Santi Marta, Maria e Lazzaro

Il 26 gennaio 2021, Papa Francesco ordinò l’iscrizione dei Santi Marta, Maria e Lazzaro nel Calendario Romano Generale, in sostituzione della celebrazione della sola Santa Marta. Il 29 Luglio è la memoria di questa famiglia, tutti e tre molto amici di Gesù. Nel decreto del 2021 sull’unione della venerazione di Maria e Lazzaro con quella di Marta, la Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti ha affermato: “Nella casa di Betania, il Signore Gesù sperimentò lo spirito familiare e l’amicizia di Marta, Maria e Lazzaro, e per questo il Vangelo di Giovanni afferma che li amò. Marta gli offrì generosamente ospitalità, Maria ascoltò con attenzione le sue parole e Lazzaro uscì prontamente dal sepolcro al comando di colui che umiliava la morte”.

Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù. Il suo nome è: ospite, amico e fratello, insieme a quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami, il nome di ognuno.
A causa di Lazzaro sono giunte a noi due tra le parole più importanti del Vangelo: io sono la risurrezione e la vita. Non già: io sarò, in un lontano ultimo giorno, in un’altra vita, ma qui, adesso, io sono.
Notiamo la disposizione delle parole: prima viene la risurrezione e poi la vita.
Secondo logica dovrebbe essere il contrario. Invece no: io sono risurrezione delle vite spente, sono il risvegliarsi dell’umano, il rialzarsi della vita che si è arresa.
Vivere è l’infinita pazienza di risorgere, di uscire fuori dalle nostre grotte buie, lasciare che siano sciolte le chiusure e le serrature che ci bloccano, tolte le bende dagli occhi e da vecchie ferite, e partire di nuovo nel sole: scioglietelo e lasciatelo andare.
Verso cose che meritano di non morire, verso la Galilea del primo incontro.
Io invidio Lazzaro, e non perché ritorna in vita, ma perché è circondato di gente che gli vuol bene fino alle lacrime. Perché la sua risurrezione? Per le lacrime di Gesù, per il suo amore fino al pianto.
Anch’io risorgerò perché il mio nome è lo stesso: amato per sempre; perché il Signore non accetta di essere derubato dei suoi amati. Non la vita vince la morte, ma l’amore. Se Dio è amore, dire Dio e dire risurrezione sono la stessa cosa… Quante volte sono morto, mi ero arreso, era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né vita. E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so perché; una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole, un amico ha spezzato il silenzio, lacrime hanno bagnato le mie bende, e ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: un Dio innamorato dei suoi amici, che non lascerà in mano alla morte.

Marta e Maria sono, nei Vangeli, l’immagine e il simbolo di come deve essere il discepolo che alterna la meditazione e la preghiera all’operosità e al lavoro. Una scorretta interpretazione dei Vangeli ha, nel passato, contrapposto le due sorelle che, invece sono i due binari su cui corre il treno della fede.
Non esiste una meditazione che non sfoci nell’azione. È sterile un servizio che non attinga forza dalla preghiera. In Marta celebriamo l’attivismo, attenta ai bisogni dell’ospite, concreta nel preparargli una cena sicuramente gradita. Il benevolo rimprovero di Gesù non è certo indirizzato alla sua azione, il Maestro avrà molto apprezzato la cena!, ma alla preoccupazione, all’agitazione che hanno caratterizzato la buona iniziativa di Marta.
Siamo chiamati ad agire, certo, e a rendere concreta la nostra fede ma con uno sguardo continuamente rivolto al Signore: è lui l’origine del nostro servizio, lui la motivazione, lui il premio.
Chiediamo a Santa Marta di essere sempre molto concreti nel declinare la nostra fede in gesti quotidiani pieni di speranza.

17 domenica del Tempo Ordinario

«Cercate e troverete». Ha il tono del proverbio l’insegnamento di Gesù ed è diventato una espressione comune nel nostro parlare: “Chi cerca trova”. Ma che cosa cerca? Che cosa ci invita a cercare? Nella sua catechesi sulla preghiera Gesù insiste nel rivelare che Dio è padre e il nostro atteggiamento nei suoi confronti è quello di figli che si fidano. Dio è amico dell’uomo e noi rispondiamo con un atteggiamento di amicizia. Allora la preghiera diventa una relazione di bontà come fra amici autentici, come fra padre e figlio … per cui, che cosa dobbiamo cercare, che cosa dobbiamo chiedere? Non quello che vogliamo … sarebbe l’atteggiamento del figlio capriccioso che pesta i piedi e si mette a piangere se non ottiene quello che vuole; e se non riceve quello che vuole, dice al papà o alla mamma: “Sei cattivo”, perché non concedi quello che chiedo. Molte volte le persone si rapportano a Dio come figli capricciosi che hanno in testa le loro idee e usano Dio per ottenere quello che vogliono; e se non lo concede, pestano i piedi e fanno i capricci.
In un Salmo c’è questa espressione: «Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto». Eppure è possibile che qualcuno dica: “Nel giorno in cui ho chiesto al Signore, non mi ha ascoltato”. È purtroppo frequente ascoltare questo rimprovero che qualcuno muove al Signore: “Gli ho chiesto e non mi ha dato, per cui mi sono offeso”. Questo atteggiamento è proprio quello del figlio capriccioso che capisce poco e non si fida. Gesù non ci dice di chiedere quel che vogliamo, non si presenta come il nostro servitore o, addirittura, nella nostra fantasia come il genio della lampada: “Sono al tuo servizio! Comanda quello che vuoi e io realizzo tutti i tuoi desideri”. Queste sono favole. Il Signore non ci dice questo, si presenta come un padre veramente buono che sa dare ciò che è buono. Perciò: cercate una buona relazione con Lui, chiedete lo Spirito Santo, chiedete la grazia di Dio, chiedete la forza, la sapienza, la capacità di comprendere, l’energia per affrontare una difficoltà. Chiedete al Signore che venga il suo regno, chiedete al Signore che sia fatta la sua volontà, chiedete al Signore di esser capaci di fare quello che Lui vuole. Dobbiamo stare attenti anche nella educazione dei bambini per trasmettere una idea corretta della preghiera, perché è possibile che il bambino si rivolga per esempio ad un animatore, a un catechista, a un prete, a una suora dicendo: “Mio nonno è malato”; e l’educatore, convinto di fare bene, gli dice: Prega, così tuo nonno guarisce”. Dopo qualche tempo il bambino gli confida addolorato: “Io ho pregato, ma mio nonno è morto!”. E allora che gli dici? Il tuo insegnamento era sbagliato, perché hai detto al bambino: “Prega, così la persona malata guarisce”. Allora cosa dovremmo rispondere, cosa dovremmo dire a un bambino che vive anche una sofferenza in famiglia? Non offrire la preghiera come la bacchetta magica che risolve i problemi – “prega che così avviene quello che ti fa piacere.” – ma insegnargli a confidare nel Signore: “Prega perché tuo nonno viva bene la sua malattia, chiedi al Signore che gli dia forza per affrontare la difficoltà, stagli vicino, fagli compagnia. E se la malattia è passeggera, guarirà e ci saranno altre occasioni per stare insieme al nonno, ma se invece è questa la sua via, tu chiedi di poter fare bene la volontà del Signore e di accompagnare anche la malattia verso il suo decorso che può arrivare alla morte. Lo sappiamo bene che non basta insistere, battere i piedi per ottenere quello che vogliamo: non è infatti questo l’atteggiamento cristiano. Siamo figli e amici e ci fidiamo di colui che è veramente buono.
Anche nelle situazioni più difficili ci mettiamo nelle sue mani e gli chiediamo di fare noi quello che vuole Lui!
Chiediamo lo Spirito Santo che è la sua sapienza, la sua forza, perché abbiamo la capacità di affrontare bene quello che deve capitare. Se chiedete la forza per vivere bene una situazione difficile, certamente l’avrete, come dice il Salmo: «Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto; hai accresciuto in me la forza». Se vi fidate del Signore nella difficoltà, lasciando che Lui vi sorregga, certamente vi aprirà la porta e vi accompagnerà anche nella situazione difficile, anche affrontando la sofferenza, la malattia e la morte. Non risolve magicamente i problemi, ma ci dà la capacità di attraversarli, di sopportarli e di vincerli. Ci fidiamo di questo Dio che è Padre ed è veramente amico nostro.
Ci fidiamo della rivelazione di Gesù Cristo e ci mettiamo nelle sue mani, come figli obbedienti che si fidano di Lui.

Santi Gioacchino ed Anna

Paradossalmente delle due figure così importanti nella storia della salvezza non vi è alcuna traccia nei Vangeli canonici. Di loro viene trattato ampiamente nel Protovangelo di S. Giacomo, un vangelo apocrifo del II secolo. Le elaborazioni posteriori di tale documento aggiunsero via via altri particolari, che soltanto
la devozione andava dettando. Anna era una israelita della tribù di Giuda, figlia del sacerdote betlemita Mathan, con discendenza quindi dalla stirpe davidica. Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”. Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, per il fatto di essere sterili. L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni. Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio. Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”. Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: «Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia “prediletta del Signore”».

San Giacomo, l’Apostolo che fa camminare il mondo

È detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo. Lui e suo fratello Giovanni sono figli di Zebedeo, pescatore in Betsaida, sul lago di Tiberiade. Chiamati da Gesù (che ha già con sé i fratelli Simone e Andrea) anch’essi lo seguono. Nasce poi il collegio apostolico.
Con Pietro saranno testimoni della Trasfigurazione, della risurrezione della figlia di Giairo e della notte al Getsemani. Conosciamo anche la loro madre Salome, tra le cui virtù non sovrabbonda il tatto.
Chiede infatti a Gesù posti speciali nel suo regno per i figli, che si dicono pronti a bere il calice che egli berrà. Così, ecco l’incidente: “Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono”. E Gesù spiega che il Figlio dell’uomo “è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.
E Giacomo berrà quel calice: è il primo apostolo martire, nella primavera dell’anno 42. “Il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”. Questo Erode è Agrippa I, a cui suo nonno Erode il Grande ha fatto uccidere il padre (e anche la nonna).
A Roma è poi compagno di baldorie del giovane Caligola, che nel 37 sale al trono e lo manda in Palestina come re. Un re detestato, perché straniero e corrotto, che cerca popolarità colpendo i cristiani.
L’ultima notizia del Nuovo Testamento su Giacomo il Maggiore è appunto questa sul suo martirio.
Dopo la decapitazione, secondo la Legenda Aurea, i suoi discepoli trafugarono il suo corpo e riuscirono a portarlo sulle coste della Galizia. Il sepolcro contenente le sue spoglie sarebbe stato scoperto nell’anno 830 dall’anacoreta Pelagio in seguito ad una visione luminosa. Il vescovo Teodomiro, avvisato di tale prodigio, giunse sul posto e scoprì i resti dell’Apostolo.
Dopo questo evento miracoloso il luogo venne denominato campus stellae (“campo della stella”) dal quale deriva l’attuale nome di Santiago de Compostela, il capoluogo della Galizia.
La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi nel Medioevo, tanto che il luogo prese il nome di Santiago e nel 1075 fu iniziata la costruzione della grandiosa basilica a lui dedicata, meta ogni anno di milioni di pellegrini provenienti da ogni parte d’Europa e del mondo.

V Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani

È stato pubblicato il primo Messaggio di Papa Leone XIV in occasione della Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani, la cui quinta edizione si celebrerà domenica 27 luglio 2025. Il tema del Messaggio è “Beato chi non ha perduto la sua speranza (Sir 14,2)” e si inserisce nel contesto del Giubileo della Speranza 2025. Nel Messaggio, il Santo Padre invita a riconoscere gli anziani non solo come destinatari di attenzione pastorale, ma come testimoni di speranza che, in maniera attiva, sono protagonisti della vita ecclesiale. Ecco parte del Messaggio:

Il Giubileo che stiamo vivendo ci aiuta a scoprire che la speranza è fonte di gioia sempre, ad ogni età.
Quando, poi, essa è temprata dal fuoco di una lunga esistenza, diventa fonte di una beatitudine piena.
La Sacra Scrittura presenta diversi casi di uomini e donne già avanti negli anni, che il Signore coinvolge nei suoi disegni di salvezza. Pensiamo ad Abramo e Sara: ormai anziani, restano increduli davanti alla parola di Dio, che promette loro un figlio. L’impossibilità di generare sembrava aver chiuso il loro sguardo di speranza sul futuro. Non diversa è la reazione di Zaccaria all’annuncio della nascita di Giovanni il Battista: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». Vecchiaia, sterilità, declino sembrano spegnere le speranze di vita e di fecondità di tutti questi uomini e donne.
E anche la domanda che Nicodemo pone a Gesù, quando il Maestro gli parla di una “nuova nascita”, sembra puramente retorica: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Eppure ogni volta, davanti a una risposta apparentemente scontata, il Signore sorprende i suoi interlocutori con un intervento di salvezza.
Nella Bibbia, Dio più volte mostra la sua provvidenza rivolgendosi a persone avanti negli anni. Così avviene, oltre che per Abramo, Sara, Zaccaria ed Elisabetta, pure per Mosè, chiamato a liberare il suo popolo quando aveva ben ottant’anni. Con queste scelte, ci insegna che ai suoi occhi la vecchiaia è un tempo di benedizione e di grazia e che gli anziani, per Lui, sono i primi testimoni di speranza. «Cos’è mai questo tempo della vecchiaia? – si domanda al riguardo Sant’Agostino – Ti risponde qui Dio: “Oh, venga meno per davvero la tua forza, affinché in te resti la forza mia e tu possa dire con l’Apostolo: Quando sono debole, allora sono forte”». Il fatto che il numero di quelli che sono avanti negli anni sia oggi in aumento diventa allora per noi un segno dei tempi che siamo chiamati a discernere, per leggere bene la storia che viviamo.
La vita della Chiesa e del mondo, infatti, si comprende solo nel susseguirsi delle generazioni, e abbracciare un anziano ci aiuta a capire che la storia non si esaurisce nel presente, né si consuma tra incontri veloci e relazioni frammentarie, ma si snoda verso il futuro. Nel libro della Genesi troviamo il commovente episodio della benedizione data da Giacobbe, ormai vecchio, ai suoi nipoti, i figli di Giuseppe: le sue parole li spronano a guardare con speranza al futuro, come al tempo delle promesse di Dio. Se dunque è vero che la fragilità degli anziani necessita del vigore dei giovani, è altrettanto vero che l’inesperienza dei giovani ha bisogno della testimonianza degli anziani per progettare con saggezza l’avvenire. Quanto spesso i nostri nonni sono stati per noi esempio di fede e di devozione, di virtù civiche e impegno sociale, di memoria e di perseveranza nelle prove! Questa bella eredità, che ci hanno consegnato con speranza e amore, non sarà mai abbastanza, per noi, motivo di gratitudine e di coerenza. Guardando alle persone anziane nella prospettiva giubilare, anche noi siamo chiamati a vivere con loro una liberazione, soprattutto dalla solitudine e dall’abbandono. Questo anno è il momento propizio per realizzarla: la fedeltà di Dio alle sue promesse ci insegna che c’è una beatitudine nella vecchiaia, una gioia autenticamente evangelica, che ci chiede di abbattere i muri dell’indifferenza, nella quale gli anziani sono spesso rinchiusi. Le nostre società, ad ogni latitudine, si stanno abituando troppo spesso a lasciare che una parte così importante e ricca della loro compagine venga tenuta ai margini e dimenticata. Soprattutto da anziani, perseveriamo fiduciosi nel Signore.
Lasciamoci rinnovare ogni giorno dall’incontro con Lui, nella preghiera e nella santa Messa.
Trasmettiamo con amore la fede che abbiamo vissuto per tanti anni, in famiglia e negli incontri quotidiani: lodiamo sempre Dio per la sua benevolenza, coltiviamo l’unità con i nostri cari, allarghiamo il nostro cuore a chi è più lontano e, in particolare, a chi vive nel bisogno. Saremo segni di speranza, ad ogni età.

Santa Brigida, vero modello di donna, sposa e madre

Santa Brigida è patrona d’Europa e, in una speciale comunione di santi, condivide il compito insieme a san Benedetto da Norcia, santa Caterina da Siena, i santi Cirillo e Metodio e Santa Teresa Benedetta della Croce. Il 23 luglio, è la sua festa. Fondatrice dell’Ordine del Santissimo Salvatore, patrona di Svezia e mamma di santa Caterina di Svezia. Fu papa san Giovanni Paolo II a concederle il titolo di compatrona del nostro continente nell’imminenza del grande giubileo, con un Motu proprio, il 1°ottobre del 1999. Il pontefice che vide con sguardo profetico perché illuminato dalla fede i mali che serpeggiavano nella terra che aveva diffuso nel mondo il bene più grande che l’umanità possa ricevere, Gesù Cristo e che ora lo stava rifiutando e respingendo da ogni ambito della vita, scegliendo, non sempre consapevolmente, una drammatica “apostasia silenziosa”.
Questa santa, mistica e fondatrice, è un robusto e luminoso esempio di vita cristiana nella piena obbedienza alla Chiesa e un modello di ispirazione per la donna, nella sua piena dignità, non subalterna all’uomo ma ordinata secondo i carismi che appartengono, in modo specifico e per il bene di tutti, all’uomo e alla donna.  La vita di Santa Brigida mostra il ruolo e la dignità della donna all’interno della Chiesa, evidenziata nel suo atteggiamento di rispetto e di piena fedeltà al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell’apostolo Pietro. In effetti, nella grande tradizione cristiana si riconosce alla donna una dignità propria, e – seguendo l’esempio di Maria, Regina degli Apostoli – un posto proprio nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della comunità.

Madonna del Carmelo

La devozione spontanea alla Vergine Maria, sempre diffusa nella cristianità sin dai primi tempi apostolici, è stata man mano nei secoli, diciamo ufficializzata sotto tantissimi titoli, legati alle sue virtù (vedasi le Litanie Lauretane), ai luoghi dove sono sorti Santuari e chiese che ormai sono innumerevoli, alle apparizioni della stessa Vergine in vari luoghi lungo i secoli, al culto instaurato e diffuso da Ordini Religiosi e Confraternite, fino ad arrivare ai dogmi promulgati dalla Chiesa. Maria racchiude in sé tante di quelle virtù e titoli, nei secoli approfonditi nelle Chiese di Oriente ed Occidente con Concili famosi e studi specifici e che oltre i grandi cantori di Maria nell’ambito della Chiesa, ha ispirato elevata poesia anche nei laici.
Ma il culto mariano affonda le sue radici, nei secoli precedenti la sua stessa nascita; perché il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.) dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando una provvidenziale pioggia, salvando così Israele da una devastante siccità. In quella nube piccola “come una mano d’uomo” tutti i mistici cristiani e gli esegeti, hanno sempre visto una profetica immagine della Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo. La Tradizione racconta che già prima del Cristianesimo, sul Monte Carmelo (Karmel = giardino-paradiso di Dio) si ritiravano degli eremiti, vicino alla fontana del profeta Elia, poi gli eremiti proseguirono ad abitarvi anche dopo l’avvento del cristianesimo e verso il 93 un gruppo di essi che si chiamarono poi ”Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”, costruirono una cappella dedicata alla Vergine, sempre vicino alla fontana di Elia. Si iniziò così un culto verso Maria, il più bel fiore di quel giardino di Dio, che divenne la ‘Stella Polare, la Stella Maris’ del popolo cristiano. E sul Carmelo continuarono a vivere gli eremiti, finché nella seconda metà del sec. XII, giunsero alcuni pellegrini occidentali, probabilmente al seguito delle ultime crociate del secolo; proseguendo il secolare culto mariano esistente, si unirono in un Ordine religioso fondato in onore della Vergine, alla quale i suddetti religiosi si professavano particolarmente legati. Costretti a lasciare la Palestina a causa dell’invasione saracena, i monaci Carmelitani, come ormai si chiamavano, fuggirono in Occidente, dove fondarono diversi monasteri. Il 16 luglio del 1251 la Vergine circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre Generale dell’Ordine, beato Simone Stock, al quale diede lo ‘scapolare’ col ‘privilegio sabatino’, che consiste nella promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Lo ‘scapolare’ detto anche ‘abitino’ non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di ‘rivestimento’ che richiama la veste dei carmelitani e anche un affidamento alla Vergine, per vivere sotto la sua protezione ed è infine un’alleanza e una comunione tra Maria ed i fedeli. Esso consiste di due pezzi di stoffa di saio uniti da una cordicella, che si appoggia sulle scapole e sui due pezzi vi è l’immagine della Madonna.
Durante tutti i secoli trascorsi nella sua devozione, Maria è stata sempre rappresentata con Gesù Bambino in braccio o in grembo che porge lo ‘scapolare’ (tutto porta a Gesù), e con la stella sul manto (consueta nelle icone orientali per affermare la sua verginità). La sua ricorrenza liturgica è il 16 luglio, giorno in cui nel 1251, apparve al beato Simone Stock, porgendogli l’“abitino”.

L’uomo che cammina

Mentre la proposta religiosa viene messa all’angolo da un disinteresse pervasivo e diffuso, il bisogno del sacro e di una purificazione interiore dalla tossicità della vita iperconnessa si esprime in altre forme che diventano sempre più diffuse. Mentre le campane delle nostre chiese chiamano invano a raccolta il popolo di Dio assorto in altre attività, suona una sveglia interiore nel cuore dei credenti che potremmo definire “della soglia” e li porta a imbracciare lo zaino e mettersi in cammino. Le motivazioni profonde talvolta sfuggono agli stessi interessati e si riassumono in un fascino confuso e attraente per un’esperienza che promette benessere interiore e serenità nell’affrontare la vita. Proviamo ad esplorare alcuni aspetti del pellegrinaggio in una prospettiva educativa-pastorale in chiave pastorale.
Il corpo. Mettersi in cammino riguarda anzitutto il corpo, le sue potenzialità e i suoi limiti. In un tempo di dematerializzazione digitale di ogni sostanza e di comunicazione in tempo reale, si tratta di accettare di muoversi con il proprio corpo, facendo un passo dopo l’altro, assimilando i tempi e gli spazi in una logica organica. Non siamo più i pellegrini medievali che per vedere le grandi città e le loro meravigliose cattedrali avevano soltanto la possibilità di portare là il proprio corpo. Ora sappiamo tutto in partenza, abbiamo già visto migliaia di immagini di ciò che troveremo, perciò acquista un nuovo significato accettare la lentezza del cammino, che permette di assaporare non soltanto la meta ma l’itinerario tutto insieme.
La via da percorrere non è più un ostacolo tra noi e la meta, ma un universo da esplorare e attraversare, da gustare con i piedi, gli occhi e il cuore, riappropriandosi delle proprie sensazioni e riattivando tutti i sensi del nostro organismo. La fatica, la fame, la sete, il freddo e il caldo, il sole e le intemperie, insieme alle asperità del terreno e ai suoi paesaggi, chiedono di essere abitati con tenacia e pazienza e promettono un’esperienza di sé e del contesto diretta e potente.
La meta. Il pellegrino sa bene che una cosa sola potrebbe fermare il suo cammino: smettere di sognare la meta. Ogni tappa è una piccola conquista verso la meta finale e pian piano se ne assapora il gusto.
La meta, si tratti di un luogo di culto o meno, riveste i caratteri del sacro: è lontana e si nega alla disponibilità immediata, ma è desiderabile e affascinante. Nel cammino la potenza del sacro irrompe attraverso l’idealizzazione della meta: tremendum per la distanza e le difficoltà che ci separano da lei e fascinans per l’alone di gloria che la riveste e che riempie di speranza i cuori.
La debolezza. Lo sport – ad esempio il trekking – è esperienza di forza. Ci si allena per diventare più forti, si seguono i consigli di istruttori e trainer per imparare a sviluppare la potenza sopita nei propri muscoli e le abilità di una disciplina. Nel pellegrinaggio invece occorre far pace con la debolezza, la fragilità, la vulnerabilità del proprio corpo e della propria mente. Il pellegrino sa che non può farcela da solo, che ogni insidia – anche la più piccola vescica nei piedi o infiammazione ai tendini – gli può essere fatale. Sa che deve intraprendere il cammino con prudenza e fiducia, deve imparare a misurare le proprie forze e soprattutto a chiedere aiuto. Egli impara a confidare in un’altra potenza che non nasce dalla volontà, ma dalla fiducia: è la capacità di affidarsi che lo porterà alla meta, l’umiltà di accogliere la mano tesa che lo rialza, la spalla amica che lo sostiene, lo sguardo benevolo di chi lo riconosce fragile e si lascia muovere a compassione. Così si sviluppa in lui l’unica vera forza dell’uomo: la speranza, che permette di vedere un raggio di luce anche nel buio delle crisi più cupe.

San Benedetto da Norcia

Nel prologo della Regola che San Benedetto ha redatto per i suoi monaci si legge: «Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno» . È dunque lecito domandarci che cosa possiamo oggi imparare da San Benedetto, noi e l’Europa che lo riconosce come patrono, in un momento dove riemergono crisi, conflitti e divisioni. Innanzitutto, la Regola afferma che «Quando il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: “Chi è l’uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?”». Destinatari della domanda sono uomini e donne che cercano la vita in pienezza.  Oggi quanti cercano veramente la vita e per essa sono disposti ad impegnarsi, intraprendendo anche cammini difficili, che richiedono dedizione e perseveranza? L’invito di Benedetto ci spinge a riscoprire quello che abita in profondità il nostro cuore, a non mettere da parte i desideri più autentici che a volte siamo portati a credere irrealizzabili e lontani, soprattutto in momenti difficili come questo, con la guerra che è ritornata a ferire l’Europa.
Guardandoci attorno, spesso constatiamo che quello che rende l’umanità così delusa e a volte così violenta è la consapevolezza di un mondo e di una vita insignificanti. C’è una “crisi di senso”. Una vita consegnata alla noia o al consumismo ha in sé i germi della gelosia, dell’invidia e della rivolta. Ora domandiamoci: cos’è che rende questo mondo insignificante? Non sarà che noi lo costruiamo in funzione di finalità che non sono degne dell’uomo? Ricercando sempre più il denaro e l’agio, ci priviamo della gioia della condivisione; accettando tutti i compromessi purché le nostre ambizioni e la nostra sete di potere vengano soddisfatti, impediamo agli altri di crescere; soddisfacendo gli istinti più bassi, ci ripieghiamo su noi stessi, incapaci di conoscere la gioia del fratello la cui felicità si nutre della felicità dei propri fratelli.
San Benedetto ci sprona a ritrovare il vero significato di ogni costruzione umana: esiste una ragione ultima per vivere e questa ragione si chiama Dio che è amore.
Il secondo spunto che il Santo Patriarca può donare a noi e al nostro continente è il tema dell’ospitalità, rispetto al quale scrive nella Regola: «Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”». Il monaco entra in monastero per seguire Cristo; nell’ospite egli deve riconoscere Cristo stesso, cioè la persona per lui più preziosa. È un annuncio molto importante, mentre si respira nei nostri giorni una sempre maggiore diffidenza, una paura dell’altro, visto come una minaccia per la nostra prosperità e la nostra felicità.
Benedetto ci ricorda che l’altro non è solamente qualcuno al quale io devo dare, ma è soprattutto colui dal quale io posso ricevere. La vera  ospitalità si fonda sulla consapevolezza di uno scambio reciproco, nel quale io certamente do, ma soprattutto ricevo.
Infine l’ultimo aspetto che potremmo imparare dal patrono d’Europa per i nostri giorni è il senso di comunità. C’è nella Regola una espressione che è importante recuperare: “tutti insieme”. Occorre camminare insieme senza lasciare indietro nessuno; occorre individuare il “passo giusto” perché nessuno vada troppo avanti e qualcuno rimanga indietro. La comunità delineata da Benedetto non è una gara nella quale si vince se qualcuno arriva per primo, ma dove la vittoria c’è se si arriva “tutti insieme” alla meta. Anche questo oggi dobbiamo imparare nella nostra società europea: non si vince se c’è qualcuno che arriva prima, ma solamente se si cammina tutti insieme e insieme si raggiunge la meta, che è una convivenza civile veramente degna dell’uomo. San Benedetto ci dice che questa è la via. Ci aiuti e sostenga nell’ardua impresa l’intercessione potente del Santo di Norcia. Per noi e per l’Europa tutta.

Maria Goretti: una lezione attuale

Nel Discorso di Pio XII ai fedeli convenuti a Roma per la canonizzazione di santa Maria Goretti, del 24 giugno 1950, il Papa elencò tutte le virtù per le quali la Maria Goretti è stata riconosciuta santa. «Se è vero – affermava Pio XII – che nel martirio di Maria Goretti sfolgorò soprattutto la purezza, in essa e con essa trionfarono anche le altre virtù cristiane. Nella purezza era l’affermazione più elementare e significante del dominio perfetto dell’anima sulla materia; nell’eroismo supremo, che non s’improvvisa, era l’amore tenero e docile, obbediente e attivo verso i genitori; il sacrificio nel duro lavoro quotidiano; la povertà evangelicamente contenta e sostenuta dalla fiducia nella Provvidenza celeste; la religione tenacemente abbracciata e voluta conoscere ogni dì più, fatta tesoro di vita e alimentata dalla fiamma della preghiera; il desiderio ardente di Gesù Eucaristico, e infine, corona della carità, l’eroico perdono concesso all’uccisore: rustica ghirlanda, ma così cara a Dio, di fiori campestri, che adornò il bianco velo della sua prima Comunione, e poco dopo il suo martirio».
In occasione del centenario della morte di santa Maria Goretti, nel 2002, Giovanni Paolo II scrisse: «La mentalità disimpegnata, che pervade non poca parte della società e della cultura del nostro tempo, fatica talora a comprendere la bellezza e il valore della castità. Dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell’altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano. Non v’è forse in ciò una lezione di grande attualità? Di fronte a una cultura che sopravvaluta la fisicità nei rapporti tra uomo e donna, la Chiesa continua a difendere e a promuovere il valore della sessualità come fattore che investe ogni aspetto della persona e che deve quindi essere vissuto in un atteggiamento interiore di libertà e di reciproco rispetto, alla luce dell’originario disegno di Dio. In tale prospettiva, la persona si scopre destinataria di un dono e chiamata a farsi, a sua volta, dono per l’altro».
Oggi come allora la Chiesa propone la piccola martire come modello di riferimento per la virtù della purezza, soprattutto per i giovani. Però, nei nostri tempi, c’è molta meno disponibilità a cogliere questa dimensione. Oggi vediamo un aspetto non secondario della testimonianza fino alla morte di Maria Goretti: il senso della propria dignità, il senso della propria integrità.
Il senso del valore della propria coscienza davanti agli altri e a Dio. Questi aspetti vengono ora in maggiore evidenza in tempi nei quali la donna viene trattata come un oggetto di cui ci si può disfare senza troppi scrupoli, anche con estrema violenza.
Nella testimonianza di questo perdono, che fra l’altro condusse l’assassino sulla via della conversione, che rifulge maggiormente la santità di Maria Goretti, perché questa capacità di amare il proprio persecutore e di pregare per lui, l’ha resa davvero simile a Gesù, che sulla croce pregò per i suoi crocifissori, e a santo Stefano, primo martire, che implorò il perdono per coloro che lo stavano lapidando. Il perdono che in punto di morte Santa Maria Goretti diede al suo aguzzino e la conversione dell’assassino, Alessandro Serenelli, il quale visse l’ultima parte della sua vita ospite di un convento dopo aver scontato la condanna ed aver partecipato alla cerimonia di canonizzazione della sua vittima, sono ancora frutti di una estrema attualità. Sono anch’essi due ‘miracoli’: hanno una validità perenne. Bisogna interpretare la capacità di perdonare che viene dalla grazia di Dio che racconta di una apertura d’animo umana e spirituale davvero esemplare che spinge Maria Goretti a dire: voglio il mio assassino come me in Paradiso!.