Come si reagisce a un dolore insopportabile?

Giobbe e la sua sposa sono due esempi di reazione di fronte al medesimo dolore.
Ma sarebbe troppo semplice affermare che Giobbe è l’uomo rassegnato e sua moglie la donna resiliente. Di fronte alla reazione estrema della moglie che invita l’uomo a maledire Dio, vi è l’emergere di un vuoto che la risposta di Giobbe lascia irrisolto; di una tenebra che non si può non affrontare: il Giobbe “rassegnato” al volere di Dio è colui che, a sua volta, non ha ancora preso in mano la sua vita così come è cambiata. L’uomo che dice: “Il Signore ha dato, il Signore ha strappato”, e si consola del proprio “grattarsi” senza porsi alcuna domanda è l’umanità che ancora intende il divino come la personificazione di un dittatore irragionevole, cui ci si deve chinare, come un padrone senza pietà e non come un padre.
È questo il dio che crediamo e vogliamo? La reazione di Giobbe e quella della moglie sono le due facce della stessa medaglia: entrambi accolgono la vita come qualcosa nei confronti della quale non si può fare altro che benedire e maledire. Entrambi, pur con reazioni così opposte, sono portatori della stessa forma di malattia, quella per cui o ci si rassegna o ci si oppone fino alla vendetta.
Questa è, infatti, la maniera istintiva e semplicistica con cui ci poniamo di fronte a ciò che ci accade:
o ce ne assumiamo la colpa (anche quando non è nostra) o accusiamo qualcun altro, magari anche solo
dicendo: mi è accaduto perché la vita fa schifo. Giobbe e la sua sposa, entrambi, come noi hanno bisogno di un percorso di cura, che passi attraverso una profonda consapevolezza, capace di guardare ciò che ci accade senza per forza “colpevolizzare” se stessi e gli altri.