18 Domenica del Tempo Ordinario

«Vanità delle vanità – dice Qoelet – tutto è vanità».
L’inizio di questo libro dell’Antico Testamento è famoso e nello stesso tempo tragico: “Tutto è inconsistente – dice questo antico sapiente – tutto è un soffio”. Il temine vanità traduce il termine ebraico hébel, che vuol dire soffio: tutto è un soffio, cioè inconsistente. Non è l’assenza di senso, né il concetto moderno di assurdo, senza senso e senza valore. È un soffio, però, che non riesci a controllare e a dominare, non puoi prendere, perché è breve e ti sfugge. Tutto è così. Il lavoro, la fatica, l’ingegno, l’impegno che mettiamo nella vita … tutto è un soffio. Siamo come l’erba che spunta al mattino e avvizzisce la sera. È una vita che ce lo ripetiamo. Lo abbiamo sentito dire tante volte, lo diciamo quando capita qualche tragedia, ma non ne siamo ancora convinti.
È necessario dunque che maturiamo in questa sapienza evangelica, ma nel modo corretto.
È giusto che impariamo a valutare ogni cosa – ma proprio tutto nella nostra vita – come un soffio inconsistente, altrimenti ci montiamo la testa e riteniamo di essere “padreterni”, convinti di essere padroni del mondo. Quando siamo sani, forti, ricchi, in situazione buona, siamo convinti di essere padroni della nostra vita; e molte volte capita che alcune persone nel pieno delle forze si sentano così, padroni del proprio essere, come se la sorte non cambiasse mai e invece … passa presto e cambia tutto. È necessario avere questa consapevolezza del nostro limite, ma non dobbiamo cedere nell’atteggiamento opposto che è quello di un pessimismo disfattista, dicendo che nulla vale, niente merita nella vita, tutto è brutto e cattivo … non è questo che ci ha insegnato il Signore!
Dire che tutto è inconsistente significa avere il coraggio di guardare in faccia la realtà.
Non è vero che tutto è brutto; niente dura, nulla resiste, tutto passa e noi non abbiamo in mano il potere per tenere la vita; ma, detto questo, riconosciamo che il Signore è la nostra forza.
Lui non passa, lui resta in eterno … tutto è vanità, tranne il Signore. Quindi la saggezza ci porta non a disprezzare le realtà del mondo, ma a considerarle nella giusta luce, a considerare il Signore come nostra meta e a valutare tutte le realtà che fanno parte della nostra vita, sapendo che sono passeggere, che non danno la felicità, che non realizzano la nostra vita e che sono destinate a finire. Tutte le cose sono inconsistenti, ma il Signore resta in eterno. Egli ha fatto buona ogni cosa a suo tempo. Noi non riusciamo a capire il senso di tutto, non riusciamo a spiegare il valore della nostra vita, ma sappiamo di essere nelle mani di colui che comprende il senso della nostra esistenza. “Insegnaci, o Signore, a contare i nostri giorni – gli chiediamo con le parole del salmo – insegnaci a valorizzare quello che siamo, quello che facciamo giorno per giorno, a farlo bene”.
Ogni giorno è un principio di eternità. Sappiamo che la nostra vita passa, proprio per questo ci attacchiamo a te, Signore, che resti in eterno. “Guidaci per una via di eternità”.
Impariamo a valorizzare le cose belle della nostra vita nella luce dell’eternità, riconoscendo che tutto è destinato a finire, ma la nostra persona resterà in eterno con il Signore … ed è questa la parte buona che non ci sarà tolta! Questo non è vanità, questo non è inconsistenza.
Allora investiamo tutto sull’essenziale, diventiamo saggi, diamo valore a ciò che è veramente importante, che è solido e resta in entrano.

Il tempo ordinario dà valore alla festa

Nella vita quotidiana ciascuno vive la propria esperienza di gioie e sconfitte, speranze e delusioni. Nel quotidiano Dio viene accolto o respinto, compreso o ignorato: è il tempo dell’incontro con il Mistero di Dio. Davide è chiamato in un giorno qualunque, lo stesso gli apostoli mentre gettano e puliscono le reti.
Oggi il quotidiano è diventato un tempo pesante, si aspetta il sabato e la domenica per liberarsi dal fardello dei doveri e si vive la festa come trasgressione o fuga, tempo libero di una presunta libertà. Da giorno del Signore, la domenica è diventata evasione, tempo di gite o bevute, con conseguente abbandono della convocazione eucaristica, la festa sta rischiando di diventare un tempo senza Dio.
Non si recupera la domenica se non si dà valore alla quotidianità, luogo dell’esperienza religiosa, che trova nella festa il culmine e la fonte di tutta la settimana. Il quotidiano è il «tempo della Grazia», dove in «abbondanza», il dono di Dio previene, accompagna e segue il cammino delle persone, sostenute e salvate dalla gratuità di Dio in Gesù. Il tempo ordinario, è un tempo dove non si celebrano solennità ma si vive il mistero pasquale nella quotidianità.

Tempo ordinario (2)

Le trentatré settimane del tempo ordinario, divise in due tempi, “post epifania” e “post pentecoste” non celebrano nulla di particolare, se non la Pasqua di Cristo nella normalità. Questo tempo spezza l’idea che l’Anno Liturgico sia un semplice itinerario catechistico, ma rende la celebrazione della Pasqua ogni domenica il centro e il fulcro dell’esperienza cristiana, nell’accogliere l’amore di Cristo che si esprime nella comunità cristiana, dalla creazione fino alla fine dei tempi. Il centro, quindi, rimane il mistero pasquale, che si può desumere chiaramente dai prefazi domenicali.
Se celebrando la «liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste», e praticando il vangelo della carità entriamo nell’ordine della santità, vivendo il riposo domenicale come segno della libertà pasquale con cui Cristo ci ha liberati entriamo nell’ordine della profezia: la libertà dalle cose, affrancando dalla schiavitù del “fare”, svela il vero significato di ogni attività, relazionandola all’attesa escatologica dell’essere.
In questo senso la domenica, «il primo giorno della settimana» è anche «l’ottavo giorno»: il giorno ultimo, l’anticipo del nostro futuro, del tempo in cui saremo senza tempo.
Nei giorni feriali la ricchezza delle possibilità offerte dal Messale fa si che sia l’azione pastorale della Chiesa, sia la vita dell’uomo vengono inseriti dentro l’eucaristia e illuminati dal mistero pasquale. Anche l’eucaristia feriale del Tempo ordinario può quindi diventare scuola di alta spiritualità.

Il Tempo Ordinario rappresenta il pellegrinaggio del cristiano verso la meta finale. Questo ci aiuta ad assimilare e meditare i misteri della vita di Gesù attraverso la lettura progressiva e quasi continua che ogni domenica si fa della sua Parola.

Tempo ordinario (1)

Il “tempo ordinario” è un tempo liturgico un po’ particolare: apparentemente “noioso”, ordinario appunto, molto lungo, sembra un po’ un riempitivo tra i restanti tempi forti dell’anno: Avvento-Natale, Quaresima-Pasqua.
Quasi come i giorni feriali tra due domeniche. Ma la Chiesa, che è madre e non fa mai nulla a caso, non poteva fare un tempo “di riempimento”. E infatti non lo è.
Il “tempo ordinario”, detto nei libri latini “per annum”, è un tempo importantissimo, perché, appunto, è ordinario, ma non nel senso di banale, quanto di quotidiano.
L’anno liturgico rispecchia la nostra vita: ci sono dei momenti di “luce” (il Natale), che riusciamo ad accogliere solo se ne sentiamo la mancanza (l’Avvento), poi questa luce illumina le nostre cose (la Quaresima) fino a purificarle e a farle nuove (la Pasqua e la Pentecoste). E il resto? Il resto è il tempo “normale”, quello in cui si svolge realmente la nostra vita, e dove si svolge e costruisce realmente il Regno di Dio e il nostro essere uomini e donne a immagine e somiglianza di Dio.
Mentre i tempi forti sono tempi “pedagogici”, cioè mirano a risvegliare un determinato aspetto della nostra fede nella nostra vita, il tempo ordinario invece venera il mistero di Cristo nella sua globalità, nello svolgersi della vita nuova illuminata dallo Spirito Santo. Perché l’anno liturgico non è un compito ecclesiastico, ma è una persona, Gesù Cristo, presente come memoria, presenza e profezia.

S. Messa ore 10.30 in streaming

XIII domenica del Tempo Ordinario

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La fede e la colpa

Qualche tempo dopo la Pasqua, dopo aver trovato la tomba vuota, i discepoli tornano sul lago di Tiberiade, là dove tutto è iniziato. Una notte provano a pescare, ma le loro mani non hanno più dimestichezza con i movimenti, e gli sforzi durati tutta una notte sono inutili. Solo Gesù apparso nel frattempo sulla riva, indirizza i discepoli ad una pesca.

Giunti a terra, dopo la colazione ristoratrice, Gesù e Pietro possono parlare a quattr’occhi. Dopo mangiato si parla meglio: si è più sereni, si è disponibili alla confidenza. Gesù non ha più parlato con Pietro dalla notte del Giovedì Santo, quando cioè Pietro lo rinnegò tre volte davanti ad una serva. Gesù, discreto ed attento, non parla di quella sera, gli chiede solo se lo ama. È una domanda apparentemente semplice, ma che lascia la bocca amara quando viene ripetuta per tre volte. Quando compiamo un’azione cattiva contro qualcuno, ci aspettiamo rancore, vendetta, astio; solo se va bene indifferenza. Gesù invece va controcorrente: chiedendogli se lo ama, spinge Pietro a sbilanciarsi, lo porta un passo alla volta a dire le parole pesantissime: “Tu sai tutto, tu sai che ti amo”. In quel “Tu sai tutto” c’è in sintesi estrema la storia della sua fragilità, c’è l’ammissione della propria vicenda di uomo peccatore che non si nasconde come Adamo dietro ad un cespuglio, ma si mette così com’è davanti a Dio. Pietro non cerca scuse, non accusa la serva di quella sera, non chiama in causa gli altri discepoli, che se possibile sono ancora più fragili di lui. Ammette di essere solo sé stesso: ama come può, ama come riesce, con tutti i suoi limiti. Davanti alla richiesta di amore, la colpa viene per così dire neutralizzata, superata: non è ignorata, ma viene assorbita in un progetto di amore più grande che investe Pietro e lo rende proprio perché peccatore  segno visibile della Signoria di Dio. Se Pietro fosse stato perfetto e inossidabile e inattaccabile e immacolato, non avrebbe potuto né comprendere né guidare chi invece è imperfetto, arrugginito e sporco. La Chiesa non è l’elenco dei perfetti, ma è la fraternità dei peccatori perdonati e quindi capaci di speranza, non in sé stessi ma in Dio, l’unico Salvatore. Pietro invece, condotto per mano da Cristo che lo ha chiamato solo per educarlo con pazienza infinita un giorno alla volta,  comprende che la sua perfezione si chiama Cristo. Solo mettendosi davanti a Lui così com’è, senza cercare un’impossibile auto-salvezza o auto-perfezione, consente a Cristo di salvarlo dai suoi peccati.