Gesù ci lascia la sua pace e ci rende artigiani di pace

«Vi lascio la mia pace». Gesù nel cenacolo, durante quella cena così importante che segna il vertice della sua vita, lascia in eredità ai suoi amici la pace: “Vi do come dono grande la pace, non come fa il mondo, ma in modo originale e nuovo”. Gli ebrei avevano, e hanno ancora, l’abitudine di salutarsi dicendo shalom, come gli arabi dicono salam, che vuol dire pace. È semplicemente una abitudine. Noi diciamo ciao, buongiorno, loro dicono pace … però dal dire al fare c’è una bella differenza. Si può dire tutto il giorno pace, pace e non fare la pace! È tragico pensare ad esempio che a Gerusalemme abitino due nazioni che si salutano dicendo pace tutto il giorno e facendosi la guerra da tanto tempo. Capita anche a noi di dire una cosa e di farne un’altra. Gesù invece dice e fa … per fortuna, di Lui ci possiamo fidare. Ci ha portato la pace e ci dà la capacità di essere persone di pace. Anche nel nostro piccolo possiamo costruire la pace. Facciamo la comunione con Gesù per essere capaci di vivere in pace. Per fare la pace bisogna anzitutto non litigare con nessuno; però capita talvolta di litigare. La colpa di chi è? In genere – si dice – è sempre dell’altro.
Per essere persone di pace dobbiamo invece partire dall’idea che un po’ è anche colpa mia.
Se abbiamo litigato con qualcuno fare la pace vuol dire chiedere scusa e perdonare. Sono due aspetti diversi. Ti chiedo scusa, perché riconosco di averti trattato male: era colpa mia!
Per ammetterlo ci vuole una forza enorme. Però è la strada buona. Riconoscere che è colpa mia permette di fare la pace. Se invece sono prepotente e non voglio ammettere di avere sbagliato,
non ti chiederò mai scusa: vuol dire che non sono una persona di pace, perciò non posso parlare di pace; sono uno che ha il cuore in guerra, dominato dalla prepotenza e dall’orgoglio. Ma Gesù mi libera da tutto questo e allora io voglio lasciarmi liberare da Lui e avere la forza di dire: “Scusami”, e ammettere: “Era colpa mia”. D’altra parte potrebbe anche capitare che sia colpa sua, allora non è giusto che io vada a chiedergli scusa se è colpa sua … e allora che cosa posso fare? Perdonarlo. Non legarmi al dito quella parola o quel gesto cattivo che ha fatto, ma prendere l’iniziativa, essere per primo io generoso, andargli incontro, tendergli la mano e dirgli: “Ti perdono; dai, facciamo la pace, lasciamo perdere e ricominciamo”. Anche questo è importante, ma vi accorgete che costa fatica: non è facile chiedere scusa e non è nemmeno facile perdonare. Ma la pace che Gesù ci offre è una capacità … per questo facciamo la comunione, perché vivere bene non è facile!
Istintivamente ci viene il contrario: prendere quello che appartiene all’altro, colpire chi ci è antipatico, disprezzare chi non la pensa come noi, ricordarci il male che ci hanno fatto e pensare di fargliela pagare. Questa non è una mentalità di pace. Si comincia da bambini e si continua da grandi. Solo Gesù ci dà la vera pace e ci rende capaci di costruire buone relazioni.
È Gesù che di dà questa forza. Viviamola e ringraziamo del dono grande che ci ha fatto.
Se tutti ci impegniamo, la Gerusalemme nuova si costruisce ed è la nostra comunità: le tensioni si risolvono, i conflitti si superano e le relazioni buone, cordiali, amichevoli, rendono bella la vita. Ma la volete una vita bella? Certo! Questa è la strada, dunque: Gesù è la strada per un’autentica pace.

Credere in Gesù vuol dire coltivare l’amicizia con Lui

«I discepoli gioirono a vedere il Signore». Erano pieni di tristezza e di angoscia per la morte dolorosa che aveva colpito il loro Maestro e quella sera di Pasqua quando Gesù «stette in mezzo a loro», vivo e vegeto, loro si rallegrarono profondamente, furono davvero contenti. È quello che avviene anche a noi, se accogliamo il Signore Gesù e lo riconosciamo presente in mezzo a noi. Quando ci raccogliamo in Assemblea il Signore viene, sta nel mezzo: è il centro di tutta la nostra attenzione; e noi lo riconosciamo e aderiamo a lui. La nostra fede è una relazione di amicizia. L’evangelista Giovanni non adopera mai la parola fede, ma sempre il verbo credere. Preferisce non usare il sostantivo per non dare l’impressione che la fede sia una cosa che c’è o non c’è. Il verbo credere invece dice piuttosto una relazione personale. Credere nel Signore Gesù vuol dire avere un rapporto di amicizia con lui e l’amicizia cresce nel tempo, ma può anche diminuire o sparire. Ci sono tante amicizie che una volta c’erano e sono finite; ci sono delle amicizie invece che durano tutta la vita e diventano sempre più intense e importanti. Pensiamo alla nostra relazione con il Signore come un’amicizia. Ha ragione Tommaso allora: bisogna vedere, toccare, sentire il Signore, bisogna incontrarlo personalmente, bisogna stare con lui. Se non abbiamo un rapporto con lui – non lo ascoltiamo, non lo vediamo, non lo tocchiamo, non sentiamo il suo amore – ma che relazione di amicizia c’è fra di noi? Gesù infatti dà soddisfazione a Tommaso; non lo rimprovera, ma gli dice: “Coraggio! Avvicinati, guarda, tocca, entra in relazione con me”. È possibile oggi per noi essere in relazione con il Signore Gesù? Fisicamente non lo vediamo – i nostri occhi non lo vedono – ma lo possiamo sentire, perché è veramente presente nella nostra vita. Si tratta di allenarci a questo riconoscimento e stare attenti ai segni della sua presenza. Quando lo sentiamo presente, siamo contenti. La gioia nella nostra vita è proprio la sua presenza in quanto bene amato. Se lo ascoltiamo, gli parliamo, stiamo volentieri con lui, la nostra amicizia cresce e ne abbiamo un enorme beneficio: ricaviamo un bene dall’essere suoi amici. Il Signore ci propone la vita come obiettivo e l’evangelista lo precisa chiaramente: «Ho scritto queste cose perché crediate e perché, credendo, abbiate la vita». Avere la vita vuol dire vivere una vita piena, realizzata. Il Signore vuole la nostra realizzazione personale, vuole che la nostra vita sia piena e bella e lo può essere, se lungo tutta la vita cresce la nostra amicizia con lui. Essere persone di fede non significa essere persone di testa che ragionano su qualche concetto religioso e accettano questa o quella dottrina; esser persone di fede vuol dire amare Gesù, Gesù in persona, non queste abitudini. Molte volte le persone confondono la fede in Gesù con le loro abitudini religiose. Quanti ragazzi sono passati nelle nostre realtà … finche c’era una abitudine sono venuti, poi hanno preso un altro giro ed è finito tutto. Quante persone erano abituate in una chiesa, si son trasferite, han perso il giro, perché non trovano più quelle abitudini, quei riti e non sono più andate in chiesa. Non era fede, è solo abitudine religiosa, vuota, perché manca una autentica amicizia spirituale con Gesù. Quando c’è questa relazione, si può essere in qualunque parte del mondo e si sente sempre presente il Signore Gesù.
Mi interessa Gesù Cristo, perché gli voglio bene, perché sono amico suo, perché sento di essere amato e una misericordia così grande come quella che ci ha offerto merita una risposta di amore!
Pensiamo sempre alla nostra vita di credenti come amici del Signore che crescono in questa relazione di amicizia. “Diventa credente e non essere incredulo, diventa sempre di più amico; diventa, cresci, matura, realizza la tua amicizia nella pienezza della vita eterna”. Chiediamo al Signore che anche noi come i discepoli possiamo gioire nell’incontrare Gesù; chiediamogli di poter credere davvero, di crescere nell’amicizia e di condividere la vita con lui sempre, fino all’eternità.

Eterna è la sua Misericordia

Così canta la Chiesa nell’Ottava di Pasqua, quasi raccogliendo, dalle labbra di Cristo queste parole del Salmo; dalle labbra di Cristo risorto, che nel Cenacolo porta il grande annuncio della misericordia divina e ne affida agli apostoli il ministero. Prima di pronunciare queste parole, Gesù mostra le mani e il costato. Addita cioè le ferite della Passione, soprattutto la ferita del cuore, sorgente da cui scaturisce la grande onda di misericordia che si riversa sull’umanità. Da quel cuore suor Faustina Kowalska, la santa che vedrà partire due fasci di luce che illuminano il mondo: «I due raggi – le spiegò un giorno Gesù stesso – rappresentano il sangue e l’acqua». Sangue ed acqua! Il pensiero corre alla testimonianza dell’evangelista Giovanni che, quando un soldato sul Calvario colpì con la lancia il costato di Cristo, vide uscirne «sangue ed acqua». E se il sangue evoca il sacrificio della croce e il dono eucaristico, l’acqua, nella simbologia giovannea, ricorda non solo il battesimo, ma anche il dono dello Spirito Santo.
Attraverso il cuore di Cristo crocifisso la misericordia divina raggiunge gli uomini: «Figlia mia, dì che sono l’Amore e la Misericordia in persona», chiederà Gesù a Suor Faustina. Questa misericordia Cristo effonde sull’umanità mediante l’invio dello Spirito che, nella Trinità, è la Persona – Amore.
E non è forse la misericordia un «secondo nome» dell’amore, colto nel suo aspetto più profondo e tenero, nella sua attitudine a farsi carico di ogni bisogno, soprattutto nella sua immensa capacità di perdono?
Dalla divina Provvidenza la vita di questa umile figlia della Polonia è stata completamente legata alla storia del ventesimo secolo, il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. È, infatti, tra la prima e la seconda guerra mondiale che Cristo le ha affidato il suo messaggio di misericordia. Ancora oggi siamo nel pieno delle guerre e delle orribili sofferenze che ne derivarono per milioni di uomini: ancora oggi sappiamo bene quanto il messaggio della misericordia sia necessario.
Disse Gesù a Suor Faustina: «L’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla divina misericordia». Attraverso l’opera della religiosa polacca, questo messaggio si è legato per sempre al secolo ventesimo, ed è ancor più legato al terzo millennio. Non è un messaggio nuovo, ma si può ritenere un dono di speciale illuminazione, che ci aiuta a rivivere più intensamente il Vangelo della Pasqua, per offrirlo come un raggio di luce agli uomini ed alle donne del nostro tempo.

La Pietra scartata è divenuta Pietra angolare

Avevano pensato di metterci una pietra sopra, avevano ritenuto che fosse tutto finito. Le autorità si sono scagliate contro Gesù e hanno progettato di eliminarlo, perché dava fastidio. Lo hanno ucciso e sepolto, sembrava una storia finita. Quel pietrone che chiudeva l’ingresso del sepolcro è il segno di qualche cosa di definitivo, insormontabile, proprio come la morte. E invece quella pietra è stata ribaltata. Le donne quel primo mattino di Pasqua sono andate al sepolcro con entusiasmo, ma con grande trepidazione. Non sapevano come avrebbero potuto compiere quell’opera pietosa dell’unzione del corpo. C’era un ostacolo, una pietra enorme molto grande. Quante pietre ci sono sul nostro cuore e sul nostro cammino!
Quanti ostacoli, quanti blocchi e ci rendiamo conto che non riusciamo a superarli. Ci rendiamo conto che non possiamo fare niente! Ci sembra impossibile superare certe situazioni e contesti personali, familiari, comunitari e mondiali. È questa la pietra pesante che blocca la nostra vita. Sembriamo in perenne lotta. È un pietrone che chiude il cuore, che ammazza la vita che sembra mettere la parola fine alla possibilità di vita serena e in pace. E invece la Pasqua ribalta queste pietre, apre i nostri sepolcri … c’è speranza! Non siamo noi che con le nostre forze riusciamo a superare questi ostacoli. È importante che ci rendiamo conto di non farcela, ma è importante che ci affidiamo a Colui che solo può farcela. È il Signore che vince il peccato e la morte. Quelle donne non sono rimaste chiuse in casa perché non potevano fare niente, hanno avuto il coraggio di andare alla tomba anche se sapevano che c’era un ostacolo per loro insormontabile.
Si sono domandate: “Chi rotolerà quella pietra?” Quando vedono, si accorgono che è già stata ribaltata: un altro ha lavorato per loro, un altro ha compiuto quello che loro non sarebbero state capaci di fare. «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo. Questa è l’opera del Signore una meraviglia ai nostri occhi». La pietra scartata è Gesù. I costruttori, i potenti della terra hanno ritenuto che fosse da scartare, inutile, l’han buttato via, ma Dio lo ha recuperato e l’ha posto come pietra d’angolo per unire i due popoli, per ricostruire una comunità nuova. Chiediamo al Signore che ci faccia sentire la sua presenza potente operante in questa Pasqua, che faccia Lui quello che noi non riusciamo a fare, che compia quelle meraviglie che desideriamo e non riusciamo ad ottenere. Il Signore rimuova gli ostacoli tolga i pietroni dal nostro cuore, ci renda persone di pace.
Sia questa la nostra buona Pasqua e il Signore operi per noi quello che con le nostre forze non riusciamo a fare.

Felici come una Pasqua (2)

Perché associare la Pasqua alla felicità? Forse ci può essere d’aiuto la ripresa di un termine simile eppure con una sfumatura molto diversa. La fede cristiana, infatti, non orienta il desiderio umano alla semplice felicità effimera bensì alla gioia spirituale, a quel compimento che solo Dio può donare ma che continuamente ci richiama in questa storia, per vivere di esso e poter davvero sentirci risorti. La gioia spirituale è discreta. Non si sa bene quando e come comincia. Si sente che sorge, nasce da dentro. Si percepisce il passo di Dio che incrementa la fede, la speranza e la carità. È difficile legare la sua origine a qualcosa di esterno. Appare, ma non dipende da qualcosa di preciso. È una gioia molto calma, pacifica, composta e semplice che porta a vedere tutto molto bello. Non ci si sente soli. Qualcuno è presente e questa relazione è avvertita come solida e rassicurante. È una gioia che spinge a un sincero rispetto verso se stessi e il mondo, specie le persone, che portano in sé l’immagine di Cristo. Ci si sente in comunione con tutti, persone e cose, contemplate nella loro bellezza senza volerle possedere. Questa gioia spinge a un ottimismo realista, si sente che sarà possibile andare avanti nella vita e restare fedeli ai propri compiti anche quando sarà impegnativo. Le preoccupazioni, pur rimanendo presenti, non ostacolano la prontezza ad agire. È una gioia più duratura di quella effimera e si allontana lentamente. Quando se ne va non lascia un vuoto interiore e star da soli non pesa. Ci accompagna con la certezza che tale gioia resta dentro di noi e continua a fluire sotterranea; prima o poi riaffiorerà, perché ci appartiene.
È una gioia che si può custodire. Basta il ricordo per avvertirla nuovamente dentro di sé e per scorgere le sue tracce nelle cose che ci capitano. La Pasqua dona una felicità che, non venendo dal mondo, il mondo non può togliere. Essa però non rende estranei alla storia. Ecco perché coloro che la vivono talvolta si allietano ed esultano, altre volte piangono e gemono.

Felici come una Pasqua (1)

Spesso diversi modi di dire” di uso comune riguardano realtà che, a ben vedere, sono più complesse ed “elevate” di quanto non sembri, ma che vengono trattate con leggerezza e semplicità, fino a diventare quasi scontate, entrando così, allo stesso tempo, nel tessuto del vivere quotidiano.
L’espressione “Felici come una Pasqua” associa l’emozione più semplice, quasi banale, della felicità al mistero che sta al cuore della fede cristiana, la Pasqua di risurrezione. Il sentimento, per così dire, più umano e infantile, insieme all’evento cardine della rivelazione divina in questo mondo.
La vera felicità è davvero quella che nasce dalla Pasqua, ma ciò significa allo stesso tempo la necessità di attraversare il mistero pasquale in pienezza. La Pasqua di Gesù è il culmine di una vita spesa totalmente nella dedizione per gli altri, nell’amore del prossimo, alla luce di una radicale relazione con Dio Padre. È solo in questo orizzonte che trova davvero senso la ricerca della felicità cristiana. In questo senso, allora, la felicità della Pasqua può diventare qualcosa di quotidiano, di “semplice”, che passa quasi inosservato.
Il modo di dire che descrive la felicità con l’immagine della Pasqua è tanto noto quanto ambiguo.
Il rischio è di pensare alla felicità come un sogno realizzato o qualcosa da raggiungere, dimenticando che la Pasqua include sempre il Venerdì Santo, e che la felicità è sempre radicata nella storia.

Io sono il buon Pastore

«Io sono il buon Pastore». Solo Gesù è il vero e buon Pastore, perché la sua vita incarna la bontà e la verità del Dio dell’alleanza. Lui solo vuole ciò che è bene per l’umanità. Infatti è venuto per questo: donare loro una vita abbondante. Di fatto la caratteristica più importante del buon Pastore – che Giovanni ripete per cinque volte – è «dare la vita per le sue pecore». Egli è buono perché dà la sua vita e non c’è prova di amore più grande del donare la propria vita per coloro che si ama. Gesù si designa come il buon Pastore perché «conosce» le sue pecore e le sue pecore lo «conoscono». Si tratta di una comunione viva, di cuore e di pensiero. Ma la nostra fede è veramente una relazione di questo genere, intima e personale? «Ho altre pecore… anche quelle io devo guidare». Il desiderio di Gesù di entrare in comunione con le pecore ha una prospettiva universale. Il suo amore vigilante di pastore si estende a tutti, senza distinzione di razza, di nazione e neanche di religione. Dovunque ci sono pecore disposte ad «ascoltare la sua voce» e a «seguirlo». Egli vuole guidare tutte alla «vita eterna». Il solo ovile che non esclude nessuno non è un luogo, ma una vita, quella del Padre. Nella chiesa il buon Pastore prosegue la sua missione universale. La chiesa di Cristo non è più legata a un ovile culturale, a una struttura, ma a una presenza, quella del buon Pastore glorificato, che solo mantiene l’unità del gregge. Nei nostri sforzi verso l’unità non si dovrà mai dimenticare che il fine non è il recinto di questa o quella confessione cristiana, ma l’ascolto della voce dell’unico Pastore, che chiama ciascuno per nome.
Intimità. L’intimità è lo spazio vitale di Dio, là dove il Cristo, il nostro amico, ci conosce personalmente (vangelo), là dove Dio ci fa suoi figli. Pensiamo innanzitutto alle nostre intimità umane, alle persone con le quali possiamo essere noi stessi, possiamo parlare in tutta semplicità, ai momenti in cui lasciamo cadere ogni difesa. Le nostre intimità possono essere sorgenti di dinamismo nelle nostre vocazioni per il mondo, per ricevere confidenze di fatica, di difficoltà, ma anche di gioia.
L’intimità con Dio nella preghiera ci colma e nello stesso tempo turba le nostre intimità perché contesta questo mondo malato di felicità superficiali.

Creare casa

La tematica che l’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni propone in vista della 61a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni che si celebrerà la quarta domenica di Pasqua, il 21 aprile 2024 intende cogliere l’invito di Papa Francesco a creare ambienti adeguati nei quali sperimentare il miracolo di una nuova nascita: in tutte le nostre istituzioni dobbiamo sviluppare e potenziare molto di più
la nostra capacità di accoglienza cordiale, le comunità come la parrocchia e la scuola dovrebbero offrire percorsi di amore gratuito e promozione, di affermazione e di crescita. Quanto sradicamento! Se i giovani sono cresciuti in un mondo di ceneri, non è facile per loro sostenere il fuoco di grandi desideri e progetti. Se sono cresciuti in un deserto vuoto di significato, come potranno aver voglia di sacrificarsi per seminare? L’esperienza di discontinuità, di sradicamento e la caduta delle certezze di base, favorita dall’odierna cultura mediatica, provocano quella sensazione di orfanezza alla quale dobbiamo rispondere creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso.
Fare ‘casa’ è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici e funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi.
È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere.
Così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino.

L’invito conduce alle radici della fede e riporta agli inizi della Chiesa nella quale da subito i primi credenti si sono adoperati per creare spazi di condivisione della vita nei quali poter sperimentare «la gioia di una casa comune: una domus ecclesiae. Prima che di un edificio ci sia un contesto, un luogo permanente di incontro in cui si respiri uno stile di fraternità, di lavoro e di preghiera. I giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di formazione intelligente e affettiva per appassionarsi al Signore, alla comunità cristiana e ai fermenti evangelici disseminati tra i loro coetanei nel mondo.
La Parola di Dio ha bisogno di un terreno buono e l’Eucarestia ha bisogno di una casa.
Anche la vocazione ha bisogno di un terreno buono perché possa attecchire e di una casa nella quale fare Eucarestia, ringraziamento e benedizione per la Parola ricevuta e il dono di quella fraternità che è offerta della propria vita perché insieme agli altri diventi feconda nella carità, a servizio di tutti.
Come la vita, ha bisogno di trovare uno spazio accogliente per nascere, crescere e maturare.
Il desiderio di appartenere ad una persona o ad una comunità nasce da una frequentazione feriale e una conoscenza graduale di quella casa alla quale si sogna di appartenere per essere fecondi. Creare casa è un invito rivolto alla comunità, alla parrocchia, alle famiglie, perché siano sempre più spazi capaci di quell’accoglienza cordiale e libera che fa crescere la vocazione sia di chi li abita che di chi li visita, diviene terreno fecondo di nuove vocazioni.

Chi ha sete, venga!

L’immagine preparata per la 61° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, è un’icona del Cristo che viene; anch’essa porta direttamente alla radice della vocazione cristiana e alla sorgente di ogni chiamata perché la vocazione è incontrare e riconoscere il Signore Risorto che abita i passi della propria storia. Tutta la Scrittura termina con un grido che racchiude una promessa: «Lo Spirito e la Sposa dicono: ‘Vieni!’. E chi ascolta, ripeta: ‘Vieni!’. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
Se il nostro sguardo potesse attraversare il cielo, se potesse guardare attraverso la storia e i fatti della vita altro non vedrebbe che il Cristo che viene perché raggiungerci – venire verso di noi – è l’unica cosa che anch’egli ardentemente desidera; stare in nostra compagnia, fare casa con noi: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Intrattenersi con il Signore Risorto, parlare con lui come con un amico è l’origine della vocazione che si può riconoscere nella Parola – sovente anche un solo versetto di tutta la Scrittura – che è il grembo della fede e il Principio di ogni cosa.
L’immagine scelta è simboleggiata dalla raffigurazione dei quattro evangelisti che occupano gli angoli della tavola: Matteo (l’angelo), Giovanni (l’aquila), Marco (il leone) e Luca (il bue).
La fede e la vocazione – così come la vita e la realtà – hanno a che fare con un invisibile che contiene una promessa, quella della vita eterna che è la vita vera, la vita come dovrebbe essere, la vita che è semplicemente vita, semplicemente felicità.
Il cerchio esterno con i cherubini e i serafini che fanno capolino dai lati del quadrato più interno simboleggia il mondo celeste e ricorda che tutta l’avventura della vita si svolge sotto il cielo ormai aperto dalla Pasqua di Cristo. Cerchio e quadrato ricordano il movimento – immaginando di far ruotare il quadrato attorno al suo centro – iniziato nel Battesimo.
Immersa nell’acqua del fonte la vita di terra ha cominciato a camminare verso la perfezione della carità che potrà essere ricevuta in dono solo nella Gerusalemme celeste ma che già può essere gustata in questo tempo, nella consapevolezza che solo l’amore vale la pena e la bellezza del vivere, l’unica cosa che rimane per sempre.
Intuire la propria vocazione è discernere il calore del divino – ha il volto di Cristo e il sapore dei suoi gesti – che traspare da ciò che è umano come il rosso delle vesti del Signore emerge dal blu che simboleggia la storia, è condividerne la Passione e spendere la vita nel suo amore: il volto di una persona che si accende di una luce particolare nella quale ci si riconosce chiamati come sposi, il mistero di una Chiesa che si desidera servire come ministri ordinati, una famiglia religiosa che chiama ad una appartenenza e ad una consacrazione particolare, una storia di relazioni quotidiane per il quale adoperarsi semplicemente con il lavoro delle proprie mani.

Chiamati

Non è casuale che la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni cada sempre la quarta domenica di Pasqua, in cui si legge un passo del vangelo del buon Pastore. In effetti in questo brano c’è l’essenziale di ogni vocazione: un rapporto profondo, intimo, con il Cristo, in cui lo si conosce e ci si sente conosciuti, amati e si è disposti ad amare con tutti se stessi. Lo si conosce, si entra in relazione con lui. Se ne avverte l’amore, la misericordia, la tenerezza. Si apre il cuore e la mente alla sua Parola, se ne distingue la voce, si prova il desiderio intenso di incontrarlo, di vivere secondo il suo insegnamento. Non si tratta di un contatto episodico, occasionale. C’è gioia e pace, ma anche una fatica, un vero travaglio da affrontare, perché
l’incontro con lui esige una conversione, un cambiamento. Ci si sente conosciuti, ma non da un occhio che indaga e giudica impietosamente. Si percepisce piuttosto uno sguardo benevolo e compassionevole, davanti al quale si può apparire così come siamo. La nostra debolezza, il nostro peccato non costituisce un ostacolo: nulla può fermare il suo amore. La fragilità non diventa una preclusione e la ricchezza non rappresenta un motivo di vanto. È in questa esperienza che si avverte una chiamata, come un’avventura esaltante, che si può correre affrontando ogni rischio. Gesù sarà sempre accanto a noi, anche quando andare avanti significa camminare in un deserto, senza poter contare sul consenso di quelli che ci stanno accanto.
Decisiva è la speranza: il sentirsi parte di un disegno che ci sorpassa, in cui possiamo essere strumenti
di un amore smisurato. Sentirsi chiamati vuol dire passare da spettatori a protagonisti, investendo le proprie energie per un servizio lieto e fedele.