XXII del Tempo Ordinario

Nel Vangelo di questa domenica, il Signore ci invita ad occupare un posto di umiltà, a riconoscere il nostro limite e a non montarci la testa. Mettersi all’ultimo posto non vuol dire stare in fondo alla chiesa o dietro una colonna per non farsi vedere, l’ultimo posto non è quello di una sala, ma è nel servizio della realtà; significa accettare di stare al proprio posto senza voler comparire, senza pretendere riconoscimenti o ringraziamenti. È l’atteggiamento di Gesù stesso, mite e umile di cuore. Noi dobbiamo imparare da Lui, perché è il nostro modello. Vogliamo impegnarci a crescere nella mitezza e nell’umiltà. Il saggio Siracide ha contrapposto uomini orgogliosi e superbi a coloro che invece sono umili e miti. “Molti purtroppo – dice – sono gli orgogliosi e i superbi, quelli che si credono importanti e pretendono onori, vogliono riconoscimenti dagli uomini, ma il Signore rivela i suoi segreti ai miti”. Il Signore entra in amicizia e si confida con le persone umili. Non apprezza però le false umiltà di chi per finta dice: “Non valgo, non sono degno, non me lo merito” – senza pensarlo – bensì coloro che sono veramente umili e pensano di valere poco e non si mettono sul piedistallo e non cercano onori. Mettersi all’ultimo posto vuol dire lavorare intensamente nella nostra vita con impegno cristiano senza la pretesa di un riconoscimento, senza la prepotenza di chi si crede importante, giusto, buono. Qual è il posto primo in un banchetto? E qual è il posto ultimo? È solo un’immagine, perché il problema non è a tavola: il problema è nella vita. La ricerca del primo posto è l’ambizione, l’orgoglio, la voglia di primeggiare, il desiderio della supremazia sugli altri, la brama di arrivare a una posizione di prestigio, per essere di più dell’altro. L’immagine del banchetto e del primo posto serve per provocare la reazione dei suoi discepoli, per mostrare quel desiderio di primeggiare come negativo. “Voglio un vestito più bello delle altre persone, voglio una casa più grande, voglio un’automobile più prestigiosa, voglio un posto più importante, voglio uno stipendio più alto, voglio fare carriera, voglio essere il primo” … questo è un pensiero dominante in tanti aspetti diversi e ognuno di noi riconosce che cerca quello che gli piace e vuole raggiungerlo. Anche l’ultimo posto spesso è cercato semplicemente per via del proprio carattere, perché c’è qualcuno che ama mettersi in mostra e c’è qualcun altro che vuole rimanere nascosto: sono due atteggiamenti caratteriali sbagliati. Ognuno fa quel che vuole, quel che gli piace e cerca di raggiungere la propria realizzazione facendo quel che gli fa comodo: o mostrandosi oppure nascondendosi per non essere notato. Sono due eccessi. L’umiltà di cui parla il Signore non è nascondersi, non è cedere, non è inattività … l’umile è colui che fa bene il suo dovere, senza pretese, senza mettersi in mostra, senza volere il riconoscimento degli altri. L’autore della Lettera agli Ebrei presenta un confronto fra due atteggiamenti religiosi: il contrasto è posto fra l’antica alleanza e la nuova alleanza, fra il monte Sinai, con la rivelazione di Dio fra tuoni e lampi e l’esperienza cristiana molto semplice.
I destinatari di questa lettera erano ebrei divenuti cristiani i quali però rimpiangevano la gloria del tempio di Gerusalemme, che era una costruzione immensa, bellissima, piena di ricchezza, sfarzo, suoni, profumi, vesti meravigliose … sembrava che quello fosse un culto degno di Dio.
Nella tradizione cristiana invece si erano ridotti, almeno all’inizio, ad una cena in una casa qualsiasi, con un po’ di pane e un po’ di vino … tutto lì? Sì, tutto lì! Tutto è in quel po’ di pane e di vino che è il segno del Cristo morto e risorto: tutto è lì nella semplicità che è grandiosa.

Giovanni Battista: un profeta esemplare per noi

Venerdì 29 agosto celebriamo la memoria del martirio di san Giovanni Battista.
Una domanda potrebbe nascere in noi: chi ha vinto, Erode o Giovanni Battista? Gesù, annunciato dal Battista, che cosa ha fatto per salvarlo? Niente! Gli ha soltanto mandato a dire: ―Beato sarai tu se non inciamperai nel mio stile. Dopo qualche mese anche Gesù farà una fine simile a quella di Giovanni Battista. Pensiamoci seriamente, perché noi siamo discepoli di questa gente, non siamo discepoli di Erode né seguaci di Erodiade, non siamo discepoli di Caifa e della struttura del tempio; siamo invece discepoli di Gesù e stimiamo Giovanni come un profeta. Non possiamo quindi stimarlo a parole senza condividerne lo stile, senza apprezzare che quello è stato il suo ruolo profetico.
E lo stesso stile vale per il nostro compito di profeti cristiani. Noi, anche se siamo piccoli nel regno di Dio, grazie all’opera di Gesù Cristo possiamo avere un grande ruolo e la nostra missione si realizza nell’essere profeti nel nostro mondo anche se piccolo, nella nostra concreta realtà, con il coraggio della coerenza, con la fiducia in quel Signore che capovolge la situazione. È lui che libera in modo profondo e chiede a noi il coraggio di perdere tutto. Questa meditazione sulla figura e il messaggio di Giovanni Battista spero ci possa aiutare a riscoprire il nostro ruolo di profeti oggi e non ci faccia paura essere personaggi scomodi che provocano e che ne accettano le conseguenze, perché i cristiani come il Battista rischiano di perdere la testa! Seguiamo il Cristo imitando il suo stile, cercando di esser autentici profeti, coerenti, che sanno testimoniare – soprattutto con la vita – la bellezza del vangelo di Gesù Cristo. Cresciamo nel nostro impegno cristiano profetico in tutto quello che facciamo, tanto o poco che sia; cerchiamo di essere autentici profeti di Cristo che annunciano qualche cosa di grande, di nuovo, di bello. Facciamolo con coraggio. Siamo discepoli di grandi persone che ci hanno rimesso e hanno vinto, proprio perché sono stati capaci di perdere!

Sant’Agostino divenne amico del Signore e salì più in alto

Giovedì 28 Agosto celebriamo la festa di Sant’Agostino. Era un giovane molto superbo, aveva una grande ambizione, voleva essere il primo. Era un uomo molto intelligente, il primo della classe. Aveva studiato retorica ed era diventato un eccellente oratore; aveva lasciato il suo paesino in Nord Africa – oggi si trova in Tunisia – ed era andato a Cartagine, che era una grande città, ma non gli bastava. Si era trasferito da Cartagine a Roma per diventare – noi oggi diremmo – un professore universitario di retorica; e grazie ad alcune raccomandazioni era arrivato addirittura alla corte imperiale che allora risiedeva a Milano.
Il giovane Agostino, anche se aveva una mamma cristiana, non era stato battezzato e non condivideva assolutamente il messaggio evangelico. Aveva letto la Bibbia – da giovane superbo, letterato arrogante – l’aveva trovata bruttissima e l’aveva lasciata perdere. A Milano fu invitato come retore di corte, cioè colui che doveva fare i grandi discorsi davanti all’imperatore. Cercava il primo posto, voleva essere il più importante, si sentiva il più grande, cercava l’onore per sé. Aveva la mala pianta dell’orgoglio radicata nel cuore e si stava rovinando la vita. Ascoltando i discorsi del vescovo Ambrogio si sentì toccare il cuore. C’era andato con malizia, perché voleva smontare i discorsi di Ambrogio, convinto di essere più bravo, più intelligente … invece Dio colse quella occasione per parlare al suo cuore; e Agostino – trentenne, all’apice della carriera, uomo importante – entrò in crisi, visse una crisi esistenziale, sentì l’amarezza della sua vita, ebbe l’impressione che tutto gli crollasse intorno. Noi oggi parleremmo di depressione … un uomo così riuscito, in realtà era un fallito e se ne rendeva conto. Entrò in se stesso, riprese in mano le Scritture, cominciò a leggere la Bibbia, illuminato dalle parole di Sant’Ambrogio la lesse con altri occhi, la trovò interessante e attraverso quelle parole il Signore gli cambiò il cuore. Quell’uomo superbo, che cercava il primo posto, divenne umile, si abbassò, andò a scuola da Ambrogio, si fece catecumeno, andò a catechismo per imparare a vivere da cristiano, ricevette il battesimo. Aveva 33 anni. Il battesimo per lui segnò l’inizio di una vita nuova: mise punto, andò a capo, girò pagina. Si mise all’ultimo posto, lasciò perdere tutto, abbandonò il posto di prestigio, decise di ritornare in Africa. Si imbarcò a Ostia e tornò nel suo villaggio d’origine a vivere nascostamente per studiare la Parola di Dio, per pregare. Essendosi messo all’ultimo posto, fuori da tutto, senza contare più niente, allora il Signore lo andò a cercare e gli disse: “Amico, sali più in alto”.
Gli chiesero di fare il prete, perché ne avevano bisogno e accettò senza essere andato a cercare l’incarico; poi gli chiesero di fare il vescovo della piccola cittadina di Ippona. Non era un onore o un prestigio, non era carriera, era un servizio. La diocesi era piccola, il paese poco popoloso, la gente semplice. Agostino per più di trent’anni fu il vescovo di quella comunità e servì la Parola di Dio. L’aveva studiata lui, la comunicò agli altri, umilmente. Era salito in alto! Era salito davvero, perché non faceva più le cose per sé, me le aveva fatte per gli altri, per la gente. Aveva utilizzato tutta quella retorica studiata da giovane per formare la gente semplice. Fece una grande carriera, da uomo semplice, vescovo di un paesino sperduto della Tunisia. Eppure oggi noi continuiamo a parlare di lui ed è molto famoso, proprio perché si è fatto umile. Se fosse rimasto al suo posto di retore della corte a Milano, sarebbe scomparso, nessuno più ricorderebbe nemmeno il suo nome, come non conosciamo nessun altro dei suoi colleghi. Eppure in quel tempo c’erano tante persone importanti che emergevano: il nome dell’imperatore Valentiniano III vi dice qualcosa? Assolutamente niente. La sua orgogliosa madre che comandava con tanta prepotenza, la conoscete? No. Tutte persone che han cercato il primo posto, ce l’avevano, e sono rimasti insignificanti, spariti dalla storia, non hanno lasciato traccia, anche se erano grandi e potenti. Agostino, invece, essendosi fatto piccolo, avendo preso l’ultimo posto è diventato grande, è stato esaltato, ha saputo trasmettere, ha comunicato davvero qualche cosa di grande; e noi continuiamo a leggere le sue opere e ammiriamo la sua vita e lo ricordiamo come un esempio. Anche noi vogliamo fare così: accettiamo umilmente di stare al nostro posto e di fare bene quello che dobbiamo fare, facendo del nostro meglio lì dove siamo con umiltà … e saremo beati se anche nessuno ci ricambia, perché la beatitudine è essere con il Signore; e troviamo il Signore all’ultimo posto con gli umili, con i poveri, coi semplici, perché il Signore ama la semplicità e noi vogliamo stare dalla sua parte.

Santa Monica: esempio di donna umile e mite

La ricorrenza liturgica di mercoledì 27 Agosto richiama la figura di santa Monica, madre di Sant’Agostino. La sua vicenda umana può aiutarci a comprendere che cosa il Signore intenda con mitezza e umiltà. Questa donna di famiglia, moglie e madre, ha vissuto da cristiana situazioni molto dolorose: il marito non era credente, abbastanza affabile ma preda di violenti scatti d’ira, soprattutto infedele al matrimonio; i figli poi l’hanno seguita per un po’ ma tutti si sono allontanati dalla fede prendendo strade negative. Monica visse come moglie in una relazione molto difficile con il marito; visse come madre in situazioni pesanti con i figli … e visse nella mitezza e nell’umiltà. Non si rassegnò, ma umilmente continuò a fare bene quello che doveva fare come moglie e come madre. Non aveva soddisfazioni umane, perché il marito non le dava nessuna soddisfazione e i figli nemmeno. L’umiltà di mettersi all’ultimo posto vuol dire
continuare a fare bene anche se gli altri non mi capiscono, non mi valorizzano, non mi danno soddisfazione. Monica pregò molto intensamente per il marito e per i figli; e trattò bene il marito e i figli: offrì loro una testimonianza di fede cristiana ed ebbe la fortuna di vedere cambiare la situazione. Proprio in forza della sua umile mitezza Monica vinse, non litigò col marito, non lo insultò, non lo disprezzò, non si arrabbiò coi figli … riuscì con la sua preghiera e le sue lacrime a vincere la buona battaglia della fede. Il marito fu conquistato dalla sua testimonianza di amore fedele, senza gratificazioni umane: cambiò vita, si fece battezzare, divenne cristiano e lei lo accompagnò alla morte con la soddisfazione di vederlo trasformato. Il figlio Agostino aveva dato molti problemi alla madre. Giovane intelligente, intraprendente, non era battezzato e non aveva nessuna intenzione di essere cristiano; era diventato professore di retorica a Cartagine, poi si era trasferito a Roma. Rimasta vedova, Monica lasciò il suo villaggio nel Nord Africa e venne come una profuga in Italia alla ricerca del figlio. A Roma non lo trovò, perché si era trasferito a Milano e lo seguì a Milano. Gli stette vicino ma a debita distanza, senza interferite con la sua vita. Giovane orgoglioso Agostino sognava di fare una grande carriera alla corte imperiale, ed era molto lontano dalla fede. Fu accompagnato dalle preghiere e dalle lacrime di sua madre che umilmente rimase all’ultimo posto, ma attivamente operò: continuò a piangere e a pregare e ad amare … e vinse lei! Andava a sentire le prediche del vescovo Ambrogio come una povera donna che ascoltava questo grande dottore. Ne parlò al figlio, invitandolo ad andare a sentire il vescovo. Agostino ci andò con l’intenzione arrogante di smontare i discorsi di quell’uomo: pensava di saperne di più e invece rimase conquistato. La capacità che aveva Ambrogio di spiegare le Scritture, di fare comprendere il mistero di Cristo, toccò Agostino nel cuore, gli fece crollare quella mentalità orgogliosa che aveva ed entrò in crisi: visse momenti di oscurità, di combattimento interiore e alla fine decise di farsi cristiano. Si avvicinò al vescovo Ambrogio, iniziò il percorso del catecumenato e nella notte di Pasqua venne battezzato. Monica ebbe la soddisfazione di vedere anche quel figlio, così testardo e lontano da Dio, diventare cristiano e pure impegnato nella vita della Chiesa. Le pie lacrime di quella mamma umile, che stava all’ultimo posto, sono state il motore della storia, forse più importati delle prediche di Ambrogio! Quella donna mite, senza forza, con la sua preghiera e il suo amore costatante, ottenne grandi risultati.
Ripartì quindi con il figlio per tornare in Africa, ma ad Ostia, prima di imbarcarsi, si ammalò e nel giro di pochi giorni morì. Aveva detto al figlio, il quale lo riporta nelle sue Confessioni: “Ormai non ci sto più a fare nulla su questa terra, tutto quello che volevo l’ho ottenuto”. Dopo pochi giorni si ammalò e morì all’età di 56 anni. Questa è una donna mite e umile che si è messa all’ultimo posto, un’autentica cristiana che ci ha insegnato a vivere bene, a fare bene quello che dobbiamo fare nelle nostre situazioni difficili.
Ognuno, pensando alla propria situazione, sicuramente incontra delle difficoltà, vive relazioni che non danno gioia, che creano problemi. Con mitezza e con umiltà continuiamo a fare il bene, confidando nel Signore: è Lui la nostra forza. Le preghiere, le lacrime, l’amore costante sono un’autentica forza: non l’orgoglio e la superbia, ma la mitezza vince; e ai miti il Signore rivela i suoi segreti e concede la vittoria.

21 del Tempo Ordinario

Un tale ha posto a Gesù una domanda curiosa: «Sono pochi quelli che si salvano?». Potrebbe essere formulata in tanti altri modi, ed è una domanda che spesso anche noi facciamo, se non esplicitamene, in modo implicito: “Quanti sono quelli che si salvano? oppure, chi si salva?”. Rispondiamo tante volte che tutti si salvano. Non è questa la risposta di Gesù. Questa risposta è rassicurante: “Dio è buono e salva tutti – quindi siamo tutti sicuri di salvarci – di conseguenza (si pensa come sottinteso) ognuno faccia quello che vuole, perché tanto è la stessa cosa”. Non c’è nessuna differenza, qualunque comportamento va bene; ognuno ha le proprie idee, i propri gusti e comunque ci si comporti tutti si salvano. Ma non è ciò che ha insegnato Gesù il quale, nel brano sopra citato, è molto severo, dicendo che molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno, molti si illuderanno di entrare nel regno di Dio a qualunque condizione ma non ci riusciranno perché il padrone di casa chiuderà la porta. Addirittura Gesù si rivolge ai suoi ascoltatori con un discorso diretto, li chiama in causa di persona e li provoca: «Voi rimasti fuori busserete: “Signore aprici!”, ma da dentro il Signore vi dirà: “Non so di dove siete”». Questa è una frase che merita attenzione.
Gesù mette in bocca al Signore, dietro la porta chiusa, questa affermazione: «Non so di dove siete».
Corrisponde a “non vi conosco, non siete dei miei”. Ma usa l’avverbio di dove per indicare l’origine.
Se io chiedo a una persona: “Di dove sei?”. La risposta più semplice che mi può dare è quella di indicarmi il paese di provenienza. Ma non è questa la risposta che vuole il Signore.
“Di dove siete?” non vuol dire “da quale paese venite?”, ma: “da dove traete origine? Qual è il principio del vostro pensiero, del vostro atteggiamento? Da chi avete preso?”. È una domanda importante che riguarda l’origine genetica del nostro stile di vita, è una domanda che talvolta si può rivolgere ai bambini, quando i genitori si accorgono che i ragazzi hanno degli atteggiamenti strani; allora ci si domanda: “Ma da chi ha preso?”. In genere si trova qualche ascendente a cui assomigliano: “Questo aspetto negativo del carattere deve averlo preso da questo e da quello”. È ciò che Gesù intende chiederci: “Da chi avete preso? Col vostro atteggiamento, col vostro modo di pensare, con lo stile della vostra vita, da chi avete preso?”. Se siamo figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, dovremmo aver preso da Lui; se Dio è la nostra origine, noi veniamo da Lui e abbiamo preso da Lui; se Cristo è il nostro fratello, allora noi gli assomigliamo. Ma se non gli assomigliamo, se non abbiamo preso da Lui, veniamo da qualche altra parte! È un problema; è questo che ci tiene fuori dal Regno, se non prendiamo da Dio, se non impariamo a vivere con lo stile di Gesù. Pertanto ci viene chiesto un allenamento importante per cambiare i nostri atteggiamenti, per non seguire semplicemente ciò che ci viene istintivo e naturale, ma imparare ad essere come dobbiamo.
Questo allenamento potrebbe cominciare dai pensieri, dalle reazioni che abbiamo ai vari eventi.
Quando capita qualche cosa che ci turba, che ci dispiace, magari che ci offende, ci vengono dei pensieri. Impariamo ad analizzare i nostri pensieri, impariamo a valutare le nostre reazioni … se sono arrabbiato, perché mi sono arrabbiato? Mi è venuto in testa un pensiero violento, perché mi è venuto? Ancora meglio, da dove viene questo pensiero? Questo atteggiamento viene da Dio o viene dal nemico? Questo mio modo di pensare – mi è venuta voglia di fargliela pagare, di restituire quello che mi ha fatto con un altro sgarbo – questo mio pensiero viene da Dio? È il Signore che me lo ha ispirato? Appena mi faccio questa domanda, subito sono capace di rispondermi: “No. Questa idea non viene da Dio”. E allora? Allora, la lascio perdere. Se impariamo a valutare i nostri sentimenti e a considerare da dove vengono, diventiamo capaci di distinguere il bene dal male, di respingere ciò che viene dal nemico e valorizzare ciò che viene da Dio.
Di fronte ad un sentimento che nasce in me, devo domandarmi: “Da dove viene? Perché ho reagito così?
È una reazione conforme allo stile di Gesù Cristo o contraria al suo modo di pensare? Io voglio essere come Gesù e allora se i pensieri che mi vengono non sono conformi a Lui, li respingo, li scaccio, li combatto, non li seguo.
Questo diventa l’atteggiamento corretto con cui posso seguire il Signore.
E quando un giorno busserò alla sua porta non mi sentirò dire: “Non so di dove sei, hai sempre fatto di testa tua, hai sempre seguito le tue idee, adesso arrangiati” … sarebbe tremendo trovare la porta chiusa quando ormai è tardi. Pensiamoci finché siamo in tempo. Impariamo a pensare, a sentire, a parlare, ad agire come il Signore Gesù, per essere veramente figli di Dio e fratelli suoi.

Beata Vergine Maria Regina

Celebrando la regalità di Maria, noi celebriamo lo splendore della risurrezione di Cristo, in forza della quale Egli si è seduto alla destra del Padre, finché tutti i suoi nemici siano posti a sgabello dei suoi piedi.
È in ragione e a causa della regalità di Cristo che anche Maria è entrata in possesso di una dignità regale. Cristo risorto, infatti, non è una eccezione; la sua risurrezione non è un “caso a sé”: è risorto – come insegna l’Apostolo Paolo – come “primizia di coloro che sono morti”. L’immagine dei primi frutti del campo o dei primi nati del bestiame da offrire al tempio dice che si tratta non di un caso sporadico e unico: Cristo è stato risuscitato non come il solo, bensì come il primo di una serie di morti che risusciteranno. Non è un individuo a parte, ma il primo anello di una catena. Come dunque Cristo in forza della sua risurrezione è stato costituito Signore, così ogni suo discepolo diviene partecipe della sua regalità. “Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono”. Così ha promesso il Risorto ad ogni suo discepolo: la partecipazione alla sua regalità. Questa partecipazione raggiunge in Maria un grado eminente e superiore ad ogni altro, così che a titolo unico Ella può e deve essere invocata come nostra Regina. Le ragioni per cui Maria partecipa in modo eminente la dignità regale di Cristo sono tre. La prima e principale è senza alcun dubbio la sua divina maternità. Nella pagina evangelica, del figlio che sarà partorito da Maria è detto: “il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo Padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Ne segue che Maria stessa è Regina, avendo concepito e generato un Figlio che nel medesimo istante del suo concepimento era re e signore di tutte le cose. “E’ veramente diventata Signora di tutta la creazione” scrive un Padre della Chiesa “nel momento in cui divenne Madre del Creatore” [S. Giovanni Damasceno]. La seconda ragione per cui Maria deve essere proclamata regina è la parte singolare che Ella ebbe nell’opera della nostra redenzione.
Scrivendo ai cristiani, l’apostolo Pietro dice: “voi non siete stati redenti con oro e argento, beni corruttibili, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” [1Pt 1,18]. Noi non apparteniamo a noi stessi, ma a Cristo che ci ha “comprati a caro prezzo” [1Cor 6,20 a]. Ora, per divina volontà, Maria fu strettamente associata all’atto redentivo di Cristo, sotto la Croce. Quindi, “Come Cristo per il titolo speciale dell’atto redentivo è nostro Signore e nostro re, così anche la Vergine beata è nostra Signora e regina” dal momento che ha volontariamente offerto il suo Figlio desiderando, chiedendo e procurando in modo singolare la nostra salvezza. La terza ragione è che Maria partecipa in modo singolare al regno con cui Gesù risorto regna ora nelle menti e nei cuori dei suoi discepoli. Egli infatti attraverso il dono del suo Santo Spirito che ci viene fatto mediante i sacramenti della fede, ci configura intimamente a Lui. Ad ogni grazia che proviene solamente da Cristo come dalla sua sorgente Maria coopera ora colla sua preghiera di intercessione. Nel prefazio con cui ci introdurremo nella grande preghiera eucaristica, la fede della Chiesa circa la regalità di Maria è stupendamente espressa: “Accanto a Lui ha voluto esaltare la Vergine Maria, che ha sopportato con fortezza l’ignominia della Croce di Cristo. Tu l’hai innalzata accanto a Lui … dove regna gloriosa e intercede per tutti gli uomini, avvocata di grazia e regina dell’Universo”. A causa di questi triplice titolo di regalità, Maria è collocata in posizione tale che la Madre non contempla nulla al di sopra di sé, se non il solo Figlio, la Regina non ammira niente al di sopra di sé se non il solo Re, la nostra Mediatrice non venera niente al di sopra di sé se non il solo Mediatore, con cui proprio lei ci concilia e a cui ci raccomanda e ci presenta colle sue preghiere. La devozione ed il culto mariano sono dimensioni essenziali nella nostra vita cristiana: non è veramente cristiano chi non è mariano. E’ Maria infatti che ci conduce al suo Figlio. Ella infatti che si gloria di aver generato l’unico figlio del Padre, abbraccia in tutte le sue membra il loro unico e medesimo Figlio, e non si vergogna di venir chiamata madre di tutti coloro in cui riconosce il suo Cristo formato o in cui viene a sapere che il suo Cristo è in formazione.
Affidiamoci pienamente alla sua materna sollecitudine.

San Bernardo, abate e dottore della Chiesa

Nel 1090, nacque in Borgogna quello che sarebbe diventato San Bernardo, abate e Dottore della Chiesa. Amante della letteratura e delle lingue classiche, aveva sei fratelli e veniva da una famiglia cattolica.
Insieme a quattro fratelli e a uno zio, Bernardo lasciò la vita civile e si ritirò alla vita religiosa. Gli si sarebbero poi uniti il fratello minore, il padre e la sorella, in una storia certamente unica, piena dell’amore di Dio.
Il 20 agosto si celebra la memoria di questo santo, che porta a ricordare un uomo santo amante della
Santissima Vergine Maria e di suo Figlio Gesù Cristo.
Condividiamo cinque consigli di San Bernardo per giungere alla santità. 
I vostri doni vi servono per essere qualcosa di più che semplicemente famosi
San Bernardo è stato un uomo pieno di doni che lo facevano sicuramente spiccare, frutto della sua intelligenza, grazia e gentilezza. Era anche un uomo attraente, e avrebbe potuto lasciarsi trascinare dalla vanità e dall’egocentrismo, cosa che grazie alla sua vicinanza al Signore non è accaduta.
È bello che, meditando e imparando dalla sua testimonianza, possiamo comprendere che un cammino sicuro per la santità è quello di saper mettere i nostri doni al servizio degli altri. Bisogna fare dei nostri doni, delle nostre capacità, una sorta di gradini per arrivare al cielo e portare gli altri con noi.
L’apostolato inizia a casa, e potrebbe essere l’ambiente più difficile
È proprio vero che “nemo profeta in patria”. È lì che la missione diventa più complessa, ma è anche lì che è più urgente l’opera evangelizzatrice. L’esempio di San Bernardo ci porta a lottare per l’annuncio del Regno di Dio in ogni luogo, perché l’apostolato smette di essere l’azione specifica di un momento e di un certo spazio e inizia ad essere la vita stessa. Sappiamo come annunciare la Parola a casa nostra?
Conoscetevi e conoscete le vostre debolezze
Sapere chi sono e come sono è fondamentale per il perfezionamento spirituale e personale della mia vita. Sapere in cosa sono debole può rendermi forte, e riconoscere i miei problemi, vizi e peccati è un altro grande passo per camminare verso la santità della vita. San Bernardo ha compreso che nella preghiera e nella meditazione alla luce della Parola e della persona di Gesù si possono trovare i dettagli più piccoli e invisibili della nostra vita e porvi la forza di Dio, trasformarli in gradini di santità che ci avvicinano al Signore. Ci chiediamo come Dio può aiutarci nelle nostre debolezze?
Lo Sappiamo che offrendo a Dio le cose in cui siamo deboli possiamo essere santi in esse? 
“Non sei più santo perché non sei più devoto di Maria”
San Bernardo è stato un vero amante della Santissima Vergine Maria, al punto che oggi si dice che se si vuole essere mariano bisogna avvicinarsi prima agli scritti di San Bernardo sulla Vergine.
La sua vita spirituale si è vista così legata alla figura di Maria che si potrebbe dire che a essa è dovuta la santità di Bernardo. La devozione sincera e sana alla Madre del Signore è una guida ufficiale per unirsi completamente a Gesù. È attraverso di Lei che si può imparare ad essere davvero umile, orante, discepolo. Nella sua testimonianza troviamo la strada sicura per essere santi.

Confidate nell’amore di Dio
La fiducia dona pace, ed è questa stessa pace che permette che l’anima si elevi davvero in unione a Dio. Quando ci abbandoniamo alla volontà del Signore, tutto funziona meglio, perché Egli vuole sempre il meglio per noi. Confidare in Dio, come San Bernardo, è sapere che le nostre forze sono limitate e che Dio ci fa essere forti. Solo in Lui possiamo riuscirci, e quindi la fede e la fiducia nella Provvidenza diventano una strada sicura per percorrere la vita della santità.
Essere santi non è compiere miracoli, ma sapere che nei propri limiti Dio si mostra grande; che nelle proprie debolezze Dio si mostra forte e nei propri timori è provvidente.
Com’è la nostra fiducia nella Provvidenza di Dio? Fin dove arriva la nostra fede?
Vorrei infine invitarvi a pregare la Santissima Vergine Maria con questa breve preghiera, in cui esprimiamo l’amore verso la Madre di Dio e chiediamo la sua intercessione: « Ricordati, o piissima Vergine Maria, che non si è mai inteso al mondo che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, chiesto il tuo patrocinio e sia stato da te abbandonato.
Animato da tale confidenza, a te ricorro, o Madre, Vergine delle vergini, a te vengo, e, peccatore come sono, mi prostro ai tuoi piedi a domandare pietà. Non volere, o Madre del divin Verbo, disprezzare le mie preghiere, ma benigna ascoltale ed esaudiscile. Amen»

20 Domenica del tempo Ordinario

Il profeta Geremia, in quanto persona che durante la sua missione è stato anche perseguitato, non accettato, rifiutato dai suoi concittadini, è stato una figura del Messia. Il re Sedecia si rivela una persona mediocre, incerta e instabile, un po’ da una parte e un po’ dall’altra: oscilla fra l’essere contro Geremia e a favore di Geremia, a seconda di chi gli parla dà ragione sia a questo che a quello. Geremia era un uomo delicato,
timido, riservato. In base al suo carattere avrebbe voluto stare tranquillo nel suo ambiente domestico a
scrivere poesie, e invece fu mandato dal Signore in mezzo a una lotta tremenda, ad annunciare la catastrofe, l’imminente fine di Gerusalemme. Quando i politici si illudevano di riuscire a salvare la situazione, anzi di cambiarla in meglio, Geremia deve annunciare a nome di Dio la necessità di sottomettersi, di abbassare la testa, di accettare l’umiliazione, di arrendersi. Perciò lo accusano di disfattismo: “Quest’uomo fa cadere le braccia ai soldati, quest’uomo non cerca il benessere del popolo, quest’uomo vuole il male della nazione”. Non capiscono il senso di quello che sta dicendo, fraintendono il suo messaggio, lo vogliono morto, lo condannano ad essere gettato nella cisterna. Il racconto biblico è essenziale e drammatico: “presero Geremia, lo gettarono nella cisterna, calandolo con corde, e nella cisterna non c’era acqua, ma fango … e Geremia affondò nel fango”. Ci è proposto il quadro di un uomo di Dio che affonda nel fango … proviamo a metterci nei suoi panni, a sentire sulla nostra pelle una situazione del genere.
Dopo avere fatto del nostro meglio, dopo aver annunciato la parola di Dio e servito il Signore, siamo ricambiati con malevolenza, con disprezzo, con calunnie, accuse pesanti … presi e calati in un pozzo per morirvi di fame, affondiamo nel fango. È l’immagine dell’umanità, dei problemi che ciascuno di noi prima o poi nella vita affronta: ci troviamo in questo pozzo ad affondare nel fango. Ecco l’angoscia: essere chiusi allo stretto e non avere via d’uscita. Guardare dal basso quel buco in cima al pozzo da cui filtra la luce e affondare nel fango … è la condizione dolorosa dell’umanità. È la condizione anche di persone buone, di persone che hanno fatto del bene e che si ritrovano ripagate con il male. Da questo pozzo Geremia alza la voce e noi gli abbiamo dato la voce con le parole del Salmo 39: “Signore vieni presto in mio aiuto!
Tirami fuori da questo pozzo, dal fango della palude, metti i miei piedi sulla rocca, rendi sicuri i miei passi”. Come è capitato a Geremia anche noi però possiamo ringraziare il Signore perché qualcuno è intervenuto a tirarci fuori. Nella vicenda del profeta è un etiope, uno straniero – Ebed-Mèlec, il servo del re – che interviene in suo favore.
Uno straniero dalla pelle nera salva il profeta: fa ragionare il re, gli fa capire di aver agito male, parla a favore di Geremia, mentre i suoi concittadini, gli uomini del tempio, i cortigiani – vil razza dannata – hanno fatto gettare Geremia in fondo alla cisterna. Uno straniero intercede per il profeta; e il re, che è una debole banderuola, dà retta all’ultimo che ha parlato e di fronte a questo servitore che intercede per Geremia gli dà l’incarico – ma di nascosto – di andarlo a tirare su il profeta. L’aiuto arriva, anche da dove non se lo aspettava! Il Signore interviene in qualche modo, ha le sue strade per tirarci su dal pozzo dell’angoscia.
Ci sentiamo conosciuti da Dio, capiti e sostenuti. Gli chiediamo aiuto, gli chiediamo il coraggio di essere fedeli, di continuare ad essere cristiani convinti anche in fondo al pozzo, anche nell’angoscia.
Stiamo dalla parte di Gesù, chiediamo il suo aiuto perché vinca la nostra angoscia, non ci lasciano spaventare, non ci lasciamo cambiare nelle nostre scelte fondamentali; aderiamo al Signore Gesù con coraggio, anche se costa, sapendo che il Signore viene in nostro aiuto e ci tira su, non ci abbandona.
Preghiamo per tutte le persone che sono nell’angoscia: facciamoci carico dell’angoscia del mondo, di tante persone che soffrono in fondo a pozzi esistenziali e alziamo la nostra voce a loro favore, in loro difesa, per supplicare un intervento divino che ci salvi e ci liberi. Confidiamo in questa potenza che libera
dall’angoscia e con coraggio corriamo verso la meta.

Maria Assunta è figura dell’umanità redenta chiamata alla gloria

In Adamo tutti muoiono, ma in Cristo tutti riceveranno la vita. Però ognuno al suo posto: prima Cristo che è la primizia. Cristo è la fonte della nostra risurrezione, è il primo dei risorti, il primogenito della creazione nuova e uniti a Lui anche noi possiamo sperare la risurrezione che è annunciata per quelli che sono di Cristo. Chi più di Maria è di Cristo? La beata Vergine Maria, che lo ha accolto con grande fede e ha dedicato a Lui tutta la sua vita, partecipa in pienezza della risurrezione di Cristo e al momento della sua morte non rimane nella tomba, ma viene glorificata nel corpo e nell’anima: anche il suo corpo infatti è risorto ed è salito al cielo. Con questa solennità celebriamo la gloria di Maria come primizia dell’umanità redenta. In lei vediamo quello a cui noi siamo destinati, in lei viene glorificata la natura umana. Quella «donna vestita di sole», che il profeta Giovanni ha contemplato nell’Apocalisse, è l’umanità secondo il progetto di Dio. Maria realizza in sé il progetto che Dio ha sull’umanità. Contemplando Maria nella gloria riconosciamo il segno e l’anticipo di ciò a cui siamo chiamati noi, in lei vediamo la gloria della nostra umanità, la dignità del nostro povero corpo, il valore incomparabile della persona umana, trasformata dalla grazia e destinata alla gloria. Maria è l’Umanità, perché rappresenta la redenzione della umanità. Lei è creatura concreta, non un’idea, che veramente è stata redenta; e nel grandioso movimento ascensionale noi contempliamo la nostra natura umana che tende all’alto, che diventa gloriosa, che sale nella gloria.
Ognuno di noi vede in Lei il progetto che Dio ha su ciascuno e vi riconosce la propria figura.
Ancora una volta Maria rappresenta la nostra umanità: nella sua nascita noi vediamo la nostra nascita, nella sua morte gloriosa noi vediamo in anticipo la nostra futura morte.
È un invito a sollevare lo sguardo, ad alzare il livello, ad innalzare il cuore e a comprendere la dignità della nostra persona nonostante tutte le difficoltà, le sofferenze, le angosce che dobbiamo attraversare.
La nostra natura umana è destinata alla gloria, il nostro corpo è portatore di una dignità divina: siamo chiamati a salire in alto, siamo destinati alla gloria … non dimentichiamocelo! Ripensiamoci proprio nei momenti di difficoltà: quando siamo giù, è allora che dobbiamo guardare questo movimento che ci invita a guardare in su. La beata Vergine Maria è la primizia dei risorti … quello che è capitato a lei capiterà a noi. È il segno della nostra dignità. Lasciamoci attirare in questo movimento ascensionale, andiamo in alto, tendiamo alle cose migliori, guardiamo alla grande bellezza che ci sta davanti e ci attende nel futuro.

San Massimiliano Kolbe

San Massimiliano Kolbe, nato nel 1894 in Polonia, è una figura straordinaria di eroismo e santità cristiana. La sua vita è stata segnata dall’amore per Dio e per il prossimo, culminato in un atto di sacrificio che lo ha reso un eroe della fede. 
Fin da giovane, Massimiliano manifestò un profondo amore per la Vergine Maria e un grande desiderio di servire Dio. Divenuto frate francescano, durante gli studi di teologia a Roma fondò la Milizia dell’Immacolata, un movimento che si dedica a diffondere la devozione mariana e a combattere il male con l’amore.
Il profondo ardore missionario lo portò a fondare varie opere di evangelizzazione, in particolare attraverso l’editoria, sia in Europa che in Asia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Massimiliano fu imprigionato ad Auschwitz. 
Fu qui che, in seguito alla fuga di un prigioniero, le guardie del campo selezionarono casualmente dieci prigionieri da far morire per rappresaglia. Uno dei condannati, essendo un padre di famiglia, supplicò di essere risparmiato, e Massimiliano, con un atto di vero eroismo, si offrì di prendere il suo posto. Massimiliano fu così condannato a morire di fame in un bunker sotterraneo. Nonostante la fame e la sete, continuò a pregare e a confortare i suoi compagni di prigionia. La sua morte eroica (avvenuta nel 1941) è stata un esempio straordinario di amore e sacrificio, testimoniando il suo totale abbandono alla volontà di Dio e la sua dedizione ai fratelli. 
San Massimiliano Kolbe ha incarnato l’amore disinteressato e l’offerta di sé per gli altri.