“Magro nel corpo, obeso nella mente”
Dici “goloso” e pensi d’istinto al bambino che non sa resistere davanti a un gelato, a un vassoio di patatine fritte, a una torta cremosa. Il vizio conosciuto come “gola” andrebbe definito “voracità”, “ingordigia” o,secondo il termine greco “follia del ventre”. Per i padri orientali questa passione è significativamente la prima della lista: essa è “la porta di tutti i pensieri malvagi”. Ma perché riservare tanta attenzione all’atto del nutrirsi? Forse il vizio della gola, inteso come malattia dell’eccesso, andrebbe ridefinito e ridisegnato. Chi semplicemente eccede nel mangiare e nel bere sbaglia, ma non può essere considerato un pericoloso peccatore. Va chiarito che l’ingordigia non indica il piacere nel mangiare né tanto meno la capacità di gustare la buona qualità dei cibi. No, essa è “una brama di cibo non ordinata” (Tommaso d’Aquino), una voracità che stravolge il mezzo in fine: il cibo non è più inteso come uno strumento per vivere, per condividere e fare festa, ma come una sorta di fine in se stesso!
I veri insospettabili “viziosi”, piuttosto, siamo un po’ tutti noi quando contribuiamo, con i nostri comportamenti insensati, a uno dei grandi peccati sociali contemporanei, il colossale spreco di cibo acquistato e buttato via. “Goloso”, ossia “malato d’eccesso”, è chi magari appare in perfetta forma ma tiene il frigo stracolmo e butta via un sacco di cibarie. Magro nel corpo, obeso nella mente.
Lo strumento per eccellenza proposto dalla tradizione cristiana per lottare contro la voracità è il digiuno moderato, inscritto nel ritmo dei giorni della settimana o lungo lo svolgimento dell’anno, in particolare durante la quaresima. La pratica del digiuno non indica un disprezzo del cibo, né va intesa come una penitenza meritoria: “Vano è il digiuno senza carità, ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i fratelli”, avvertono i padri del deserto. Al contrario, il digiuno è una forma di rispetto originata da una sana presa di distanza dal cibo, è una disciplina del desiderio per discernere che cosa, oltre il pane, è veramente necessario per vivere. Sì, digiunare con coscienza di causa – e sempre nel segreto, senza ostentazione – può condurre a porsi le domande essenziali: perché mangio? Cosa mangio? Come mangio? Non è forse dopo aver digiunato nel deserto che Gesù ha sperimentato cosa significa che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”?
Non è infine casuale che l’eucaristia sia stata collocata da Gesù all’interno di una cena e accompagnata dalle parole: “Prendete e mangiate … prendete e bevete”. Non è facile apprendere l’arte umana del mangiare e del bere, ma Gesù ha scelto proprio queste due realtà come cifra della nuova alleanza. L’eucaristia dovrebbe dunque insegnarci anche questo: ci cibiamo del Corpo e del Sangue del Signore immettendoci in quella logica di dono e di comunione che sconfessa ogni voracità. E tutto avviene nel rendimento di grazie, nella confessione che ogni cosa proviene da Dio: il cibo è buono, ogni alimento è puro, ma occorre nutrirsene ringraziando Dio e condividendolo con chi è a tavola con noi. Davvero il rapporto con il cibo è l’ambito elementare in cui il cristiano è chiamato alla lotta essenziale: passare dalla logica del consumo a quella della comunione, così che anche l’atto di mangiare e bere renda gloria a Dio. Si può giungere a utilizzare il cibo come arma di ricatto emotivo, di autodistruzione, di invocazione d’aiuto. L’anoressia e la bulimia sono prima di tutto malattie dell’anima.
Accettare il cibo e accettarlo in giusta misura è un modo per accettare se stessi, per dire di sì alla vita, per nutrirsi anche nella relazione sana e arricchente con gli altri che il cibo permette di avere. Proviamo a misurare, a partire dal nostro rapporto con il cibo, quanto è grande il nostro bisogno di amore.