Fra rassegnazione e rabbia

Noi misuriamo, nel quotidiano, la positività della nostra esistenza a partire da una somma di condizioni che ci sembrano necessarie e la cui mancanza è percepita come un dramma. Potremmo riassumere queste condizioni così: benessere psicologico, salute fisica, indipendenza economica, relazioni sociali soddisfacenti, prospettiva di vita significativa. Quando stiamo bene fisicamente, interiormente, socialmente, economicamente, relazionalmente possiamo considerarci “fortunati”, ci sembra di tenere in pugno la nostra vita.
Quando viene meno uno di questi presupposti, ecco che il palazzo della nostra vita soddisfatta si incrina, vacilla. Abbiamo, naturalmente, delle difese: se ci ammaliamo, possiamo cercare un medico, confrontarci, stabilire un percorso terapeutico; se perdiamo il lavoro, siamo spinti anche dalla società a cercarne un altro; se viene meno un amico elaboriamo il lutto e ripartiamo … Ma non sempre tutto va per il verso giusto: una diagnosi può rivelarsi errata; il lavoro che troviamo può non darci alcuna soddisfazione (o possiamo faticare anche semplicemente a trovarne uno); nella nostra famiglia possono aprirsi delle ferite che col tempo si rivelano insanabili … E in questi momenti ci accorgiamo che la nostra vita (proprio la nostra, quella di cui ci sentiamo padroni) ci scivola fra le dita. Stringiamo, stringiamo, ma non riusciamo a trattenere tutto e, talvolta, una piccola crisi apre una ferita che fatica a rimarginarsi. C’è una storia biblica che ci può aiutare per lavorare un poco sulla consapevolezza della nostra vita, di ciò che possiamo tenere fra le mani e di ciò che dobbiamo accettare che non ci appartenga, è quella di un uomo cui l’esistenza è andata in frantumi in pochissimo tempo e senza una ragione apparente. Quell’uomo si chiamava Giobbe.