La rabbia di una moglie

La donna si vede privata, d’un tratto, dei beni, degli affetti e persino della compagnia di quel marito che, per la malattia che si ritrova a patire, deve vivere fuori del consesso degli uomini, lontano dal letto nuziale. Quella moglie improvvisamente sola, abbandonata, ferita nell’orgoglio, non capisce la reazione apparentemente remissiva dello sposo, e lo rimprovera con un’asprezza che non fa altro che allargare una piaga ben più profonda di quella che devasta la pelle di Giobbe, una piaga interiore che entrambi i coniugi stanno sperimentando. Nell’accusa della sposa c’è qualcosa che va oltre la giustizia stessa: quella che lei gli contesta è proprio quella “saldezza nell’integrità”. Sembrerebbe dirgli la moglie: davvero l’uomo giusto è colui che accetta tutto? È colui che non risponde a un evidente atto di ingiustizia? È colui che si fa togliere dalle mani la vita stessa senza reagire se non predicando una rassegnazione neppure felice? A Giobbe che dice: “Dio ha dato, Dio ha tolto”, la sposa ribadisce: “Ti importa ancora di quel Dio?”.
Sembrerebbe che la distanza fra Giobbe e la sua sposa (che, si noti, non ha un nome: forse incarna noi tutti, coi nostri dubbi e la nostra rabbia) stia precisamente in questo: lui è la persona “che accetta la volontà di Dio”; lei la persona che “si ribella e non vuole sottomettersi”. Proviamo a immaginare ciò che l’autore non esprime: quella donna ha perduto i beni, i figli, lo sposo. Se Giobbe ha perso tutto, anche a lei, che era la sua compagna di vita, è toccata la medesima sorte; se lui deve stare a grattarsi le piaghe con un coccio, lei dovrà prenderselo sulle spalle, garantirgli un minimo di sussistenza: paradossalmente, lei dovrà vivere quasi da vedova, benché il marito sia ancora vivo. Questa donna che appare dal nulla e, nel racconto, sparisce subito dopo aver invitato il suo sposo a maledire Dio e a morire, non riapparirà neppure alla fine, quando Giobbe sarà restituito al suo antico splendore. Il protagonista avrà altri figli. Con lei? Di un’altra non si parla, quindi sì, dobbiamo supporre che sia nuovamente lei la madre della sua prole.
Dove è stata, dunque, fino a quel momento e perché gode della medesima benedizione finale?
Ci piace immaginare che, a sua volta, dopo lo sfogo inziale, ella venga trascinata nello stesso cammino del suo compagno di vita, a imparare che esiste un modo sanato per affrontare il dolore, e che quel modo non è schiavo né di una pazienza inetta, né di un’impazienza impraticabile; che non appartiene né all’ambito della rassegnazione né della pura “opposizione”, ma nasce da un dialogo costante e quotidiano con la vita e con ciò che essa ci consegna.