare una idea, ma vivere in relazione con una persona. È molto diverso. Non dobbiamo ridurre la nostra fede cristiana ad una ideologia, accettando l’idea della risurrezione e discutendo, in teoria, su questa realtà che va al di là delle nostre capacità di comprensione. La fede nella risurrezione significa invece fiducia nella persona di Gesù Cristo, veramente morto per noi, veramente risorto per la nostra salvezza. Egli vive e regna, è vivo adesso ed è Lui che comanda. Noi siamo suoi amici, siamo dalla sua parte e siamo contenti che Egli sia dalla nostra parte. Questa è la nostra beatitudine: accettare il Cristo risorto come garante della nostra vita ci mette nella posizione giusta, ci offre una condizione di serenità, sapendo che è Lui che ci porta ed è Lui che ci aspetta, ci precede e ci accoglie oltre la dimensione di questa vita terrena. Non abbiamo speranza in Cristo soltanto in questa vita; se fosse così – dice l’apostolo – saremmo da commiserare più di tutti gli altri. Allora è molto importante che noi cristiani riconosciamo che la speranza in Cristo va oltre questa vita. Non cerchiamo Gesù per avere qualche beneficio temporale, non cerchiamo da Lui favori, aiuti per poter fare la nostra vita, ma ci fidiamo di Lui, desiderando l’incontro definitivo ed eterno con Lui, sapendo che tutto il nostro agire – le nostre opere, le nostre sofferenze – hanno un senso perché sono orientate a Lui, perché in Lui troveranno pienezza e compimento. Questa è la predicazione degli apostoli. Paolo ha cominciato più di tutti gli altri a portare fuori di Israele questa predicazione e ha fondato tante Chiese sulla base del Cristo risorto. Una delle prime comunità che ha costituito era nella città di Corinto, una comunità vivace, molto attiva e intraprendente. A questa comunità rivolge la prima lettera che contiene molti argomenti, perché quei cristiani, non ancora ben formati, avevano tante incertezze: avevano infatti scritto all’apostolo chiedendogli precisazioni su diversi punti. L’ultimo punto che Paolo affronta è proprio quello della risurrezione. Nella comunità di Corinto c’era qualcuno che metteva in dubbio la risurrezione o, addirittura, la contestava. Secondo la mentalità greca la materia infatti non ha valore, non è importante il corpo.
Noi abbiamo ereditato questa idea dell’anima come una realtà staccata dal corpo tanto che parliamo spesso della immortalità dell’anima come se fosse una realtà a se stante. Nella Scrittura non si parla invece di immortalità dell’anima e neanche nel Credo cristiano. Diciamo di credere “la risurrezione della carne”.
È diverso; crediamo cioè nella nuova creazione di tutta la nostra persona. Non si tratta di salvarsi l’anima e di conservarla libera perché tanto è immortale, ma si tratta di orientare tutta la vita, quella fatta con la nostra carne, con tutti i nostri sentimenti, con tutte le azioni, con tutte le esperienze, le realtà di relazioni personali che abbiamo vissuto. Tutto questo è destinato alla risurrezione, perché Dio valorizza la nostra storia, la nostra corporeità, la nostra vicenda con tutto ciò che abbiamo fatto nel corpo.
Molti nella comunità di Corinto avevano accettato questo messaggio, anche se nuovo e strano, qualcuno però lo contestava. A questo punto l’apostolo si rivolge proprio a loro dicendo: “Come possono dire alcuni tra voi che non c’è risurrezione dei morti? Se escludiamo questo discorso, allora dobbiamo dire che
neanche Cristo è risorto! – è un ragionamento logico quello dell’apostolo – ma se Cristo non è risorto, è tutto vano!”. Vuol dire che questo è un elemento fondamentale: senza questo, tutto il resto crolla!
Non ci sono buone abitudini e devozioni varie che tengano, niente ci salva: se Cristo non è risorto, siamo tutti perduti, è tutto sprecato, la vita non ha senso. Per fortuna, invece, Cristo è risorto.
Questo è ciò che garantisce la nostra vita, ci dà forza nelle nostre sofferenze, è la luce che filtra anche solo per un filo nell’oscurità di certi momenti della nostra esistenza. Sappiamo che non è tutto qui, sappiamo che la nostra fede è valida, è solida, perché aderisce a Cristo. Ma fede non significa capire tutto, anzi! Il contrario di fede non è dubbio; il contrario di fede è la presunzione della scienza di chi si illude di capire. La fede è fiducia, l’atteggiamento di fede è quello del bambino in braccio alla mamma che si lascia portare e non capisce niente, ma si fida, sa di essere in buone mani, ed è contento perché è con una persona che lo ama. Questa è la nostra fede: come bambini in braccio alla persona che ci ama di più. Non capiamo, non spieghiamo, ma ci fidiamo! Abbiamo fiducia in Lui, non nelle nostre idee, perché – attenzione – diciamo di non capire finché ci fa comodo, dopodiché abbiamo la presunzione di capire tutto il resto e di spiegare una infinità di cose. Abbiamo molte volte la presunzione di sapere e di dare anche consigli al Padreterno.
È bene invece riconoscere che non sappiamo, che non capiamo, che non riusciamo a spiegare fino in fondo, perciò ci fidiamo e ci fidiamo di una persona: Gesù Cristo che è veramente risorto dai morti.
Siamo nelle sue mani, adesso e nell’eternità, e possiamo affrontare il futuro, possiamo affrontare anche la morte, sapendo che siamo in buone mani.
La fede come passione
Non può non interrogarci la disaffezione che esiste verso la fede e, ancor di più, verso la chiesa, che si manifesta nell’indifferenza religiosa, nell’abbandono nella pratica religiosa, nella richiesta quasi puramente “sacrale” dei sacramenti con quasi nessun investimento personale. Non può non interrogarci il diffuso disgusto, se non avversione, del modo di essere chiesa e in particolare verso la liturgia lontana dalla vita. Qual è l’origine di tale atteggiamento? Da questo interrogativo dovrebbe partire la ricerca di noi cristiani, accettando anche di riconoscere i nostri sbagli e la “degenerazione” di certi annunci.
Siamo tutti sollecitati da interiori meccanismi di difesa, a dire che il nostro tempo è tempo non di fede, tempo in cui l’ansia spirituale è soffocata dalla ricerca di soddisfazioni materiali e narcisistiche.
Possiamo essere così sicuri che il nostro tempo segni l’assenza della ricerca di Dio? Non potrebbe l’indifferenza religiosa essere un richiamo a mettere in crisi un modo scorretto di concepire Dio e la fede?
Perché non vedere la necessità di favorire esperienze autentiche di spiritualità, di relazione con Cristo nella comunità cristiana? Non è forse che siamo troppo impegnati in riunioni, in incontri, anche formativi o di proposte e attività umane, senza un reale tempo e spazio per l’Incontro?
Forse il “modo” che ha generato la freddezza nel vivere la fede, è l’aver insistito sulla fede come dovere e legge. Fare le cose per dovere o perché si è obbligati da una legge non è una forma di schiavitù?
Se una persona compie un’azione solo perché deve farla, ma non perché dentro c’è un valore e quindi la sente, la desidera, può ritenersi ancora libera e responsabile? Dio che si è manifestato come padre, madre, sposo, può accettare un rapporto con lui basato sul dovere o sulla legge?
Un altro atteggiamento, generalmente presente, è quello di considerare la fede come un “peso” o come un “giogo”. Il credente avrebbe un insieme di leggi, di ordinamenti da sopportare, per raggiungere la vita eterna. Accettare di essere credente sarebbe, quindi, assumere un “peso” che schiaccia la propria persona e la propria libertà, almeno nel presente. Difatti alcuni intendono il credere come una “rinuncia” alla propria libertà per un’obbedienza alle leggi di Dio. E forse qui sta la radice più profonda dell’antipatia nei riguardi della fede. Perché rinunciare alla propria libertà? Perché essere in balia di leggi e di costrizioni che
deresponsabilizzano e privano del gusto e della gioia di vivere?
In nome dell’umano alcuni rifiutano Dio, in nome della libertà rinunciano alla fede.
Oggi si desidera essere se stessi, esprimere le proprie capacità con fantasia e libertà e quindi non si potrà mai abbracciare, o meglio desiderare, la fede se questa viene presentata e annunciata come “riduzione di libertà” o “soffocamento” di vivere. Nascono così, o devono nascere, alcune domande: il Dio della Bibbia vuole che l’uomo obbedisca a leggi fisse o sia, invece, inventore di un progetto?
Credere significa assoggettarsi a un ordine stabilito o è il ricevere o Spirito per liberarsi e liberare da condizionamenti e camminare verso la pienezza del proprio essere e verso la felicità?
È molto diffuso l’atteggiamento di vivere la fede per dovere.
Questo atteggiamento corrisponde all’intenzione di Dio?
Dio desidera che faccia qualcosa o che partecipi per dovere, oppure che in quello che faccio o partecipo riacquisti il gusto di incontrami con Lui e con i fratelli nella comunità? La fede di Dio è osservare leggi e doveri oppure è cercare con desiderio Dio?
Giovedì Eucaristico
Per iniziare la preghiera è importante sapere chi siamo, ma è molto più importante avere consapevolezza di Colui di fronte al quale stiamo e con il quale vogliamo intrattenerci.
Bisogna insistere sul fatto della presenza di Dio. Essa è indispensabile, visto che il rapporto personale si stabilisce tra due che si incontrano. L’orazione inizia e si sviluppa solo se ci si mette e si sta alla presenza di Dio presente. La consapevolezza di questa presenza è, per la preghiera, come l’aria senza la quale non si vive. È evidente, infatti, che se noi iniziamo la preghiera senza questa attenzione a Dio presente, noi non stiamo ascoltando o parlando con nessuno; con la conseguenza che la preghiera resta un fatto estraneo alla vita, e tutto diventa formalismo o pura elucubrazione. Finché non si sperimenta il miracolo di essere davanti a Dio, non si è ancora incominciato a pregare, anche se abbiamo pronunciato una infinità di parole.
È meglio passare tutto il tempo a sforzarsi di credere che Dio ci è presente e ci guarda con amore, che moltiplicare parole vuote, dette a nessuno. E di assoluta importanza, dunque, avere consapevolezza che il Signore ci è realmente vicino, presente al nostro spirito, solo così possiamo realmente vivere la comunione con Lui. Si tratta di una presenza certamente misteriosa, che può essere in qualche modo colta con una certa intuizione, ma che noi possiamo percepire solo attraverso un atto di fede la quale, si sa, è oscura.
Parlando della fede un giorno Paolo VI ebbe a dire che noi siamo, in un certo senso, nella condizione di una persona che si trova in una stanza completamente buia o di un cieco che non vede, ma che sa di avere davanti a sé una persona che osserva, ascolta, ama. Un altro è qui, e questi è Dio. Stare alla presenza di Dio significa essere attenti a Lui, e questo è già stabilire un contatto personale, significa ascoltarlo, significa iniziare il dialogo della preghiera; qualunque sia il sentimento che in quel momento nutriamo nel cuore o anche esprimiamo a parole. Anzi, si può dire in tutta verità che pregare, sostanzialmente, è starsene alla presenza di Dio, sapendosi da Lui guardati con amore.
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13 Febbraio ore 21.00 Oratorio S. Giovanni Bosco Vicolo Redipuglia, 7 – San Fiorano
Ciclo di incontri rivolti ai genitori, agli insegnanti, agli educatori, ai volontari, ai catechisti e agli allenatori.
Relatore della serata: Marco Piccoli Pedagogista, Counsellor professionista
Giornata Mondiale del Malato: “La speranza non delude”
Oggi ricorre la 33 GIORNATA MONDIALE DEL MALATO. Fu San Giovanni Paolo II ad istituirla, nella ricorrenza dell’apparizione della Madonna a Lourdes.
L’esperienza della malattia e della sofferenza può generare un incontro facendo emergere una domanda di senso: “perché io, perché a me, perché in questa situazione.
E questa domanda in genere viene rivolta al Dio creatore, del quale sappiamo che è la risposta di senso per ognuno di noi.
Ciascuno di noi è chiamato a trovare la risposta di senso nella propria esperienza. Siamo invitati ad accogliere l’esperienza della malattia nella fedeltà a Dio e nella dimensione del dono ma anche della «condivisione» come gli «“angeli di speranza”, che sono i nostri affetti, i nostri curanti, tutte le persone attorno a noi quando sperimentiamo la sofferenza: nulla è peggio di viverla da soli. Camminare insieme è un segno della dignità umana, è un canto di speranza. I malati non sono solo i destinatari della nostra azione ma gli agenti principali di una rinnovata testimonianza, che dà luce e speranza a tutti noi.
Durante la Messa delle ore 17.30 conferimento dell’unzione degli infermi.
Chi desidera ricevere il sacramento dell’Unzione degli Infermi dia il proprio nominativo a don Giuseppe entro il 9 Febbraio.
89° anniversario della morte di don Alessandro Torchiani
Era nato a san Martino in Strada il 9 novembre 1867.
Ordinato sacerdote, la sua prima missione fu a san Fiorano, 2 agosto 1890.
Il 14 giugno 1894 partì per gli studi necessari alla missione in terre lontane, ma la sua malferma salute lo costrinse a ritornare a san Fiorano il 15 luglio dello stesso anno. Poi divenne pro-parroco e in seguito parroco sempre a san Fiorano, fino alla sua morte avvenuta il 10 febbraio 1936.
L’autore della lettera agli Ebrei ci ammonisce: “Ricordatevi dei vostri capi”. Ben volentieri la comunità parrocchiale ricorda i suoi pastori nel momento più alto che è la celebrazione della Eucaristia.
La presenza alla Messa manifesta la gratitudine e la riconoscenza per i nostri Pastori che ora sono nella celeste Gerusalemme.
Grande era la devozione di don Torchiani alla Madonna. A Lei aveva dedicato la gioventù femminile e le donne con l’Unione delle Figlie di Maria e la Confraternita dell’Addolorata.
A Maria Madre della Divina Provvidenza volle intitolare il ricovero, e per non cambiare tale intitolazione rifiutò l’offerta di chi in cambio avrebbe provveduto a tutte le spese di gestione. Celebrava con solennità le feste liturgiche della Madonna e nel 1908 fece costruire accanto alla chiesa una grotta di Lourdes davanti alla quale, alla sera, radunava i ragazzi per la recita delle preghiere e per un canto mariano.
Ogni giorno recitava il rosario intero di 15 decine, e per rendere meno faticosa la recita, andava spesso a chiamare una buona donna che veniva in chiesa a recitarlo con lui.
Beata Vergine Maria di Lourdes
Il messaggio di Maria è un messaggio di speranza per tutti gli uomini e per tutte le donne del nostro tempo. E’ significativo che, al momento della prima apparizione a Bernadette, Maria introduca il suo incontro col segno della Croce. Più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede che Bernadette riceve da Maria. Il segno della Croce è in qualche modo la sintesi della nostra fede, perché ci dice quanto Dio ci ha amati; ci dice che, nel mondo, c’è un amore più forte della morte, più forte delle nostre debolezze e dei nostri peccati. La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia. Ề questo mistero dell’universalità dell’amore di Dio per gli uomini che Maria è venuta a rivelare, a Lourdes. La Chiesa ha ricevuto la missione di mostrare a tutti questo viso di un Dio che ama, manifestato in Gesù Cristo. Volgiamo i nostri sguardi verso il Cristo. È Lui che ci renderà liberi per amare come Egli ci ama e per costruire un mondo riconciliato. La Chiesa è inviata dappertutto nel mondo per proclamare quest’unico messaggio ed invitare gli uomini ad accoglierlo mediante un’autentica conversione del cuore. Questa missione riceve, in occasione di questo Giubileo, un soffio nuovo. Seguendo il percorso giubilare sulle orme di Bernadette, l’essenziale del messaggio di Lourdes ci è ricordato. Bernadette è la maggiore di una famiglia molto povera, che non possiede né sapere né potere, è debole di salute. Maria la sceglie per trasmettere il suo messaggio di conversione, di preghiera e di penitenza, in piena sintonia con la parola di Gesù: Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli’. É dunque una vera catechesi che ci è proposta sotto lo sguardo di Maria. La bella Signora rivela il suo nome a Bernadette: Io sono l’Immacolata Concezione. Maria le rivela così la grazia straordinaria che ha ricevuto da Dio, quella di essere stata concepita senza peccato. Maria è questa donna della nostra terra che s’è rimessa interamente a Dio e ha ricevuto da Lui il privilegio di dare la vita umana al suo eterno Figlio. Essa è la bellezza trasfigurata, l’immagine dell’umanità nuova. Presentandosi così in una dipendenza totale da Dio, Maria esprime in realtà un atteggiamento di piena libertà, fondata sul pieno riconoscimento della sua vera dignità. E questo privilegio riguarda anche noi, perché ci svela la nostra dignità di uomini e di donne, segnati certo dal peccato, ma salvati nella speranza, una speranza che ci consente di affrontare la nostra vita quotidiana. La vocazione primaria del santuario di Lourdes è di essere un luogo di incontro con Dio nella preghiera, e un luogo di servizio ai fratelli, soprattutto per l’accoglienza dei malati, dei poveri e di tutte le persone che soffrono. In questo luogo Maria viene a noi come la madre, sempre disponibile ai bisogni dei suoi figli. Attraverso la luce che emana dal suo volto, è la misericordia di Dio che traspare. Maria viene a ricordarci che la preghiera deve avere un posto centrale nella nostra vita cristiana. La preghiera è indispensabile per accogliere la forza di Cristo. Quando Maria ricevette la visita dell’Angelo, era una giovane ragazza di Nazareth che conduceva la vita semplice e coraggiosa delle donne del suo villaggio. E se lo sguardo di Dio si posò in modo particolare su di lei, fidandosi di lei, Maria vuole dirci ancora che nessuno è indifferente per Dio. Non lasciamoci scoraggiare davanti alle difficoltà! Maria fu turbata all’annuncio dell’angelo sentiva quanto era debole di fronte alla onnipotenza di Dio. Tuttavia disse “sì” senza esitare. Grazie al suo “sì” la salvezza è entrata nel mondo, cambiando così la storia dell’umanità. È bello invocare Maria come Stella della speranza’ che ci rischiara e ci orienta nel nostro cammino. Mediante il suo sì’, mediante il dono generoso di se stessa, ha aperto a Dio le porte del nostro mondo e della nostra storia. E ci invita a vivere come lei in una speranza invincibile, rifiutando di ascoltare coloro che pretendono che noi siamo prigionieri del fato.