Santi Pietro e Paolo

Le chiavi di San Pietro, per legarci a Dio e liberarci dalla schiavitù

Nella festa dei Santi Pietro e Paolo, facciamo nostra la fede che riconosce in Gesù non un profeta, non un bravo educatore ma “Il Cristo il Figlio del Dio vivente”. Avere fede significa avere la fede di Pietro che non è frutto di educazione, intelligenza, ragionamenti, “carne e sangue” ma solo dono di Dio. E questo dono ci fa dire una cosa rivoluzionaria: Gesù non è un semplice profeta, un personal trainer dello spirito, un bravo educatore, un esperto incantatore di folle, ma è “Il Cristo il Figlio del Dio vivente”. Ecco perché questa solennità è la festa di un uomo che ha le “chiavi”, nel senso che la sua fede è davvero la chiave di lettura con cui si può realmente vivere e agire: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Legare e sciogliere non sono due modi opposti di agire, ma due modi differenti di fare la medesima cosa: a volte abbiamo bisogno di “legami” che ci salvino (questa è la Chiesa), e altre volte abbiamo bisogno di qualcosa che ci “sciolga” da ciò che ci tiene in schiavitù e impedisce la vita (questa è la Misericordia). Pietro non ha il potere di fare del bene o del male, ha il potere di fare solo il bene in tutte le sue forme: legando e sciogliendo.

Come Pietro e Paolo anche noi siamo la bellezza multiforme dello Spirito

La Chiesa fin dalle sue origini ha risposto alla tentazione dell’uniformità, quella cercata e rovinosamente crollata sotto la Torre di Babele, con la ricchezza della diversità, ricomposta nell’amore. E i santi apostoli Pietro e Paolo ne sono emblema e fondamento. È bello che lungo la storia la Chiesa abbia associato in unica festa i Santi Pietro e Paolo. Essi non solo rappresentano le colonne su cui si poggia la maggior parte dell’esperienza cristiana che conosciamo, ma sono anche il trionfo di quella diversità che la Chiesa fin da subito ha riconosciuto come ricchezza. Infatti in quanto a preparazione, a esperienza, a vissuto personale, a carattere, temperamento e scelte, Pietro e Paolo sono fondamentalmente diversi.
E quando ci si trova di fronte alla diversità la tentazione è sempre quella di voler uniformare a un unico modello, a un’unica idea, ad un’unica modalità. È la tentazione di Babele che pensa che il mondo sarà migliore solo se avrà un’unica lingua, un’unica cultura, un’unica torre. E questo a scapito della diversità e dell’unicità di ognuno. Il contrario di Babele è la Pentecoste. Infatti nell’esperienza del dono dello Spirito, tutti i popoli diversi comprendono il linguaggio degli apostoli senza rinunciare alla propria lingua natia. Ecco perché questa solennità è una festa importante per ognuno di noi, perché ci interroga su quella fraternità e comunione a cui siamo chiamati e che ci domanda di edificare la Chiesa ognuno con il proprio carisma, la propria storia, la propria diversità.
Il Vangelo ci narra le parole che Gesù pronuncia su Pietro, rendendolo la roccia su cui si fonda la Chiesa: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Ma se a Pietro sono riservate le chiavi, a Paolo potremmo dire che Cristo ha consegnato la soglia.
Chi è più missionario di Paolo? In questo modo la Chiesa appare stabile e missionaria.
Capace di raccogliere e capace di spargere. Paolo e Pietro sono le due facce della stessa medaglia, per questo non possono essere pensati mai da soli.

Cuore Immacolato di Maria

Nel saluto rivolto da Giovanni Paolo II alla Madonna di Fatima, al termine della Consacrazione del mondo al Suo Cuore Immacolato, nel marzo 1984, si legge: “Ci fidiamo di questo tuo Cuore Immacolato, cuore materno, […] perché con questo cuore tu abbracci […] tutti gli uomini”. “Tutti sappiamo cosa rappresenta in una famiglia il cuore della mamma: è l’amore! Infatti, è l’amore che porta la madre a vegliare accanto al figlio, a sacrificarsi, a darsi, a correre in difesa del figlio. Tutti i figli confidano nel cuore della madre, e tutti sanno di avere in esso un luogo di intima predilezione. Lo stesso avviene con la Vergine Maria.”
Il Cuore Immacolato di Maria è, per ciascuno di noi, questo luogo di intima predilezione: è il Cuore di una Madre. Consacrarsi a questo Cuore vuol dire, dunque, riconoscere, accettare e accogliere la maternità e l’amore di Maria nei nostri confronti, attraverso il dono di tutto noi stessi a lei, abbandonandoci radicalmente all’agire del suo Cuore materno in nostro favore. Significa offrire la nostra vita a Lei, affinché Lei stessa ci offra al Signore; rimettere la nostra vita nelle Sue mani materne, senza riserve, offrendo ciò che siamo, ciò che facciamo, tutto noi stessi a Dio, facendo passare ogni cosa attraverso il suo Cuore Immacolato.
Questa nostra Consacrazione trova fondamento nelle parole che Gesù, in Croce, rivolse a Giovanni, il discepolo amato: “figlio ecco tua madre”. Da quel momento Giovanni “prese Maria nella sua casa”, ossia l’accolse nella sua vita, nella sua esperienza spirituale, tra i suoi affetti più cari; e, in Giovanni, era rappresentato ciascuno di noi.
Nella nostra vita spirituale, accogliere Maria equivale ad averla come modello di vita.
La consacrazione al Cuore Immacolato implica, oltre l’accogliere Maria come Madre, anche il farsi guidare da Lei, per vivere in modo profondo la fede, per vivere in pienezza il nostro Battesimo e per raggiungere un’intima comunione con Suo Figlio Gesù.
Il cuore è come una “sintesi” del mondo spirituale dell’uomo e della sua disposizione nei confronti di Dio.
In tal senso, il Cuore di Maria Santissima, dopo quello di Gesù, è il modello più sublime per ogni creatura.
È modello di umiltà profonda, di carità ardente, di purezza e di innocenza, di fede autentica, fondata sulla Parola di Dio. La Madonna, come ogni madre, educa noi suoi figli e lo fa con l’esempio della sua vita, incarnazione dell’amore del Suo Cuore. In riferimento al suo Cuore, in diversi passi della Sacra scrittura si legge che “Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Il Cuore Immacolato è un cuore che sa custodire la Parola di Dio e che sa amare secondo la vocazione ricevuta. Maria medita nel suo cuore gli eventi in cui è coinvolta, insieme a Gesù, cercando di penetrare il mistero che sta vivendo: questo le fa scoprire, costantemente, la Volontà del Signore.
Con questo suo modo di essere, Maria ci insegna ad ascoltare la Parola di Dio e a nutrirci del Corpo e del Sangue di Cristo, come cibo spirituale per la nostra anima, e ci invita a ricercare il Signore nella meditazione, nella preghiera e nel silenzio, per comprendere e compiere la sua santa Volontà. Maria, infine, ci insegna a riflettere sugli avvenimenti della nostra vita quotidiana e a scoprire in essi Dio che si rivela, entrando nella nostra storia.
Il Cuore di Maria, dunque è Cuore che medita sull’agire di Dio, cuore che custodisce questo Divino Volere,
meditandolo, accogliendolo senza porre ad esso impedimenti, amandolo.
Il cuore di Maria corrisponde veramente al sogno di Dio e al dono di grazia che Dio ha voluto fare all’umanità nel suo Figlio Gesù e attraverso l’opera dello Spirito Santo. Questa capacità di amare, propria del Cuore di Maria, è all’opera fin dall’inizio; e si realizza pienamente quando la Vergine permette a Dio di penetrare nella sua vita a Nazareth e di cambiare i suoi progetti. Un cuore che ama non pensa a sé, ma si apre a Dio.
La stessa capacità di amare si manifesta nel modo in cui Ella accoglie, dà alla luce, avvolge in fasce e accompagna il suo Figlio Gesù.  Ma vediamo questo Cuore che ama, in modo santo e immacolato, anche quando si lascia educare dal suo Figlio e diventa sua discepola. Vediamo questo Cuore che si dilata, un po’ alla volta, quando interviene presso suo Figlio a Cana di Galilea, per salvare una festa di nozze.  E questo cuore si dilata ancora di più quando, sotto la croce, accoglie come proprio figlio il discepolo che Gesù amava, e in lui accoglie ognuno e ognuna di noi.
Così, attraverso l’immagine del Cuore santo e immacolato di Maria, il Signore insegna anche a noi a essere docili all’azione dello Spirito, che ci rende capaci di amare come Gesù. Ma occorre che permettiamo a Dio di dilatare il nostro cuore, attraverso le situazioni concrete che ci fa sperimentare, proprio per insegnarci ad amare. 
“Dio sceglie Maria per arrivare a noi; e sceglie ancora Maria per farci arrivare a Lui”. 
Il Cuore Immacolato, oltre ad essere il Cuore della Madre “per eccellenza”, è per ciascuno dei suoi figli modello e guida nel nostro pellegrinaggio terreno.

Sacratissimo Cuore di Gesù

La solennità del Sacro Cuore di Gesù è, rispetto a molte altre dell’anno liturgico, una festa alquanto recente. Per i suoi inizi dobbiamo risalire a santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), proclamata santa da Papa Benedetto XV il 13 maggio 1920. Durante una visione ella fu incoraggiata da Gesù a ricevere la Comunione ogni primo venerdì del mese ed è così che ebbe inizio la spiritualità del Sacro Cuore con le sue particolari devozioni. Per onorare il Cuore di Cristo e riparare alle offese da lui ricevute si cominciò pure a celebrare una particolare festa che, diffusa in modo particolare dalla Compagnia di Gesù, si diffusa grandemente al punto da convincere il beato Pio IX a proclamarla festa per tutta la Chiesa.
C’è una particolare preghiera colletta, che ce ne rammenta l’ispirazione originaria: «Padre misericordioso, che nel Cuore del tuo Figlio trafitto dai nostri peccati ci hai aperto i tesori infiniti del tuo amore, fa’ che rendendogli l’omaggio della nostra fede adempiamo anche al dovere di una degna riparazione».
Nel 1956, anno centenario dell’istituzione di questa festa, per difendere la devozione al Sacro Cuore dagli attacchi avvenuti nel tempo, il Venerabile Pio XII scrisse l’enciclica Haurietis aquas dove si legge che il Cuore sacratissimo di Gesù è «il simbolo più espressivo di quella inesausta carità, che il Divin Redentore nutre tuttora per il genere umano. Esso, infatti, benché non sia più soggetto ai turbamenti della vita presente, è sempre vivo e palpitante, e in modo indissolubile è unito alla Persona del Verbo di Dio e, in essa e per essa, alla divina sua volontà». Questa solennità ci permette, dunque, di gettare uno sguardo nel cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano.
C’è per questo un bellissimo e commovente testo di san Bernardo, che può esserci d’aiuto.
Questo il titolo di quella sua omelia: Come nelle ferite aperte di Cristo la Chiesa scopre le ricchezze della divina misericordia. A un certo momento san Bernardo dice così: «Tutto quello che mi manca io lo attingo dal costato aperto del Signore dove confluisce la misericordia; né mancano le feritoie da cui quella misericordia può uscire. Hanno ferito le sue mani e i suoi piedi, e con la lancia gli hanno aperto il costato: da lì ora io posso succhiare il miele dalla pietra, ricevere l’olio da un sasso durissimo e cioè: “vedere e gustare quanto è buono il Signore”». Poco più avanti con animo commosso aggiunge: «Il ferro della lancia lo ha trapassato e si avvicinato al suo cuore sicché ora non è più possibile che Egli non compatisca le mie infermità. Attraverso la ferita del corpo si manifesta il segreto del suo cuore; si manifesta il grande sacramento della pietà, si manifestano le viscere di misericordia del nostro Dio, nelle quali ci visita un sole che sorge dall’alto». Guardando a Cristo noi contempliamo il suo cuore che vuole tutti salvi.
Il suo è un amore non sdolcinato, ma forte e fedele, capace di amare sino a dare la vita, un amore umanissimo che ci riporta a riconsiderare i sentimenti che ci animano e ci spingono ad agire.
Non possiamo tacere il clima di violenza verbale e fisica che ferisce la convivenza e chiede urgentemente di rivedere la qualità dei nostri sentimenti e delle nostre relazioni.
In un mondo altamente tecnologizzato ci stiamo disumanizzando, e il grido di tante sorelle e fratelli che soffrono per la violenza e la guerra, per l’indifferenza, deve scuoterci e chiamarci a un cambiamento radicale; deve farci uscire dalle nostre zone di confort, dalle nostre posizioni difensive e di paura per allargare lo spazio del nostro cuore. Si, abbiamo bisogno di ritornare al cuore, di lasciarci trafiggere per imparare di nuovo il vero amore. Lo possiamo fare solo se ritorniamo al cuore di Dio, a quello del Figlio crocifisso per noi, al suo amore smisurato e sovrabbondante che solo può cambiare il nostro povero cuore che sta sperimentando il crollo della propria illusoria onnipotenza.

Tutto è presente nel frammento

Tutto è contenuto nel frammento… in ogni minima parte del pane eucaristico è presente tutto il Signore Gesù. È un principio di fede che ci aiuta a superare il discorso della quantità per valorizzare piuttosto la qualità. Non è la quantità di pane che serve per saziare ma è la qualità del cibo che ci viene dato. Così Gesù compiendo il segno del pane nel deserto vuole significare che è capace di darci da mangiare, non in senso fisico, ma in senso umano, personale, spirituale.
Solo lui può nutrire le nostre fami. Infatti non abbiamo solo fame di cibo. Noi per lo meno viviamo in un periodo e in un ambiente di benessere, per cui la fame non sappiamo che cosa sia.
La fame di cibo ce la togliamo facilmente mangiando di tutto, abbiamo la possibilità di comprare tutto quello che ci piace, eppure abbiamo un altro tipo di fame. Non siamo contenti e soddisfatti, anche se mangiamo tanto cibo buono. Una volta che abbiamo la pancia piena ci manca ancora qualcosa, ci accorgiamo che non è sufficiente avere la pancia piena. È un istinto primario mangiare, ma una volta che abbiamo mangiato non siamo realizzati, abbiamo fame ancora, fame di amore, di amicizia e di affetto, fame di giustizia, fame di verità, fame di pace. E la fame che sentiamo per il cibo diventa un’immagine per indicare il nostro desiderio, desiderio di cose buone, di realtà che veramente realizzino la vita. Gesù parte da cinque pani – poca cosa – e con quei pochi panini nutre cinquemila persone. Non ha trasformato le pietre in pane, questo gli aveva proposto il diavolo, ma è partito dai cinque pani che qualcuno mette a disposizione. Potremmo parlare del miracolo della condivisione, perché quei pani condivisi bastano per tutti. Allora il segno che Gesù ci offre è proprio quello della divisione, della condivisione fra di noi, dei beni che abbiamo. Sempre, subito, pensiamo alle cose materiali, pensiamo ad esempio alla condivisione dei soldi. Ma ci sono molti altri beni che abbiamo e che non condividiamo: il tempo, l’intelligenza, le capacità, il desiderio di affetto … sono beni che abbiamo e ognuno di noi ne è carico. Troppi tengono tutto per sé e non condividono e il mondo muore di fame, non per mancanza di cibo, ma per mancanza di amore, per mancanza di servizio, per mancanza di affetto, per mancanza di impegno sociale … manca la condivisione. Il poco che c’è può diventare tanto se c’è la qualità del cuore e Gesù ci insegna che l’Eucaristia è proprio questa qualità della vita donata.
Ogni volta che partecipiamo alla Messa e riceviamo l’Eucaristia noi facciamo memoria del Signore che ha donato se stesso e ci insegna la logica del regalo, della generosità. Non bada al poco, ma chiede che quel
poco che c’è sia usato, sia condiviso e distribuito.
Nel miracolo che Gesù compie nel deserto anticipa il dono dell’Eucaristia e l’evangelista racconta il gesto compiuto da Gesù usando gli stessi verbi della istituzione eucaristica: prese i pani, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò quei pani e li distribuì a tutta la folla. Recitò la benedizione, spezzò quei pani e li distribuì a tutta la folla. Sono gli stessi verbi che utilizziamo nel racconto della cena. Quel poco che c’è diventa molto attraverso le mani di Gesù, attraverso il suo cuore generoso. Tutto è presente nel frammento. La nostra generosità è frammentaria, è poca cosa, è una piccolezza, ma quel poco può diventare tanto, dipende dalla qualità con cui noi mettiamo a disposizione degli altri il poco che abbiamo. È un segno ciò che appare: quel poco pane che riceviamo nelle mani è semplicemente una immagine, è solo un segno, ma nasconde realtà sublimi. Anche se noi spezziamo quel pane, Cristo rimane intero in ciascuna parte. Chi lo mangia non lo spezza, non lo separa, non lo divide, lo riceve intatto e interamente. Se spezzo un’ostia in due o in tre parti, ne ricevi meno eppure ricevi tutto Cristo.
Quando spezzi il sacramento non temere, ma ricorda: Cristo è tanto in ogni parte quanto nell’intero.
Vuol dire che in ogni piccola parte della nostra generosità è presente tutto il Cristo.
In ogni piccola azione buona che possiamo fare, in ogni minuto di tempo che doniamo, c’è tutta la potenza di Cristo. Noi ci mettiamo quel poco e Cristo lo rende tanto, lo rende sufficiente per tutti, può saziare la fame del mondo, ma partendo dai nostri cinque poveri, miseri panini. È diviso solo il segno, non si tocca la sostanza, nulla è diminuito della sua persona. Nemmeno il numero dei partecipanti lo spaventa: siano uno, siano mille, ugualmente lo ricevono: mai è consumato. Allora ricordiamoci questo principio eucaristico: tutto il Cristo è presente nel nostro frammento. In ogni frammento della nostra vita è presente il Cristo, che può trasformare la nostra generosità in pane per nutrire l’umanità intera. È questo il segno eucaristico e noi facciamo memoria vivente di questo prodigio che il Signore continua a compiere attraverso di noi: il poco diventa tanto, grazie a Lui, e tutto è presente nel frammento.

Spezziamo il pane

Domenica 22 giugno, solennità del Corpus Domini, torna l’iniziativa Spezziamo il Pane (giunto alla sua 23° edizione). La solennità del Corpus Domini, che celebra la presenza di Cristo nell’Eucaristia, è profondamente legata alla carità. L’Eucaristia, dono supremo dell’amore di Gesù, invita noi tutti a imitare questo amore attraverso gesti concreti di condivisione e unità. Durante l’Ultima Cena, Cristo unì l’istituzione del sacramento al comandamento di amarsi reciprocamente, facendo dell’Eucaristia un richiamo a vivere la comunione fraterna. Nella Diocesi di Lodi questa festa si è sempre accompagnata ad un’opera di carità promossa da Caritas: mentre il pane di vita nutre i cristiani per diventare a loro volta pane spezzato per gli altri, traducendo l’adorazione in carità attiva. Quest’anno l’opera che viene sostenuta è Casa David: casa di accoglienza per mamme e bambini in difficoltà all’interno del progetto Oasi, a Fontana (Lodi).
Nello specifico: le donazioni raccolte durante le celebrazioni del Corpus Domini  servono per l’allestimento della cucina della casa. Per la nostra parrocchia è possibile prendere il sacchettino di pane al termine delle due messe della domenica lasciando la propria offerta secondo la finalità sopra specificata.

Portiamo insieme nel mondo Gesù Vivo

Nella solennità del Corpus Domini e nelle Giornate Eucaristiche vivremo come fratelli e sorelle, comunità cristiana di san Fiorano, il nostro CENACOLO: è l’esperienza di una comunione straordinaria, indissolubile, di Cristo con noi e, per mezzo suo, anche tra di noi. Quell’ultima cena pasquale terrena che Gesù visse con i suoi, di cui la S. Messa è memoriale (= attualizzazione sacramentale!), è carica di significati per noi oggi e per tutti gli uomini di tutti i tempi: è gesto profetico in cui dà se stesso nel segno del pane e del vino per sempre; è consegna del suo servizio sacerdotale nel “..fate questo in memoria di me…”; è invito perenne a vivere la vita tra noi come servizio nella carità; e tutto questo sempre in un mistero di unità profonda che non è scalfita nemmeno dal tradimento di uno dei suoi.
Celebrando il Corpus Domini rivivremo tutto questo in modo speciale: ascolteremo la sua Parola che ci rassicura nel cammino dell’Amore; faremo memoria viva del pane e del vino consacrati per nutrirci del Suo Corpo e del Suo Sangue in cui diventiamo una cosa sola, al di là dei nostri peccati, dei nostri sforzi e dei nostri pur lodevoli desideri; compiremo il gesto della processione Eucaristica, per essere obbedenti al mandato di Gesù di andare nel mondo a testimoniare il Suo Amore, che è il Suo Vangelo!
Ecco la ricchezza di questa celebrazione che in spirito di vera fraternità vi invito a vivere tutti insieme.

Quarantore: solenne adorazione

COSA SONO LE GIORNATE EUCARISTICHE?
Le Giornate eucaristiche (Quarantore) sono giorni particolari della vita della Chiesa durante i quali nella parrocchia viene data la possibilità di sostare presso Gesù eucaristico.
Le Quarantore, restano attuali perché ci aiutano a rinverdire la nostra fede nella presenza reale di Gesù nel SS.mo Sacramento: “l’atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto s’è fatto nella liturgia stessa, infatti soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e vera.
E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura anche la missione sociale che nell’Eucarestia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri.” (cfr. Sacramentum caritatis n. 66)


PERCHÉ SI CHIAMANO ANCHE QUARANTORE?

Le Giornate Eucaristiche, sono chiamate così in onore e ricordo del tempo sofferto da Gesù durante le Sua Passione, esattamente dalla sera del Giovedì Santo al mezzogiorno del Sabato Santo nel triste pensiero del sepolcro, nel quale Gesù, secondo il computo fatto da S. Agostino, rimase quaranta ore.

LE GIORNATE EUCARISTICHE OGGI

Le giornate eucaristiche sono un appuntamento fondamentale nella vita di un cristiano. Sono l’occasione di sostare un po’ di tempo in preghiera davanti a Gesù Eucaristia esposto sull’altare, l’occasione di una preghiera viso a viso, cuore a cuore. A tutti viene chiesta la fatica della preghiera. Fatica nello spegnere la tv, il computer e il cellulare per dedicarsi al Signore. Fatica nell’uscire di casa.
Fatica nel restare in preghiera. Solo così riusciremo ad assaporare la gioia dell’incontro con il Signore, il solo capace di convertire i cuori.
Cosa di cui abbiamo sempre bisogno.

Dio è una comunità che vive in armonia e concordia

Gesù ci ha rivelato Dio come armonia e concordia. Il Dio che ha fatto conoscere Gesù è una comunità di persone che si amano in armonia e concordia. Questa comunità divina è all’origine di tutto il creato, della nostra umanità, della storia di ciascuno di noi. La nostra origine è la Trinità divina, una comunità di persone che vivono in armonia e concordia, per questo sentiamo dentro di noi il desiderio e la nostalgia di questa concordia profonda. Siamo stati creati a immagine della Trinità, dove ogni cosa è in comune. Gesù lo ha detto ai suoi discepoli: «Tutto quello che il Padre possiede è mio, e tutto quello che mio lo Spirito Santo lo darà a voi». Sappiamo bene nella nostra esperienza umana come le relazioni siano anche segnate dal possesso. Proprio parafrasando queste parole di Gesù si adopera talvolta un modo di dire con cui si afferma: “Quello che mio e mio, quello che è tuo è mio”; perché c’è dentro di noi il desiderio di prendere anche quello dell’altro e di tenere ben stretto quello che è nostro. Questo è il peccato: tenere per sé e voler prendere quello dell’altro. Questo è ciò che rovina – nel piccolo e nel grande – la nostra vita. È all’origine delle liti e delle guerre, delle inimicizie e delle contese. È il peccato che rompe l’armonia e la concordia. Questo nella Trinità non c’è … ce lo abbiamo aggiunto noi. Per quello che viene da Dio il mondo è bello, armonico e concorde, per quello che abbiamo aggiunto noi le cose sono storte e rovinate.
Ciò che va male nel mondo è responsabilità nostra, perché ci siamo allontanati da quello stile divino che ha creato il mondo. Allora ricuperiamo sempre – nella fede e nella lode – quella origine armonica e concorde da cui deriviamo e a cui tendiamo. Mettere in comune la nostra vita è uno stile divino, fare di sé un dono e comunicare ad altri quello che abbiamo: non tenere come mio ciò che mi appartiene ma condividerlo. Non è una questione solo economica, è soprattutto una questione di relazione, di amicizia, di condivisione dei sentimenti, della stima, del tempo, dell’impegno, dell’affetto. Mettere in comune, collaborare, creare belle relazione è lo stile cristiano!
Purtroppo ci accorgiamo che non sempre è così, ma quando non è così è perché sbagliamo, perché roviniamo l’opera della Trinità. Quando siamo a immagine della concordia divina siamo persone capaci di belle relazioni. Non c’è bisogno di spiegare che cosa siano le belle relazioni, lo sappiamo per esperienza: ce ne sono alcune molto belle e ce ne sono altre brutte. Anche nel gruppo di amici ci sono dei momenti belli di persone che si vogliono bene, affiatati fra di loro, e ci sono anche nei nostri gruppi di amici tensioni, invidie, gelosie, ripicche, maldicenze. Quando c’è questo, ci accorgiamo che non si vive bene. Gesù ci ha rivelato un Dio che è armonia e concordia … se accogliamo Lui diventiamo così, non esseri isolati, ma persone in relazione, persone che sanno costruire belle relazioni di armonia e di concordia. Dove c’è questa bellezza delle relazioni buone c’è Dio, c’è la rivelazione della Trinità e il Signore desidera fare di tutti i nostri ambienti esperienza di questa armonia e concordia divina. Lodiamo il Signore perché è così e gli diciamo tutto il nostro desiderio di essere così anche noi, gli diciamo il desiderio che la nostra vita sia fatta a immagine della Trinità e le nostre relazioni siano segnate dall’armonia e dalla concordia.

Iniziato il Grest 2025

Non si poteva pensare al Grest senza tenere presente l’evento del Giubileo, un momento così importante per la Chiesa. Forse dobbiamo ammettere che non si è stati proprio originali. Qualcuno potrebbe dire che si poteva certamente, ma in realtà non si è voluto farlo! Non si voleva perdere l’occasione di un tema religiosamente connotato per metterlo al centro di una rilettura esistenziale che possa provocare la vita e la fede di tutti, dandole senso nuovo.

E allora l’immagine principale che si desidera consegnare è quella di una porta a cui bussare perché l’esperienza di bene si apra di fronte a noi. E all’apertura di questa porta ci possa raggiungere un annuncio: Io sono con voi tutti i giorni, io ci sono, incontrando la straordinarietà di un Dio che non ci abbandona. E questo sì che può davvero cambiare l’ordinario, perché sappiamo di non essere mai soli. Il Giubileo mostra il volto di Dio misericordioso e fedele, che ci ama a tal punto da rimanere e camminare con noi. È Lui il primo pellegrino di speranza. Sceglie di camminare da uomo, con il suo popolo per infondere la speranza, per essere la Speranza. E allora anche noi siamo invitati da pellegrini di speranza a bussare alla porta per trovarLo con noi tutti i giorni. Per incontrare i fratelli e vivere con loro esperienze che abbiano il sapore dell’inedito e il profumo di un cammino più umano da percorrere insieme per cui vogliamo spenderci “Adesso, non domani”: in questo adesso del Giubileo. Non domani, perché bisogna lavorare per i bambini e per il futuro, e l’essere umano d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi “adesso” traditi. Bussiamo, entriamo nell’esperienza con la certezza di non essere soli. Certezza che diventa la nostra speranza più vera! E già questo ci sembra il primo messaggio profetico e rivoluzionario di questa estate: in questo tempo di solitudine dilagante, di individualismi difesi con le unghie e con i denti, noi possiamo e vogliamo, con fede e coraggio, annunciare la forza del “noi”, chiamati per ciò che siamo, radunati da fratelli in comunità, liberati da un amore la cui unica misura è il tutto. Concediamoci una piccola precisazione, non stiamo dicendo che il Grest diventa il Giubileo dei bambini e dei preadolescenti, degli animatori e dei coordinatori o di chiunque altro condivida questa esperienza. Stiamo accogliendo la sfida di raccogliere le dimensioni serie ed importanti per la vita che caratterizzano ogni anno giubilare che la Chiesa celebra ogni 25 anni e che poggiano sulle domande serie ed importanti che,
durante l’esilio in Babilonia, agitano la coscienza di Israele attorno alla comprensione di chi sono e di chi è il Signore: come mai tutto questo male? Cosa rimane in mezzo a tutto questo dolore?
Per chi e di chi è Dio? Forse questo tempo che viviamo non è molto diverso da quello che agitava il cuore degli uomini e delle donne di altre storie, epoche e tradizioni. Sicuramente però l’impresa coraggiosa è quella di accogliere la realtà e le sue contraddizioni per farne occasione di nuova narrazione da scrivere insieme, scombinando i piani di questa storia e praticando concretamente il bene possibile senza un copione chiaro se non agire per dare vita, per far vedere qualcosa e Qualcuno che affascina di più!

Pentecoste (2)

«Gesù consegnò lo Spirito» … L’evangelista Giovanni, presente e testimone ai piedi della croce, racconta che Gesù consegnò all’umanità lo Spirito di Dio: è quello che noi intendiamo come morì, nel senso che ha dato la vita, non perché l’ha persa, ma perché l’ha comunicata: ha dato la vita a noi e la vita di Dio è lo Spirito Santo. Gesù consegnò lo Spirito e dal suo costato aperto sgorgò sangue e acqua. Il sangue richiama simbolicamente la sua vita e l’acqua unita al sangue è il segno dello Spirito. La vita di Gesù è lo Spirito Santo, è la vita stessa di Dio, è l’Amore in persona che è stato dato, consegnato a noi. «Se qualcuno ha sete venga e beva chi crede in me». Credere significa avere sete, desiderare; credere non è mai un atteggiamento statico e passivo, è il desiderio che anima una vita e mette in movimento, è il desiderio che tende alla pienezza dell’incontro. Noi che crediamo in Gesù abbiamo sete della sua vita, del suo amore; abbiamo sete di questo Spirito che è acqua che dissenta e contemporaneamente è fuoco che riscalda e illumina. Il compimento della Pasqua di Cristo sta nel dono dello Spirito Santo che viene in aiuto alla nostra debolezza perché da soli non sapremmo nemmeno pregare, da soli ripetiamo le nostre idee, parliamo con noi stessi, ci sfoghiamo soltanto … ma la vera preghiera è l’ascolto dello Spirito.
L’esperienza dello Spirito non toglie il male dal mando, ma ci rende capaci di affrontarlo, di combatterlo, di rifiutarlo e di superarlo. Lo Spirito non è astrazione, non è fantasia che va fuori dal mondo; lo Spirito è potenza di Dio dentro il mondo, è la potenza dell’amore che cambia la morte e il male in energia di vita.
Lo Spirito è concretezza, è la dinamica che regge il mondo, è la potenza dell’amore che fa fare cose straordinarie e impossibili … altro che astrattezza! Lo Spirito è il massimo della concretezza, è la consistenza dell’amore, del bene vissuto, della vita donata. Come Comunità Parrocchiale in questa festa di Pentecoste possiamo ritrovarci nello Spirito e bere quell’acqua che disseta e, continuamente, come la sposa del Cristo gridare insieme allo Spirito: “Vieni Signore Gesù, dà senso alla nostra vita, insegnaci a vivere secondo il tuo cuore. Aiutaci, vieni in aiuto alla nostra debolezza, insegnaci a pregare”. Accende lumen sensibus è la formula che l’antico poeta teologo ci ha insegnato ad usare invocando lo Spirito Santo: “Accendi la luce per i sensi”. I nostri sensi, i cinque sensi, percepiscono ma non perfettamente: gli occhi, anche se sani, al buio non vedono niente, se non ci fosse l’aria le orecchie non sentirebbero nulla. L’esperienza spirituale ha bisogno di un lume che è lo Spirito stesso … se non lo accende Lui, i nostri sensi percepiscono male, non vedono, non sentono, non toccano. Non sentiamo il divino, perché ci manca quel
lume dello Spirito. Allora facciamo nostra l’antica preghiera: “Accendi la luce per i nostri sensi, illumina tutte le nostre sensazioni, perché possiamo pensare, volere e sentire come te. Spirito di Dio creatore, vieni ad aiutare la nostra debolezza e accendi una luce per i nostri sensi, perché possiamo comprendere il senso della nostra storia, perché possiamo desiderare il compimento del tuo progetto e avere la tua vita in abbondanza”.