Ci si può ammalare, si possono ammalare gli altri. Due diversi modi segnano il confine tra salute e malattia. Altro è ciò che riguarda se stessi, altro quel che riguarda gli altri, ma in comune vi è la medesima prospettiva: il radicale cambiamento di sguardo. La visione del mondo si trasforma, quando da sani ci si scopre malati. La malattia sembra definire tutto l’orizzonte e persino l’identità della persona: non si percepisce più come libera, ormai è “malata”. Benché nella vita avvengano alcuni passaggi fondamentali, nessuno di essi pare assomigliargli. Il primo giorno di scuola, il primo giorno al lavoro, il matrimonio, il primo figlio, il licenziamento, la separazione… svolte decisive, ma non abbastanza da essere paragonate all’ammalarsi. Il futuro incerto si colora di scuro, la novità è minacciosa, ciò che non dipende da sé adesso riguarda tutto di sé. Poi si ammalano gli altri, le persone care. Sorge un’improvvisa distanza, come se il desiderio di soccorrere, di farsi prossimi al dolore altrui, venisse frenato dall’impulso ad allontanarsi: sei in una condizione diversa, che mi fa paura, per te, per me. Mi avvicino, mi prendo cura, ma ti sento e mi sento lontano. Forse è proprio lo squilibrio che accade nel corpo e si riflette nel proprio intimo – sia quando ci si ammala, sia quando si ammalano gli altri – a suggerire impropriamente quella visione cara ad alcune religioni, come ad una certa lettura del cristianesimo, che lega la pena alla colpa.
Per spiegare l’armonia perduta si ricorre alla colpa, che ne diviene la causa; per darsi una prospettiva si pensa all’espiazione, che deve seguire come effetto. Al centro sta il dolore di non avere più libertà e speranza di autodeterminarsi, come se tale libertà fosse divenuta la sorgente del male. Senza entrare nella lotteria di chi ha la fortuna di essere sano e di chi incorre nella mala sorte di ammalarsi, Gesù sta in mezzo all’umanità per cambiare lo sguardo di ognuno, su se stesso, sugli altri, sul mondo. Il suo sguardo d’amore pasquale è l’unico che risana, perché fa del dolore di ognuno il proprio, con la singolare capacità di assumerlo e di portarlo via con sé, spogliando la sofferenza dalla cecità in cui tenta di farci sprofondare.
Se è vero che ciò che in tutti ed in ognuno la malattia genera è il mutamento di sguardo, allora è possibile che sia questo a dover essere trasformato, nei sani come nei malati: nella comunità umana prima ancora che in quella ecclesiale. Mentre al dolore non si può impedire di restare avvolto nel mistero, si può consentire all’amore di dischiudere un mistero ancor più grande, l’unico che può davvero salvare tutti.
