Dalla morte verso la Vita

«Ammettili a godere la luce del tuo volto».

La liturgia non ha pianti, perché ciò di cui essa fa memoria non è la morte, ma la speranza della risurrezione. La liturgia non ha lacrime, se non asciugate dalla mano di Dio, perché essa non è memoria della lacerazione, ma profezia di futuro, di nuova comunione. «Se tu fossi stato qui mio fratel-lo non sarebbe morto». La fede generosa di Marta, sopraffatta dell’emozione, si sbaglia. È quello che pensiamo anche noi: in questo mio dolore, dov’è Dio? Se Dio esiste, perché tanti morti innocenti? Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno… E invece Dio è qui, sempre, ma non come esenzione dalla morte. Gesù mai ha promesso che i suoi non sarebbero morti. Per lui il bene più grande non è una vita lunghissima, un infinito sopravvivere. Per Gesù l’essenziale non è il non morire, ma il vivere. E il vi-vere una vita risorta (Pozzoli). L’eternità è già en-trata in noi, entra in noi molto prima che accada, entra con la vita di fede, con i gesti del quotidiano amore. Il Signore ci insegna ad avere più paura di una vita sbagliata che non della morte. A temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultima fron-tiera che oltrepasseremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere. La vita eterna è la cosa più seria e più forte che Gesù ha preparato per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall’amore di Dio (Rom 8,35-37). Que-sta certezza mi basta. Se Dio è amore, mi vendiche-rà della mia morte. La sua vendetta è la risurrezio-ne, un amore mai più separato. Dio salva, è il suo nome. Salvare significa conservare. E nulla andrà perduto, non un affetto, non un bicchiere d’acqua fresca, neanche il più piccolo filo d’erba. Una pre-ghiera per i defunti, forse la più bella, invoca: am-mettili a godere la luce del tuo volto. I verbi della fede (adorare, lodare…) cedono ad un verbo umile e forte, inerme ed umanissimo: godere. La ragione cede alla gioia. La stessa fede cede al godimento. L’eternità fiorisce nei verbi della gioia, non nell’an-sia del ragionamento. Perché Dio, nella sua più in-tima essenza, non risponde al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità. Per lo spirito, ma anche per gli affetti, per il cuore, per gli occhi, per tutto il mio essere. L’esperienza dell’uo-mo dice che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che tutto va dalla morte alla vita. Dalla terra, dove nessun uomo può restare a vivere, le porte della morte conducono verso l’eterno Ma su che cosa si aprono i battenti di questa porta? Sulla Vita risorta!

(Ermes Ronchi)

Celebrando l’Eucaristia, questa settimana, al Cimitero, accanto alle tombe dei nostri cari, possiamo riscoprire l’essenziale

Mi viene sempre in mente l’immagine dell’ostrica e della perla che ci regala nei suoi testi Gustave Flaubert. Il grande scrittore francese aveva comparato il dolore alla perla dell’ostrica. E memorabili sono state le sue parole: “La perla è una malattia dell’ostrica eppure è una realtà infinitamente preziosa; il dolore è come un raffinamento di noi stessi, una più intensa e completa penetrazione nella nostra anima e nella realtà”. Penso che queste parole ci aiutino a comprendere come la sofferenza ci possa aiutare a crescere e ad “affinarci”».
Un appuntamento che ogni hanno ci vede riuniti come comunità cristiana celebrando l’Eucaristia al cimitero che può simboleggiare anche qualcosa di più.
Proprio come ci raccontano gli epitaffi de “L’antologia di Spoon River” dello scrittore statunitense Edgar Lee Masters. «Sostando di fronte alle tombe dei nostri conoscenti guardando le foto e leggendo la data di nascita e di morte ci dovremmo chiedere cosa dicono a noi oggi e quanto l’esempio delle loro esistenze – è la riflessione finale – ci possa aiutare ad essere dei cristiani migliori, ad essere meno incattiviti e distratti verso lo cose che veramente contano. Può rappresentare un buon esame di coscienza per la vita di ogni giorno. E così come direbbero gli antichi possiamo imparare a “morire a noi stessi” al nostro amor proprio e sostare in preghiera pensando solo all’essenziale».
Che tu vada al cimitero per pregare, riflettere o semplicemente onorare la memoria dei tuoi cari, ricorda che questo è un gesto di amore e gratitudine che non solo ci unisce a coloro che sono passati oltre, ma che ci ricorda anche la bellezza e la preziosità della vita umana.

Visita e Messe al Cimitero

Nel silenzio delle tombe, un rituale carico di significato e speranza per ricordare e meditare sulla vita e sulla morte. Nella complessità delle nostre vite, spesso evitiamo di affrontare il tema della morte, relegandolo nell’ombra del tabù o della paura. Tuttavia, la pratica di visitare il cimitero assume un significato profondo e poliedrico, che va oltre la mera commemorazione dei defunti. È un momento in cui convergono memoria, preghiera e riflessione, offrendo uno spazio tangibile per elaborare il dolore della perdita e celebrare la vita di coloro che sono passati oltre. In un mondo in cui la velocità e la superficialità spesso dominano, la visita al cimitero rappresenta un’opportunità unica per rallentare il passo e riflettere sulla fragilità e sulla bellezza della vita umana. È un momento di silenzio e contemplazione, in cui ci immergiamo nel ricordo dei nostri cari e ci confrontiamo con la nostra stessa mortalità.
Il cimitero non è solo un luogo di riposo per i corpi, ma anche un luogo di memoria e spiritualità.
Le tombe, adornate da croci e da fiori, diventano simboli tangibili della nostra fede nella risurrezione e nella vita eterna. Ogni croce è un testimone silente della speranza che trascende la morte, mentre i fiori, con la loro bellezza effimera, ci ricordano la brevità e la preziosità della vita terrena.
La pratica di adornare le tombe con fiori non è semplicemente un gesto estetico, ma un’espressione tangibile del nostro amore e della nostra devozione verso coloro che non sono più con noi fisicamente.
È un modo per onorare la loro memoria e per mantenere vivo il legame che ci unisce a loro.
Ogni fiore deposto sulla tomba è un’offerta di amore e gratitudine, un segno di continuità e di comunione con coloro che abbiamo amato e che continuiamo ad amare.

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Pensare alla morte è la cosa che ci riesce più difficile. Eppure ogni volta che perdiamo qualcuno che amiamo siamo costretti a scontrarci con la sua innegabile realtà. Il Vangelo non censura la morte e solo una lettura superficiale può pensare che il tema della risurrezione è uno stratagemma consolatorio per vincere l’angoscia che essa produce nel cuore dell’uomo. Infatti, Gesù non ci evita il passaggio della morte, ma semplicemente lo spalanca a una luce nuova. Israele ha cominciato a fare spazio alla possibilità della resurrezione molto tardi. E comincia a farlo non attraverso la convinzione che l’anima è immortale, ma attraverso una consapevolezza che man mano si va rafforzando: l’amore di Dio è così fedele da essere eterno. Ed è proprio perché questo amore è eterno che diventa il principio stesso della risurrezione. Dio ci ama fino al punto da non poter permettere che ognuno di noi vada a finire nel nulla, nel vuoto, nella semplice dissoluzione. Il suo amore è talmente grande che ci viene a raccogliere dall’abisso di questo finale inesorabile che segna la creazione. La modalità attraverso cui Dio attua questa redenzione è suo Figlio Gesù. Dobbiamo sempre pensare alla morte come un salto nel vuoto in cui Gesù ha la capacità di afferrarci al volo.
Senza di Lui avremmo ben ragione a essere disperati. Attraverso di Lui possiamo vivere e morire con immensa fiducia. Ma questa fiducia e questa luce non vengono da convinzioni personali, né tanto meno da ragionamenti convincenti. Essi sono un dono, il dono della fede.
Mai come oggi dobbiamo chiedere al Signore questo dono, perché solo esso vince la morte.

Una bella riflessione di Carlo M. Martini sulla speranza paragona la nostra esistenza allo spazio dove è contenuta, oltre a tante altre caratteristiche, limiti e virtù quella, appunto, della speranza che è paragonata ad “un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima; essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio, ed è appunto difficilmente descrivibile”.
Il Cardinale sottolineava che “la speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c’è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell’attenderlo. 
La vita umana è inconcepibile senza una tensione verso il futuro, senza progetti, programmi, attese, senza pazienza e perseveranza. Ma è pure intessuta di delusioni e quindi è permeata dalla speranza ma anche, a volte, dalla disperazione.
La speranza cristiana viene da Dio, dall’alto, è una virtù teologale la cui origine non è terrena.
Ci aggrappiamo ancora una volta a Gesù nostra speranza, che ci giudicherà come Salvatore di quanti hanno sperato in lui; come Colui che ha dato la vita morendo per salvarci dai nostri peccati; come Colui che ha uno sguardo misericordioso per coloro che hanno creduto e sperato, che sono stati battezzati nella sua morte e risorti con lui nel Battesimo, che gli sono stati uniti nel banchetto dell’Eucaristia, che si sono nutriti della sua Parola e riconciliati con lui nel Sacramento del perdono, che si sono addormentati in lui sostenuti dal sacramento dell’Unzione dei malati.
La speranza è, quindi, fin da ora la fiducia incrollabile che Dio non ci farà mancare in nessun momento gli aiuti necessari per andare incontro al giudizio finale con l’animo abbandonato in Colui che salva dal peccato e fa risorgere i morti”

Commemorazione di tutti i defunti

La liturgia non ha pianti, perché ciò di cui fa memoria non è la morte, ma la risurrezione. 
La liturgia non ha lacrime, se non asciugate dalla mano di Dio; essa infatti non pronuncia parole sulla fine ma sulla vita. «Se tu fossi stato qui mio fratello Lazzaro non sarebbe morto». Marta ha fede in Gesù, eppure si sbaglia. Così noi ripetiamo le sue parole e il suo errore: in questa malattia del mio familiare, dov’è Dio? Se Dio esiste, perché questa morte innocente? Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno… Invece Dio è qui, sempre, ma non come esenzione dalla morte. Gesù non ha mai promesso che i suoi amici non sarebbero morti. Per lui il bene più grande non è una vita lunga, un infinito sopravvivere; l’essenziale non sta nel non morire, ma nel vivere già una vita risorta. L’eternità è già entrata in noi molto prima che accada, entra con la vita di fede (chiunque crede in Lui ha la vita eterna), entra con i gesti del quotidiano amore.
Il Signore ci insegna ad avere più paura di una vita sbagliata che della morte. A temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultima frontiera che passeremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere.
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall’amore. Questo mi basta. Se Dio è amore, mi vendicherà della mia morte. La sua vendetta è la risurrezione, un amore mai più separato. Dio salva, questo è il suo nome. Salvare significa conservare. Per sua precisa volontà nulla andrà perduto, non un affetto, non un bicchiere d’acqua fresca, neanche il più piccolo filo d’erba. Una preghiera per i defunti, forse la più bella, invoca: ammettili a godere la luce del tuo volto. I verbi della fede cedono ad un verbo umile e forte, inerme ed umanissimo: godere. La ragione cede alla gioia, la fede al godimento. L’eternità fiorisce nei verbi della gioia. Perché Dio non è risposta al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità, lo è per i miei sensi, lo spirito, gli affetti e il cuore, per la totalità della mia persona. La nostra esperienza sostiene che tutto va dalla vita verso la morte.
La fede cristiana dichiara invece che l’esistenza dell’uomo va da morte a vita. Dal santuario di Dio che è la terra e dove nessun uomo può restare a vivere, le porte della morte conducono verso l’esterno.
Ma su che cosa si aprono i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita!

Commemorazione di tutti i defunti (1)

Ci fa bene, almeno una volta all’anno, essere messi di fronte alla nostra radicale povertà, fare i conti con la nostra vita, in cui è presente anche la morte. Non per cadere nella tristezza, nell’angoscia o nella paura, ma per ritrovare il vero senso della saggezza cristiana, che è colma di speranza.
Tutto questo ci induce, alla fin fine, ad un sano realismo: se troviamo il coraggio di guardare in faccia anche al momento oscuro e doloroso della morte, è perché siamo certi che con la morte non è finito tutto. Il nostro destino è la vita eterna. E la vita eterna comincia quaggiù grazie alla vita di Dio che, a partire dal battesimo, scorre già nelle vene della nostra esistenza. Un motivo in più, allora, per vivere bene questa esistenza che sfocia non in un sepolcro, ma nell’eternità.
Un motivo in più per fare di questo corpo, destinato ad essere trasfigurato dalla gloria di Dio, un riflesso continuo del suo amore e della sua tenerezza.

Nella pienezza di Dio

Parlare di vita eterna obbliga a fare i conti con “questa vita” e quindi con il suo senso, la sua direzione, la sua prospettiva; con il valore affidato al corpo, con una nozione specifica di vita morale, con quel passaggio obbligato da questa all’altra vita che è il momento della morte, con la valutazione della sofferenza, del sacrificio, della “perdita” connessa con un “bene” più grande. Se il cristiano di alcuni secoli fa aveva molto chiaro il fine della sua vita («andare in Paradiso») ed era disposto ad affrontare fatiche e disagi anche grandi pur di raggiungerlo, non si può dire altrettanto del cristiano comune di oggi. È prima di tutto una questione di prospettiva, di impostazione della propria esistenza. Sta avvenendo qualcosa di significativo e di preoccupante, anticipato dalla riflessione filosofica e dalle indagini sociologiche. Uomini e donne di oggi, anche credenti, stanno smarrendo il senso del “centro”, dell’“obiettivo”, della “direzione” della propria esistenza. È come se la vita si frantumasse in tanti pezzetti, ciascuno per conto proprio.
Una collana che ha tante perle, ma che ha perso il filo che le tiene unite. Una fede episodica, che attraversa esperienze anche significative, “forti”, ma non trova un legame solido e una direzione chiara.

Pregare per i morti

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.
La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

La morte non è più l’ultima realtà

La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.
La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

Commemorazione di tutti i defunti

Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità.
Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.
Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.

Pregare per i defunti

La preghiera di suffragio per i defunti non è una sorta di lamentela verso Dio affinché accorci l’eventuale pena di chi, attraversata la soglia, non è ancora in grado di accogliere la pienezza. Come se Dio, sommo ragioniere, tenesse una contabilità dei debiti da saldare e noi pagassimo una rata!

Se esistono dei legami fra le anime, la comunione fra i santi, allora possiamo sostenere il cammino dei nostri fratelli anche se sono già avanti, nel loro cammino di purificazione e di redenzione.

La preghiera per i defunti è la manifestazione del nostro affetto, del nostro riconoscimento, della nostra compassione. Tutto possibile nella logica d’amore di Dio, anche aiutare chi ci sta accanto, nella vita e nella morte, e compiere il suo cammino verso la pienezza della luce divina. La preghiera per i defunti, che si manifesta in particolare nella celebrazione dell’Eucaristia di suffragio, ha un grande valore perché coinvolge l’intera comunità eucaristica nell’incoraggiare i nostri fratelli defunti nel loro percorso di liberazione e di purificazione, per raggiungere, infine, la pienezza dell’Amore.