Dopo avere contemplato nel mistero del Natale il Verbo che si è fatto carne per rivelarci il vero volto di Dio e renderci partecipi della stessa vita divina, il giorno seguente la liturgia ci invita a rallegrarci per la nascita al cielo del suo primo martire secondo il Vangelo, il diacono Stefano. Egli appartiene a quella immensa schiera di testimoni che giunge fino ai nostri giorni.
Nel racconto del suo martirio ritroviamo tutto ciò che Gesù aveva predetto: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo”. Il Maestro aveva parlato chiaro e aveva dipinto ai suoi un quadro netto di ciò che si dovevano aspettare: denuncia ai tribunali giudaici e pagani, condanne alla tortura e alla pena capitale, tradimenti da parte dei familiari, odio generalizzato e feroci persecuzioni.
Con questa festa abbiamo l’occasione di constatare come in lui si realizzi in pieno la parola di Gesù: la persecuzione è occasione di testimonianza. Il libro degli Atti mostra con chiarezza come Stefano assuma nella morte gli stessi sentimenti del Crocifisso e ripeta perfino le stesse sue parole: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato” .
È così anche per la nostra testimonianza. Certamente essere testimoni della Parola che si fa carne significa condividerne la debolezza nella logica di una morte che dona la vita. Ma ciò che deve trasparire dalla nostra testimonianza è lo stesso sguardo di Stefano, uno sguardo che indica la meta della nostra vita, la comunione con il Signore Gesù, e che si trasforma in quella compassione che strappa il cuore dell’uomo alle tenebre del peccato.