La consolazione, quella vera, è qualcosa di cui sperimentiamo la necessità allorché ci troviamo in situazioni particolari e talvolta drammatiche, quando il dolore bussa alla nostra porta, anzi entra di prepotenza, senza fare troppi complimenti. Una beatitudine evangelica suona così: “Beati quelli che sono nel pianto perché essi saranno consolati” (Mt 5,4). Gesù, durante il pasto d’addio, assicura: “Io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Consolatore (lett: Paraclito) perché rimanga con voi per sempre …”.
Gesù ha fatto delle esperienze mentre stava sulla terra. Ha osservato, si è reso conto, ha provato direttamente. Ora, il primo dato ricavato da tale esperienza è questo: l’uomo non può vivere senza un consolatore. Cristo si mostra preoccupato per il futuro dei propri amici. Non vuole che soffrano la solitudine, si sentano abbandonati, si dibattano nello sconforto. Perciò, dopo essere rimasto in mezzo a noi assicurando la sua presenza “di consolazione”, promette che, non appena farà ritorno al Padre, gli presenterà la lista delle cose più urgenti di cui abbiamo bisogno. Sarà una specie di “rapporto” (rapporto sulle nostre povertà), e verrà stilato non sulla base delle nostre richieste (di certe necessità non ci rendiamo neppure conto), ma verrà ricavato dalla sua esperienza personale. “Ho atteso compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati” (Sal 69,21). Con la sua preghiera, Cristo intende risparmiarci questa prova, che ai suoi occhi appare disumana. Non può, ovviamente, dispensarci dalla sofferenza, dalla croce. Ma chiede al Padre che l’esperienza amara del dolore sia sempre accompagnata dall’esperienza della consolazione. Comunque, secondo Gesù, risulta impossibile vivere sulla terra senza una presenza consolatrice. Morire nella fede è facile e difficile al tempo stesso. Ma morire nell’abbandono è atroce. Consolazione, dunque, come espressione di speranza, come antidoto contro la disperazione, lo sconforto, lo smarrimento.
Stabiliamo un principio basilare: è in grado di consolare gli altri solo chi, essendo stato provato, ha avvertito il bisogno della consolazione e l’ha avuta. Paolo riferisce la propria esperienza personale in proposito: “Sia benedetto … Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo stati consolati da Dio” (2Cor 1,3-4). Da ciò deriva, per noi, una considerazione sul modo di recare conforto, sullo stile della consolazione, che non è semplicemente questione di parole. Spesso le parole di consolazione appaiono banali, scontate, perfino fastidiose, come quelle degli amici di Giobbe: “Ne ho udite già molte di simile cose! Siete tutti consolatori molesti. Non avran termine le parole campate in aria? … Anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: vi affogherei con parole” (Gb 16,2-4).
La consolazione è, essenzialmente, una presenza partecipe, discreta, rispettosa. Fatta di silenzio, più che di parole. E se proprio parole ci devono essere, bisogna che queste rivelino, oltre che il coinvolgimento diretto della persona, anche la sua esperienza diretta del dolore, della prova e relativo strazio, turbamento. La consolazione è una presenza che rompe il nostro isolamento, va ad abitare nella solitudine dei fratelli per trasformarla in un luogo di comunione, fa emergere dal vuoto la forza di Dio. Le prove, le sofferenze, gli incidenti di percorso indeboliscono, fiaccano la resistenza, paralizzano, bloccano. Consolare è qualcosa più che lenire un dolore. In linguaggio biblico, consolare significa riabilitare, ricostruire, raddrizzare nella fede, rimettere in piedi, incoraggiare (ossia, ridare cuore). Il linguaggio dell’amore è un linguaggio che conforta, non che abbatte.
Dove arriva la consolazione, deve tirare aria di vita.