Domenica della Divina Misericordia

Non si tratta di amare lo sbaglio, ma di essere fedele all’altro anche nel suo errore offrendogli uno spazio amico in cui la sua debolezza possa trasformarsi in forza.

Amare chi ha sbagliato vuol dire incoraggiare a sbagliare? Viviamo oggi dentro la cultura dell’intransigenza e della rigidità. Siamo cattivi e duri con chi sbaglia o con chi pensiamo abbia sbagliato. Si invocano con disinvolta facilità punizioni rigorose e anche la pena di morte. Non si crede che uno possa rialzarsi e rifarsi la vita. Non si sa il perché, ma noi siamo comprensivi con noi stessi, con i nostri errori e siamo cattivi con gli altri.

Pretendiamo comprensione, tenerezza, misericordia e poi riserviamo agli altri il giudizio pesante, l’ingenerosa esclusione. Se di fronte allo sbaglio uno è condannato e non trova perciò chi lo ama e crede ancora in lui, potrà egli risollevarsi e riprendere il cammino?

Il peccato nella Bibbia è indicato soprattutto come “sbagliare il bersaglio”. Il peccatore è uno che non raggiunge l’obiettivo, che non c’entra il bersaglio. Questo errore, consapevole o meno, gli impedisce di crescere e di costruirsi. Può l’uomo sentirsi persona in ricerca, senza ammettere di poter sbagliare? Può costruirsi, definirsi con una traiettoria lineare, progressiva, senza ammaccature o deviazioni? Gli sbagli, gli errori, non appartengono alla condizione umana, fatta di debolezza e di fragilità? Questi sbagli, o anche peccati, non possono trasformarsi in opportunità per individuare meglio l’obiettivo e capire di più la realtà e la vita?  Il giusto bersaglio non può chiarirsi attraverso vari tentativi a volte errati?

Se ci soffermiamo su Gesù osserviamo che il suo comportamento a questo proposito è illuminante. Mentre i farisei esigevano la conversione dei peccatori prima di salutarli e di parlare con loro. Gesù, invece, sta con loro, “mangia con loro” perché, amati, abbiano la forza di convertirsi. È l’amore che sprigiona un’energia creatrice capace di rovesciare le persone e le situazioni. Ritenere che una persona è più grande del suo sbaglio e che va amata anche dentro alla sua devianza, scatena e infonde una vigorosa volontà di riscatto. Non è la punizione che eliminerà il male e la cattiveria, ma una presenza amorosa e incoraggiante.Non si tratta di togliere le punizioni, ma queste devono essere mosse dall’amore: devono esprimere il giusto rimprovero per il male commesso, ma devono essere animate dalla speranza che ci potrà essere una rinascita perché la persona rimane sempre più grande del suo sbaglio. È un grande fraintendimento pensare che amare chi sbaglia o ha sbagliato significa amare o condividere lo sbaglio. Il papa Giovanni XXIII in una sua enciclica afferma: “Bisogna odiare il peccato, ma amare il peccatore”. Viviamo in una situazione in cui si verificano atti di feroce e incredibile violenza.

C’è in tutti una rabbiosa ribellione e una giustificata intolleranza. Il perdono sembra non soltanto una via debole nel fronteggiare i soprusi, ma addirittura la strada per incoraggiarli. A livello sociale e statale non è facile dosare le doverose leggi punitive con l’umano atteggiamento del recupero della persona. Il fatto che ci sia il rifiuto del perdono come modalità per ricomporre i dissidi, è una spia che ci fa capire che c’è un’idea non corretta di perdono. Possiamo pensare che Gesù abbia invitato al perdono per permettere il male e non come la via giusta per contrastarlo e sanarlo?

Don Giuseppe