La comunità parrocchiale accoglie il suo nuovo pastore don Gianmario Carenzi

Domenica 5 ottobre, la nostra Parrocchia accoglierà il nuovo parroco, don Gianmario Carenzi. L’appuntamento sarà alle 10.30 per la Santa Messa di insediamento. Don Gianmario svolgerà il ministero di parroco sia a San Fiorano sia a Corno Giovine e Corno Vecchio. Il 5 ottobre sarà anche l’occasione per ringraziare don Giuseppe Castelvecchio e per augurargli un fruttuoso cammino a Fombio e Retegno. Al termine della celebrazione, siete tutti invitati a un momento conviviale in oratorio. Ognuno potrà contribuire al rinfresco con alimenti o bevande. Vi aspettiamo numerosi per festeggiare don Gianmario.

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26 Domenica del Tempo Ordinario

“Uomo avvisato è mezzo salvato”. La sapienza dei proverbi ci ha insegnato questa massima con cui riconosciamo che essere preavvisati è quasi come essere già salvi: non è sicuro infatti che siamo salvi, e il proverbio collega all’avviso metà della salvezza. Chi è avvisato è mezzo salvato, non salvato del tutto! Sapere del pericolo ci può aiutare a evitare il pericolo, ma non è detto. È possibile che, pur sapendo di qualche cosa di negativo, non accogliamo quell’ammonimento e finiamo in quella situazione disgraziata. Vi è mai capitato in qualche occasione di dire: “Ci avessi pensato prima! Tornassi indietro farei diversamente”. Provate un po’ a pensare davvero a qualche esperienza che vi ha toccato nella vita in cui riconoscete che, se poteste tornare indietro, fareste diversamente … eppure nella maggior parte delle situazioni non si può tornare indietro. È un discorso per assurdo quello che facciamo – “potessi tornare indietro” – perché in realtà non posso tornare indietro: quello che ho fatto, resta fatto; se ho fatto uno sbaglio che ha avuto delle conseguenze, quelle conseguenze restano. Posso però imparare per il futuro: dalla esperienza del mio sbaglio posso imparare a fare meglio da qui in poi. È quello che ci suggerisce la Scrittura. Noi leggiamo la Parola di Dio proprio per essere avvisati: quella parola che ci forma ed è “mezza salvezza”; l’altra metà dobbiamo mettercela noi con la nostra saggezza. Il senso della parabola che racconta Gesù sta proprio qui: bisogna pensarci prima, è inutile piangere quando i danni sono fatti; bisogna essere previdenti e pensare prima di fare qualche cosa di grave, perché poi le conseguenze vengono inevitabilmente; rimpiangere dopo di aver sbagliato non serve più! Quando Gesù racconta questa parabola si rivolge ai farisei come persone religiose che però non accettano la sua predicazione, e con questo racconto vuole dare a loro un serio avviso: “Attenti ad ascoltare davvero la mia Parola prima che sia troppo tardi perché, quando vi troverete nella situazione negativa, in quella condizione di inferno, sarà troppo tardi. Pensateci prima, pensateci adesso che avete possibilità di credere in Colui che è la vita e aderite alla sua rivelazione”. Il ricco mangione, che elemosina una goccia di acqua in mezzo a quella fiamma che lo tormenta, dice di avere ancora cinque fratelli sulla terra – che evidentemente sono del suo stesso stampo e si comportano come lui – e immagina che anche loro possano finire in quella disgrazia, perciò vorrebbe un miracolo, vorrebbe la carità di Lazzaro, che tornasse in vita a rimproverare i fratelli. Tante volte molte persone dicono che, se ci fosse qualche miracolo, qualche segno, qualche prodigio, sarebbe più facile credere. Gesù invece rifiuta questa idea. I miracoli non sono fatti per fare venire la fede, i miracoli sono riconosciuti dalle persone di fede e quelli che non hanno fede negano l’esistenza dei miracoli e non si accorgono del prodigio che avviene.
Il personaggio di Abramo nella parabola offre una risposta chiarissima: “Se non ascoltano la Bibbia, se non ascoltano la Parola di Dio attraverso Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. Gesù ha risuscitato un uomo che si chiamava proprio Lazzaro… ed è servito per convincere gli increduli? No. Dopo che Gesù ha richiamato dalla tomba il morto Lazzaro, i capi del sinedrio si sono radunati e hanno deciso di eliminarlo, addirittura hanno pensato di ammazzare anche Lazzaro, perché diventava un testimone scomodo e pericoloso.
Nemmeno la risurrezione di un morto può convincere chi non vuol credere.
Allora è importante ascoltare l’ammonizione che il Signore ci dà attraverso i profeti e gli apostoli.
La Parola di Dio che ci accompagna nella nostra vita è quell’ammonimento continuo, perché siamo noi quelle persone avvisate – sappiamo che cosa fare, sappiamo che c’è il rischio dell’inferno – è già mezza salvezza avere questa conoscenza. Non facciamo finta di niente, prendiamola sul serio finché siamo in tempo, prima che sia troppo tardi. Accorgiamoci del bene che c’è da fare e facciamolo: non domani, oggi; prima che sia troppo tardi aderiamo al Signore con coerenza piena, per non dover dire un domani: “Ci avessi pensato prima!”. Abbiamo chi ci forma, ascoltiamolo; abbiamo la Parola di Dio, ascoltiamola e viviamo di conseguenza … e saremo tranquilli, in vita, in morte e oltre la morte.

L’avidità del denaro è radice di ogni male

«Tu uomo di Dio evita queste cose». Così le parole che l’apostolo Paolo indirizza al discepolo Timoteo. Ma fa riferimento a ciò che ha detto poco prima: che cosa deve evitare un uomo di Dio? Poco prima l’apostolo ha detto: «L’avidità del denaro è la radice di tutti i mali. Presi da questo desiderio alcuni hanno deviato nella via della fede e si sono procurati molti tormenti. Tu, uomo di Dio, fuggi queste cose». Queste cose da fuggire sono l’avidità del denaro, la voglia di possedere, l’attaccamento ai beni terreni ed è questo – dice l’apostolo – che costituisce la radice di tutti i mali. Non è questione l’essere ricchi, il problema è voler avere di più, è la bramosia, la voglia di possedere, di dominare e di tenere. Quando c’è questa voglia di fondo tutto il resto diventa meno importante. È possibile che anche persone di fede, uomini di Dio, siano presi dall’avidità del denaro… è possibile che anche noi abbiamo questa radice; perciò, l’apostolo ci invita a combattere «la buona battaglia della fede». Non adopera proprio il termine battaglia intesa come linguaggio militare, adopera piuttosto il linguaggio sportivo, sarebbe come dire: “Impegnati in questa bella gara”.
La nostra vita spirituale è una gara, un agone sportivo, un impegno che chiede allenamento, esige lavoro, esercizio, costanza per combattere quella radice di peccato che può rovinare la nostra vita. La parabola che Gesù presenta mostra come quel ricco, che vestiva di porpora e di lino finissimo e mangiava in modo abbondante senza occuparsi di altro, alla fine si trova nel tormento di una fiamma che lo consuma e desidera una goccia d’acqua … lui che aveva negato le briciole al povero Lazzaro. C’è una contrapposizione dolorosa fra il prima e il dopo, c’è un cambiamento drastico! Infatti, colui che prima desiderava le briciole alla fine si trova seduto alla destra del capofamiglia e viene consolato; invece, quello che mangiava a crepapelle alla fine manca di una goccia di acqua e non la ottiene e non la può ottenere … ha perso tutto, si è rovinato con la sua avidità, per sempre.
È un esempio che il Signore ci propone ed è la strada che l’apostolo ci insegna a percorrere: “Combatti la buona battaglia della fede, impegnati in questa bella gara della tua vita a combattere quei desideri cattivi che sono presenti nel tuo cuore”.
E come si combatte l’avidità? Con la generosità. Chi ha voglia di tenere, combatte contro di sé impegnandosi a dare. È questo il combattimento buono: andare contro quell’istinto cattivo che ci può portare in tante direzioni – ma in questo momento riflettiamo solo su un aspetto – e l’avidità fa parte un po’ di tutti i cuori, perché è uno dei vizi capitali, è una radice di peccato.
La voglia di prendere e la brama di tenere impedisce di vedere il resto, impedisce di amare i fratelli, perché attira tutto a sé e trattiene; è pertanto una fonte di rovina, perché ci si illude che le cose, i possedimenti, le ricchezze diano pienezza di vita e invece la svuotano, rovinano la vita e nell’eternità portano alla catastrofe completa.
Il Signore Gesù ci mette davanti una scena di inferno, con uno che non pensava mai più di andarci e, quando ci si trova, resta sgomento! Glielo avevano detto Mosè e i profeti che c’è il rischio di rovinarsi, ma non li aveva presi sul serio. Noi che siamo saggi, uomini e donne di Dio, evitiamo queste cose! L’apostolo conclude ancora invitando il discepolo Timoteo, che è stato lasciato come pastore della Chiesa: “Raccomanda ai ricchi di non insuperbirsi, di non illudersi, di non porre, cioè, le loro speranze nei beni della terra che sono transitori e non danno sicurezza. Raccomanda a tutti di arricchire in opere buone”. Ecco, questo è il desiderio che dobbiamo coltivare: arricchiamo in generosità; diventiamo ricchi di gesti buoni, di attenzioni, di generosità. Questa è la vera ricchezza che ci fa attenti agli altri, soddisfa la vita adesso e la rende bella nell’eternità. Siamo saggi, evitiamo quella radice di ogni male che è l’avidità del denaro, arricchiamo in opere buone.

Tutta la vita di san Pio è stata un soccorrere il dolore del mondo

Martedì 23 Settembre facciamo memoria di un santo che è diventato universale: San Pio da Pietrelcina. Questo piccolo è semplice frate Cappuccino è diventato un compagno di viaggio per migliaia di uomini e donne che in lui hanno trovato un’intercessione, una guida, uno strumento di conversione, un’esperienza di misericordia. Eppure egli avrebbe desiderato passare tutta la sua vita nel totale nascondimento, ma gli è toccato in sorte stare sul palcoscenico della storia guardato da tutti, esaltato e accusato con la stessa intensità. Lui si definiva soltanto “un povero fraticello che prega”, ma la povertà di questo frate è tutta nella ricchezza del suo amore per Cristo.
Non a caso è stato il primo sacerdote Santo stigmatizzato nella storia della Chiesa. Quei segni della passione non erano su di lui come semplici segni di sofferenza, ma come testimonianza del suo totale essersi conformato a Cristo. San Pio ha amato da morire la gente che a lui si è rivolta, e per essi ha offerto e sofferto tutte le pene possibili pur di guadagnarli a Cristo.
Non è santo perché aveva le stimmate, ma è santo per come ha amato.
Tutta la sua vita altro non è stata se non una lunga spiegazione del Vangelo.
Infatti quest’uomo ha cercato di vivere la propria vita spalancando se stesso a tutto l’amore di Dio fino al punto di voler essere associato alla stessa passione di Cristo. L’amore vero desidera la condivisione totale della vita dell’altro. San Pio ha passato la vita amando ciò che amava Cristo. E che cosa amava Cristo? I peccatori, i poveri, gli afflitti, i disperati, i malati.
Tutta la vita di San Pio è stata un soccorrere il dolore del mondo che ha incontrato.
È così che si spiega il lungo apostolato nel confessionale, gli innumerevoli miracoli anche nelle piccole cose della vita della gente, e in fine il desiderio di un ospedale che fosse sollievo per la sofferenza di molti.
“Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza”.

San Matteo: vivere in maniera degna della chiamata

Che cosa ha lo sguardo di Gesù Cristo che cambia radicalmente il cuore, lo trasforma, lo guarisce!
Gesù attraversa le viuzze di Cafarnao e va deciso là dove lavora Levi, il pubblicano, l’esattore delle imposte per i romani, l’uomo odiato dai suoi stessi concittadini, il disprezzato, il traditore.
Si ferma, non ha fretta, e lo guarda. Con quegli occhi misericordiosi, come nessuno lo aveva guardato prima. E gli aprì il cuore, lo rese libero, lo guarì, lo riempì di speranze.
In quegli occhi Levi vide lo sguardo di Dio che vede ben oltre quel che vedono i nostri occhi.
Oltre le apparenze, i nostri peccati, le nostre sconfitte, la nostra indegnità. In Levi Gesù vede Matteo. Vede la sua storia di amore, di servizio, di donazione, di fedeltà, di felicità.
Anche oggi, ogni giorno, Gesù vuole fissare il suo sguardo su noi. “È l’attesa di Dio, che ci ama, ci cerca, ci accetta come siamo: con i nostri limiti, i nostri egoismi, la nostra incostanza; e tuttavia capaci di scoprire il suo amore infinito e di darci a Lui interamente”. Anche noi, che siamo seduti al nostro banco, cercando di essere felici alla nostra maniera, accumulando tempo e beni per noi stessi, incapaci di darci agli altri, stanchi di veder passare i giorni senza avere il coraggio di rischiare.
L’incontro di Gesù con Matteo ci interpella e ci chiede fiducia: se Gesù ha potuto trasformare un esattore in un servitore, un traditore in un amico intimo, può anche trasformare noi, peccatori, in figli di Dio, in suoi amici intimi. Perciò dobbiamo fare come Matteo: sentirci in pericolo, malati, bisognosi di quello sguardo che infonde speranza perché vede in ciascuno, peccatore, l’uomo sognato da Dio.
Entrare nel cuore di Matteo
Dobbiamo entrare nel cuore e nella mente di quest’uomo, immedesimandoci fino in fondo in lui, e cercare di capire i suoi sentimenti profondi. Come si sarà sentito lui – pubblicano e perciò odiato dalla gente comune e considerato un peccatore dai responsabili religiosi del tempo – raggiunto dalla chiamata di Gesù? Proprio a lui: la persona meno degna e raccomandabile, la più lontana e irraggiungibile… lui che aveva altro per la testa, che pensava di aver già deciso definitivamente come portare avanti la sua vita… Si sarà chiesto «perché proprio io?» L’esperienza l’ha aiutato a capire in prima persona, sulla propria pelle, le parole di Gesù risuonate proprio in casa sua: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati… Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». Il pubblicano è oggetto della cura e della misericordia di Dio, colui che Gli sta più a cuore di tutti, il Suo tesoro più prezioso, come la pecorella smarrita per il pastore.
Ripensare alla propria chiamata
È quello che siamo chiamati a fare anche noi di fronte all’esortazione di Paolo: vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto… Comportarci in maniera degna della chiamata che abbiamo ricevuto, significa partire dalle stesse domande che si è fatto Matteo:
· Chi sono io perché il Signore abbia chiamato proprio me? Che meriti avevo? Nessuno!
È un senso di smarrimento, stupore e gratitudine infinita nei confronti di Dio che ci deve guidare.
A tal riguardo, ci può venire in aiuto un altro passo di san Paolo: Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti… Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole… per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato… quello che è nulla… per ridurre al nulla le cose che sono (cfr. 1Cor 1,26-29).
Dio ci ha scelti e chiamati non già in base ai nostri meriti, ma solo ed esclusivamente per la Sua infinita misericordia, e per confondere il mondo, i “sapienti” e i “forti”.
Non un dovere ma una risposta
Allora l’umiltà, la dolcezza e la magnanimità, il sopportarci a vicenda nell’amore avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace non sono un dovere, ma una risposta alla chiamata del Signore, alla grazia che ci è stata data secondo la misura del dono di Cristo. È un bagno di umiltà quello che dobbiamo fare, e da cui deve nascere una gioiosa riconoscenza, così da edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

25 domenica del Tempo Ordinario

La prudenza è al centro della parabola di Domenica 21 Settembre, provocatoria che riguarda il modo di gestire il denaro. La prudenza è una virtù, cardine della nostra umanità, ed è la saggezza pratica, la capacità di scegliere bene i mezzi per raggiungere il fine voluto. È prudente non uno che non fa le cose per paura, ma le fa con intelligenza e cerca di fare le cose giuste per ottenere l’obiettivo a cui intende pervenire. La prudenza riguarda anche l’uso del denaro e al centro della Parola di Dio in questa domenica c’è proprio l’economia: ci è chiesta prudenza, cioè saggezza pratica, nell’usare i mezzi economici. Non ci è detto di lasciare tutto, perché non sarebbe possibile: lo fa qualcuno in una forma profetica, ma non è la condizione abituale. Ci è stato detto nelle domeniche precedenti che dobbiamo distaccare il cuore dalle cose terrene: questo sì è quello che dobbiamo fare! Pertanto la prima prudenza è quella di distaccare il cuore dai soldi, perché il pericolo fondamentale è amare troppo i soldi, adorarli come una divinità, vivere per accumulare denaro. Questo è un atteggiamento sbagliato – è stolto – è l’atteggiamento che non porta a raggiungere l’obiettivo, ma rovina la vita, perché non possiamo servire il Signore e la ricchezza. I soldi sono necessari e lo sappiamo bene, servono: servono perché sono dei mezzi, servono perché sono dei servi, non dei padroni. Il problema è grave quando i soldi diventano i nostri padroni e ci fanno fare di tutto pur di averli. Pensate quante azioni disoneste vengono compiute nella nostra società – a piccolo livello e a grande livello, in tutte le sfere della società – per fare soldi. Dietro un’infinità di azioni disoneste c’è il motivo economico: tutte le truffe, gli inganni, le sofisticazioni alimentari, nascono dal desiderio di fare più soldi, di guadagnare di più; e per ricavare maggior profitto bisogna ingannare, commettere ingiustizie, pagare meno i lavoratori, scegliere materiale più scadente e così via. Perché si sceglie di pagare meno l’operaio, di usare materiale scadente, di vendere anche qualche cosa di scaduto e di pericoloso? Perché si vuole guadagnare di più e per ottenere qualche cosa che riteniamo buono – i soldi – si fa qualcos’altro che si ritiene meno importante: il danno a una persona o a molte persone. Chi mette in second’ordine tutte queste realtà buone, ritiene più importante guadagnare tanti soldi. Questo è il quadro negativo che il Signore ci mette davanti. Non è automatico che il ricco sia malvagio, ma per fare la ricchezza bisogna avere il pelo sullo stomaco – diciamo – mettersi la coscienza sotto i piedi, bisogna chiudere gli occhi e schiacciare quel che c’è da schiacciare pur di raggiungere l’obiettivo. Il Signore ci chiede invece di essere prudenti, persone sagge che sanno valutare bene i mezzi, comprendendo bene che il fine non sono i soldi, ma la relazione buona con il Signore, il fine della nostra vita è la relazione con le persone. Il senso della nostra esistenza è la collaborazione, la concordia, l’amicizia: sono queste le cose che contano! È questo l’obiettivo a cui tendiamo! E i soldi possono servire per creare amicizia, per creare buone relazioni; ma si tratta di riconoscere con prudenza – cioè con sapienza pratica – che i soldi sono dei mezzi e devono essere utilizzati bene per raggiunger un altro fine. Perciò il Signore loda quell’amministratore di un patrimonio disonesto perché è venuto incontro a dei poveri contadini che avevano debiti enormi con quel padrone latifondista; è venuto incontro alle loro esigenze e ha ridotto quello che dovevano, ci ha rimesso la propria commissione, non ha investito sui soldi ma sulle relazioni umane, in modo tale che quelle persone diventassero amici e con riconoscenza poi avrebbero potuto aiutarlo.
È questa dinamica interpersonale che è importante: i soldi servono per creare amicizia, per creare legami buoni. Domandiamoci allora seriamente: “Come io uso i soldi? Quanto voglio bene ai soldi? Li riconosco dei mezzi e per fare cosa? Per godermi io semplicemente la vita o per aiutare anche gli altri?”. Sono domande significative. Il Signore ci pone una questione seria: “Come adoperi il denaro? Ami il Signore più dei soldi o sei un servo dei tuoi soldi?”. La risposta la dà ciascuno di noi e la dà crescendo, maturando, non rimanendo come è, ma diventando come deve essere: “Posso fare meglio, posso usare meglio i soldi che ho a disposizione”. In questa situazione sociale ci troviamo di fronte ad una possibile carestia. Stiamo cominciando a vedere la carenza di materiale e l’aumento enorme dei prezzi. Non sappiamo dove andremo a finire con questa situazione e rischiamo di trovarci in una situazione davvero complicata, dove quelli più deboli saranno i primi ad avere difficoltà – sembra un ritornello comune della politica e dei notiziari televisivi – per l’aumento delle bollette … ma ce ne siamo accorti tutti nel nostro piccolo. Come risolveremo certe situazioni? Sarà proprio necessario, in un contesto del genere, come abbiamo ragionato in modo comunitario nella epidemia, mettere in moto le forze cristiane in una situazione di carestia, di difficoltà economica, per sviluppare un vero impegno comunitario per l’aiuto sociale. La nostra fede nel Signore Gesù non si può esaurire in un discorso teorico, astratto, devoto, ma deve diventare cooperazione, collaborazione, solidarietà, dove ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa per aiutare gli altri. Chiediamo al Signore che ci illumini l’intelligenza per capire e che ci riscaldi il cuore per essere generosi, per usare bene le cose che abbiamo, per usarle in modo generoso. Questa è la prudenza: vogliamo raggiungere il fine che è la beatitudine eterna? Usiamo bene le cose che abbiamo su questa terra per ottenere la vera felicità.

Arrivederci don Giuseppe

È il momento di salutare don Giuseppe Castelvecchio, pastore e guida della nostra comunità cristiana per sei anni. Non è stato un inizio facile. Arrivò a San Fiorano alla vigilia della pandemia, che ha cambiato profondamente il mondo e le nostre abitudini. Ma, appena è stato possibile, don Giuseppe ha creato legami solidi con tutti i fedeli e, in particolare, con i collaboratori della parrocchia. Disponibile, pronto alla battuta, dalla fede profonda, don Giuseppe è diventato presenza amica e punto di riferimento per tutta la nostra comunità. Con lui la mamma Pina, che discretamente ha accompagnato il nostro pastore. Ora per don Giuseppe è il tempo di accogliere il nuovo incarico a Fombio e Retegno. Diverse vicissitudini hanno fatto sì che la sua presenza tra noi sia stata forse più breve del previsto, ma ciò che è stato seminato frutterà con la guida del nuovo parroco, don Gianmario Carenzi. L’ingresso in parrocchia del sacerdote è previsto per domenica 5 ottobre. Vi aspettiamo per dargli un caloroso benvenuto.

Beata Vergine Maria Addolorata

Se l’amore è ciò che rende la vita veramente umana, è vero anche che l’amore è un dono che rende vulnerabili. Infatti se tu ami qualcuno allora la vita di quel qualcuno nel bene o nel male ti riguarda. La sua gioia sarà la tua gioia, e il suo dolore sarà il suo dolore.
È questo forse il significato che è nascosto nella festa di oggi: la Beata Vergine Maria Addolorata.
Il dolore che Maria prova è la testimonianza che ama Gesù. Soffre perché non può restare indifferente davanti alla sofferenza di Suo Figlio. L’amore che ha per Lui la rende vulnerabile.
Ed è qui la cosa che ci lascia senza fiato: Maria pur sperimentando questa lancinante sofferenza, non indietreggia. Lo dice bene la pennellata del Vangelo di Giovanni: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala”.
Lì dove c’è il Figlio, lì c’è la Madre. Non fugge, non si nasconde, non evita, non edulcora.  
Maria si espone al dolore perché non vuole smettere di amare Suo Figlio Gesù.
Ecco allora che questa festa non è la festa del dolore di Maria, ma del Suo coraggioso Amore che non indietreggia neppure davanti al dolore. È a Lei quindi che dobbiamo chiedere di aiutarci a saper vivere così, ad amare così, a non indietreggiare davanti alla vita concreta di chi amiamo. Ecco perché il discepolo Giovanni si accaparra l’affare più importante di tutta la vita: “E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”.
Avere con sé Qualcuno che ama così non può non essere un affare perché si può star certi che nell’ora della prova non ci lascerà mai soli.

Esaltazione della Santa Croce

“Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Sì, Dio ha tanto amato e ama il mondo, perché sa che gli uomini e le donne spesso si perdono seguendo se stessi, le proprie inclinazioni, il proprio istinto, le proprie abitudini. Senza il Signore ci perdiamo. Questa croce antica, come ogni croce, sta davanti a noi, come in ogni luogo di preghiera dei cristiani. Essa ci ricorda il dono di una vita, quella del Figlio di Dio, che si è umiliato, abbassato fino a noi, per mostrarci in maniera ancor più visibile il volto misericordioso e amorevole del Padre. Il tempo della sua vita terrena non era più facile del nostro. Guerre, violenza, ingiustizia, erano di casa anche nel grande e potente Impero Romano.
Gesù incontrava spesso ammalati, bisognosi, scartati, disprezzati, peccatori. Le sue parole e i suoi gesti volevano far sentire a tutti quella presenza buona di Dio, che guarisce e salva.
Oggi vorrebbe farla sentire anche a noi, che a volte ci intristiamo, ci lamentiamo, ci lasciamo sopraffare dalla paura che ci fa chiudere e abbassare lo sguardo. Per questo la croce sta davanti a noi.
Alza gli occhi, guarda le ferite di quel crocifisso, la sua sofferenza. In essa è racchiusa anche la tua sofferenza, ma si racchiudono anche le sofferenze del mondo intero: quelle degli uomini e delle donne, dei giovani, dei bambini, degli innocenti in guerra; quelle dei profughi che fuggono violenza e povertà; quella di chi tra loro non ce l’ha fatta; quelle dei malati e degli anziani soli negli istituti o a casa, quelle di chi vive il peso sociale ed economico; ma anche quelle di tanti ragazzi e giovani disorientati. Nello sguardo sofferente di quel crocifisso intravediamo la speranza della resurrezione, di una vita che risponde al male del mondo, anche a quello che appare invincibile, come la morte. Allora non ti lasciare andare. Non farti trascinare dalla tristezza o dalla rabbia. Chi lo fa, trascina gli altri nell’abisso dell’inimicizia e dell’odio. Il popolo di Israele era nel deserto, si lamentò per la fatica di quella traversata perché mancava il necessario, cibo e acqua, ma il Signore venne in suo soccorso. Ma dovettero alzare lo sguardo verso quel serpente che rappresentava la vita, per continuare a vivere. Non continuiamo a tenere gli occhi bassi, se sentiamo anche noi la fatica di questo tempo un po’ arido come il deserto, dove ci sembra a volte manchi il necessario. Fai almeno la fatica di non guardare solo a te. Guarda verso quel crocifisso, che ha donato la vita per te e per il mondo, perché non andiamo perduti. Nel suo dono di amore c’è la vita. Perché allora continui a perderti dietro te stesso? A volte l’egoismo ci prende e ci perdiamo. Non siamo soli! Siamo il suo popolo, la sua comunità.
Il Signore vorrebbe che cominciamo a gustare il suo dono di vita già su questa terra. Ma devi seguirlo, ascoltarlo, pregare, meditare la sua parola, saziarti del pane di vita eterna, l’Eucaristia. Sii allora anche tu un dono di amore, di simpatia, di gentilezza in un mondo rude, arrabbiato, pieno di indifferenza e di superbia. E poi prega!

Santissimo Nome di Maria

Nel giorno 12 di settembre la Chiesa celebra la memoria del santo Nome di Maria (Miryam in ebraico), nome che racchiude un vero scrigno di significati, che lungo i secoli sono stati interpretati da grandi autori e che riflettono le altissime qualità e i singolari privilegi concessi da Dio alla Sua Santissima Madre.
Il nome, che viene dato a ciascuna persona, racchiude sempre in sé un particolare significato.
Nella Sacra Scrittura, precisamente in Genesi 2,18-20, leggiamo che Dio fece “sfilare” davanti ad Adamo tutti gli animali creati: il primo uomo, dopo aver osservato ciascuno di essi, determinò come doveva essere chiamato, dando un nome che definisse quella creatura, una parola che potesse racchiudere in sé il significato più profondo della sua natura, la quale rifletteva particolari aspetti della perfezione infinita di Dio.
È molto bello pensare questo anche per ciascuno di noi: creati a immagine e somiglianza di Dio, riflettiamo, con i doni e le caratteristiche che Dio ci ha donato, alcuni aspetti della Sua infinita perfezione. Se ogni creatura riflette la perfezione di Dio, quanto più nel nome di Maria Santissima sono racchiuse tutte le grazie di cui Dio l’ha ricolmata! La Santissima Vergine fu chiamata Maria e fu concepita senza peccato originale, perché destinata a essere la Madre del Verbo di Dio, che si incarnò nel suo seno. Così, il nome di Maria significa non uno, ma un insieme di aspetti infinitamente perfetti di Dio, che Lei rappresenta in modo speciale. I Padri della Chiesa hanno tanto meditato e scritto sul nome di Maria. Sant’Alberto Magno afferma, a esempio, che questo nome significa “Mare amaro”: mare, che viene rammentato come simbolo di Maria Santissima per la sua immensità di grazie e virtù; ma anche perché la sua vita fu uno specchio della vita del Signore, amara e piena di dolori. Significa anche “Stella del mare” e proprio in riferimento a questo titolo si trovano il maggior numero di scritti dei Santi. Esaltando il nome di Maria, diamo gloria a Dio: quando glorifichiamo il nome di Maria, glorifichiamo il senso più profondo della sua persona e pertanto glorifichiamo lo stesso Dio, lodandoLo nella persona della Sua Madre amatissima.
La festa della Madonna del Rosario (7 ottobre) è legata alla battaglia di Lepanto (1571), combattuta contro le forze navali islamiche. Anche la festa del Santissimo Nome di Maria trae la sua origine da un avvenimento storico: la grande vittoria contro i musulmani nella Battaglia di Vienna (1683).
Della vittoria, riportata sui turchi, il re polacco inviò subito notizia al Papa Innocenzo XI: il trionfo di un esercito, numericamente assai inferiore a quello del nemico, fu attribuito all’intercessione di Maria Santissima; e, in memoria di questo avvenimento, il Papa istituì la festa del Santissimo Nome di Maria. In seguito, questa ricorrenza fu estesa a tutta la Chiesa, inserita nel Calendario Romano e fissata per il 12 settembre dal Papa Pio X.
Dobbiamo riconoscere come veramente il nome della Santissima Vergine Maria ci salva da ogni pericolo. Invocando il Suo Nome, siamo tutelati dal rischio di peccare, dalle tentazioni che ci inducono al male e da tutte le difficoltà. Davanti a qualsiasi sofferenza umana, di fronte agli avversari e ai pericoli che incontriamo sul nostro cammino, invocare il nome di Maria Santissima ci fortifica e fa crescere in noi una grande fiducia nel Signore.