Una serie di sfortunati eventi

La storia di Giobbe, almeno per la sua prima parte, è abbastanza nota: racconta di un uomo che vive una vita agiatissima, ricco di beni e di figli, in salute, che d’improvviso si trova a perdere, nel giro di pochissimo tempo, tutto ciò che ha. Il suo bestiame muore, le sue case e i suoi possedimenti bruciano, i figli gli vengono sottratti da un evento naturale violentissimo.
La reazione di Giobbe sembra quella di un uomo consapevole della volubilità degli eventi umani: sa di essere venuto dal nulla e che la vita non è eterna. Per cui accoglie quel che gli è capitato con una sorta di stoicismo sorretto dalla fede. L’autore del poema tiene a sottolineare che, sia nel benessere che nella sventura, Giobbe rimane un uomo giusto. Proprio questa sua giustizia, conservata sia nel bene sia nel male, diverrà la chiave di lettura di tutto ciò che accadrà in seguito. Purtroppo per Giobbe, la morte dei figli non sarà, di fatto, l’ultima delle disgrazie che lo colpiscono: nella sua discesa nell’inferno del dolore, c’è un’altra tappa, che lo riguarda ancor più personalmente, che lo tocca nella sua stessa carne. Di fatto, finché il male colpisce i nostri beni, le nostre relazioni, persino gli affetti più cari, possiamo sempre sperare di poter ricostruire. Ma quando siamo noi in prima persona a patire, tutto diventa più difficile. Giobbe, l’uomo giusto, finisce seduto su un letamaio a grattarsi la rogna. A questo punto, potremmo dire, il “vaso è colmo”. Colui che era ricco, nobile e sano è diventato povero, malato e ignobile. E qual è la sua reazione? La medesima di prima, almeno apparentemente, ossia l’accettazione umile di quanto gli accade. In verità, a leggere bene il testo, questa volta Giobbe tace. L’unico rumore in scena è quello del coccio strofinato sulle pustole. La voce che rompe il silenzio è un’altra. A parlare è l’unica persona che in tutta quella sventura gli è rimasta accanto, l’unica che non sia stata trascinata nel vortice: sua moglie.