L’uomo che cammina

Mentre la proposta religiosa viene messa all’angolo da un disinteresse pervasivo e diffuso, il bisogno del sacro e di una purificazione interiore dalla tossicità della vita iperconnessa si esprime in altre forme che diventano sempre più diffuse. Mentre le campane delle nostre chiese chiamano invano a raccolta il popolo di Dio assorto in altre attività, suona una sveglia interiore nel cuore dei credenti che potremmo definire “della soglia” e li porta a imbracciare lo zaino e mettersi in cammino. Le motivazioni profonde talvolta sfuggono agli stessi interessati e si riassumono in un fascino confuso e attraente per un’esperienza che promette benessere interiore e serenità nell’affrontare la vita. Proviamo ad esplorare alcuni aspetti del pellegrinaggio in una prospettiva educativa-pastorale in chiave pastorale.
Il corpo. Mettersi in cammino riguarda anzitutto il corpo, le sue potenzialità e i suoi limiti. In un tempo di dematerializzazione digitale di ogni sostanza e di comunicazione in tempo reale, si tratta di accettare di muoversi con il proprio corpo, facendo un passo dopo l’altro, assimilando i tempi e gli spazi in una logica organica. Non siamo più i pellegrini medievali che per vedere le grandi città e le loro meravigliose cattedrali avevano soltanto la possibilità di portare là il proprio corpo. Ora sappiamo tutto in partenza, abbiamo già visto migliaia di immagini di ciò che troveremo, perciò acquista un nuovo significato accettare la lentezza del cammino, che permette di assaporare non soltanto la meta ma l’itinerario tutto insieme.
La via da percorrere non è più un ostacolo tra noi e la meta, ma un universo da esplorare e attraversare, da gustare con i piedi, gli occhi e il cuore, riappropriandosi delle proprie sensazioni e riattivando tutti i sensi del nostro organismo. La fatica, la fame, la sete, il freddo e il caldo, il sole e le intemperie, insieme alle asperità del terreno e ai suoi paesaggi, chiedono di essere abitati con tenacia e pazienza e promettono un’esperienza di sé e del contesto diretta e potente.
La meta. Il pellegrino sa bene che una cosa sola potrebbe fermare il suo cammino: smettere di sognare la meta. Ogni tappa è una piccola conquista verso la meta finale e pian piano se ne assapora il gusto.
La meta, si tratti di un luogo di culto o meno, riveste i caratteri del sacro: è lontana e si nega alla disponibilità immediata, ma è desiderabile e affascinante. Nel cammino la potenza del sacro irrompe attraverso l’idealizzazione della meta: tremendum per la distanza e le difficoltà che ci separano da lei e fascinans per l’alone di gloria che la riveste e che riempie di speranza i cuori.
La debolezza. Lo sport – ad esempio il trekking – è esperienza di forza. Ci si allena per diventare più forti, si seguono i consigli di istruttori e trainer per imparare a sviluppare la potenza sopita nei propri muscoli e le abilità di una disciplina. Nel pellegrinaggio invece occorre far pace con la debolezza, la fragilità, la vulnerabilità del proprio corpo e della propria mente. Il pellegrino sa che non può farcela da solo, che ogni insidia – anche la più piccola vescica nei piedi o infiammazione ai tendini – gli può essere fatale. Sa che deve intraprendere il cammino con prudenza e fiducia, deve imparare a misurare le proprie forze e soprattutto a chiedere aiuto. Egli impara a confidare in un’altra potenza che non nasce dalla volontà, ma dalla fiducia: è la capacità di affidarsi che lo porterà alla meta, l’umiltà di accogliere la mano tesa che lo rialza, la spalla amica che lo sostiene, lo sguardo benevolo di chi lo riconosce fragile e si lascia muovere a compassione. Così si sviluppa in lui l’unica vera forza dell’uomo: la speranza, che permette di vedere un raggio di luce anche nel buio delle crisi più cupe.